Etruschi anticlassici e modernissimi

Buongiorno Etruschi, è tornato il disordine

Marcello Nizzoli (1887-1969), Bozzetto per il Manifesto per la XIX Biennale di Venezia, 1934, CSAC - Centro Studi e Archivio della Comunicazione, Università di Parma
 

Eleonora Zamparutti

04/10/2024

E’ stata presenta oggi a Milano in anteprima la mostra “Etruschi del Novecento” che si svolgerà in due luoghi e momenti distinti, al MART di Rovereto dal 7 dicembre al 16 marzo 2025, e alla Fondazione Luigi Rovati di Milano dal 2 aprile al 3 agosto 2025. Popolo misterioso che aveva uno strano rapporto con la morte e l’aldilà, gli Etruschi hanno qualcosa di ineffabile che strega gli artisti del Novecento.

Curate da Lucia Mannini, Anna Mazzanti, Giulio Paolucci, Alessandra Tiddia, le due esposizioni complementari in cui si articola il percorso, hanno l’obiettivo di riportare in auge il fenomeno dell’ “etrusco-mania” che ha attraversato in vari momenti l’arte del Novecento, contagiando artisti italiani e internazionali, affascinati dalla carica di modernità della civiltà antica, lungo un arco temporale che va da D’Annunzio (che amava Volterra) a Mario Schifano che realizza la sua monumentale “Chimera” nel 1985 per l’anno degli Etruschi a Firenze. “Creerò una chimera. Una chimera autentica, come la fantasticavano gli Etruschi: un animale impossibile, fatto da dieci bestie diverse, metafora della superiorità della fantasia sulla realtà. Una chimera non si può raccontare, ma si può dipingere” dichiarava a quel tempo l’artista.

Fa notare l’archeologo Giulio Paolucci, massimo esperto in Italia di arte etrusca e conservatore del Museo d’Arte della Fondazione Luigi Rovati di Milano, una particolare coincidenza: gli Etruschi riemergono nei momenti critici della storia italiana.


 Mario Schifano (1934-1998), La Chimera, 1985, Collezione privata


Così fu all’indomani dell’Unità d’Italia, quando nel 1865 venne organizzata una mostra a Palermo. Per l’occasione i 12.000 reperti che appartenevano alla collezione del conte Pietro Bonci Casuccini partirono per nave da Livorno alla volta del capoluogo siciliano, dove restarono per oltre un mese nelle casse in attesa di essere esposti. Allora la cultura etrusca offriva il terreno fertile per creare le basi di un passato comune su cui costruire l’unità nazionale, e il collezionismo mostrò quanto importante fosse il suo contributo per salvare le opere dalla dispersione. Ma fu una passione lampo, poi sugli Etruschi scese nuovamente la nebbia.

Ritornano alla ribalta quando l’archeologo Giulio Quirino Giglioli nel 1916 porta alla luce la città di Veio, conquistata dai romani dopo un lungo assedio nel IV secolo a.C.. Nasce in quel momento un acceso dibattito se fosse superiore l’arte etrusca o l’arte classica, che si amplifica dopo la Prima guerra mondiale.

Forse perché sono lo specchio del disordine che la storia serve sul piatto, gli Etruschi hanno la meglio sui greci in una chiave anti-classica dell’arte specie negli ambienti intellettuali, tanto che si arriva a sostenere che la loro scoperta si debba più agli artisti che agli archeologi.

In quegli anni Ardengo Soffici scrive a Pablo Picasso: “Devi venire a Firenze per visitare il museo etrusco”. Soffici parla a Picasso di “pittura divina” intendendo dire con questo che la pittura etrusca non conosce tempo, è viva più che mai. “L’aspetto più singolare” afferma Vittorio Sgarbi, presidente del MART di Rovereto, “è che non c’è un antefatto etrusco e il contemporaneo: le due culture viaggiano sullo stesso binario. La deformazione dell’arte etrusca è segno di modernità.” Il popolo della Chimera è interprete ante litteram dell’antigrazioso.

Il Gran Tour settecentesco si trasferisce nel ‘900 in Toscana, anche grazie allo stimolo che dava David Herbert Lawrence, autore del celebre romanzo L’amante di Lady Chatterley, residente a quel tempo con la moglie Frida a Scandicci. I suoi testi forniscono un’ulteriore attualizzazione degli etruschi: vivi più che mai, gli etruschi diventano un mondo necessario.


Pablo Picasso (1881-1973), Canard pique-fleurs, 1951, Manufacture et musée nationaux, Sèvres


E’ talmente forte il magnetismo che l’antica civiltà esercita sugli artisti che Marino Marini arriva ad affermare: “io sono etrusco, assumendo dentro di sé la sensibilità del mondo di Cortona, Veio e Tarquinia. Ma non è l’unico. Duilio Cambelotti lavora ed elabora varie forme di buccheri. Quando Pablo Picasso scopre la ceramica nel Sud della Francia e manifesta il desiderio di metamorfosi, riprende le forme etrusche. Oltre allo scultore francese Émile-Antoine Bourdel e ad Alberto Giacometti, anche Libero Andreotti, per restare in Italia, insieme al suo allievo Lelio Gelli e a tutta la scuola toscana, si lasciano trascinare dalla etrusco-mania. Quinto Martini è etrusco nella dimensione psicologica. Raffaello Consortini è un altro scultore che riprende il modello dei reclinati e lo propone in una chiave di vitalità contadina.

La moda, il gusto, il sentimento etrusco entrano nel ‘900 e plasmano i manufatti delle arti applicate che riprendono forme e concetti dei manufatti plastici emersi durante gli scavi. Un quadernino appartenuto a Giò Ponti conferma il suo grande amore per gli Etruschi: le ciste che l’artista realizza per Richard Ginori e che gli valgono il Gran Prix all'Esposizione internazionale di arti decorative e industriali moderne di Parigi , sono una riedizione di oggetti femminili etruschi.

Altro momento di gloria è il dopoguerra: nel 1955 Milano dedica una mostra al popolo dell’Etruria. E poi di nuovo oggi riallacciamo un ponte con quel mondo disordinato, ibrido e anti-classico, presente che mai.


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