Il segno come vertigine
Foto di G.Bernoni |
L'opera La Coppia di Alberto Giacometti
06/04/2004
A chi gli domandava quali fossero i propositi che guidavano il suo lavoro, Alberto Giacometti rispondeva molto semplicemente che cercava solo di rappresentare quello che gli appariva davanti agli occhi, eleggendo la realtà a punto di partenza per avventurarsi nel mondo dell’illusione oltre la soglia del quotidiano dove concretamente si costituisce l’oggetto della visione. L’equilibrio ed il rigore delle sue creazioni hanno trasformato questa vertigine d’ispirazione in un’unica, ininterrotta e fulminante opera d’arte. La città di Budapest arricchisce il programma del “Festival di Primavera” anche grazie alla mostra “Alberto Giacometti 1901-1966” la quale ospita le creazioni, provenienti da varie collezioni, dell’artista svizzero di origini italiane in esposizione al Museo delle Belle Arti fino al 15 giugno. Oltre alle sue sculture più celebri, le filiformi figure di uomini che camminano e i busti bronzei dall’estrema fisicità, le sale accolgono lavori di natura grafica che percorrono cronologicamente la vita dell’artista.
Nell’esposizione centrale l’importanza dei disegni, le cui linee grafiche si definiscono essenzialmente come equilibrio tra l’interno e l’esterno. Il disegno in Giacometti diventa infatti una presa di possesso tutta interiore dove i motivi sono ripresi incessantemente dalla quotidianità con il risultato esemplare di estrarre il noto dall’ignoto. Il tratto spezzato, quasi singhiozzante, trae le forme dal vuoto e costringe l’oggetto, assieme alla sua “idea,” ad uscire da quella nicchia di indeterminatezza in cui si trova nascosto, portando la materia alla luce e alla coscienza. Nelle figure e nei volti creati da Giacometti si addensa la potenza e la totalità propria dell’istante iniziale quando tutto appare possibile e quindi, proprio per questo, denso di angoscia e di incertezza. Il bronzo di cui le sculture si compongono diviene metafora della pienezza dello spazio, in cui l’artista celebra la sua presenza nel momento stesso in cui sembra occuparlo e modificarlo con la sfida del suo gesto.
Jean Genet, scrittore e amico, scriveva in un suo celebre saggio: ”Giacometti non lavora né per i suoi contemporanei, né per le generazioni future: fa delle statue che alla fine incantano i morti”. Certo la morte è un tema centrale nella sua poetica ma rappresenta essenzialmente un punto di partenza perché Giacometti ha la capacità di trasformare un teschio in un volto vivo riuscendo a ridare luce alle sue orbite vuote. Possedendo da vero artista la facoltà di aprire la mente ad una conoscenza emotiva del reale che alimenta costantemente il sentimento delle cose, Giacometti riesce a mutare la sconfitta in trionfo e l’orrore in bellezza. Questo sentimento è maggiore nelle ultime “Têtes” presenti alla mostra dove la vitalità è tanto forte che, assieme ad una lancinante sensazione di solitudine, si avverte in loro una tale ansia di comunicare che rivendica il pieno diritto di appartenenza alla vita. Un dono che l’artista ci consegna, ai limiti della non rappresentabilità, che rincorre in ogni opera e che nasce dal suo rispetto, intessuto di meraviglia, di fronte alle espressioni viventi del mondo in cui come ha dichiarato lo stesso scultore: “Bisogna falsare le cose per essere più veri”.
ALBERTO GIACOMETTI (1901-1966)
Museo delle Belle Arti (Szépmuvészeti Mùzeum)
1146 Budapest, Dòzsa Gyorgy ùt. 41
www.szepmuveszeti.hu
Orario: 10.00/17.30, chiuso il lunedì.
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