Andrea Nuvoloni. Io non sono qui
![Andrea Nuvoloni. Io non sono qui, Chiesa di S. Pietro Martire, Verona Andrea Nuvoloni. Io non sono qui, Chiesa di S. Pietro Martire, Verona](http://www.arte.it/foto/600x450/9a/15567-nuvoloni.jpg)
Andrea Nuvoloni. Io non sono qui, Chiesa di S. Pietro Martire, Verona
Dal 05 Maggio 2013 al 12 Maggio 2013
Verona
Luogo: Chiesa di S. Pietro Martire
Indirizzo: piazza Sant’Anastasia
Orari: 10-13/ 14-18; chiuso lunedì mattina
Curatori: Livia Dubon
Costo del biglietto: ingresso gratuito
Telefono per informazioni: +39 045 8009686
E-Mail info: salvalarteverona@gmail.com
Sito ufficiale: http://www.andreanuvoloni.com
Legambiente Volontariato Verona è orgogliosa di presentare la mostra Io non sono qui del fotografo Veronese, Andrea Nuvoloni. L’esposizione, approvata dalla Direzione dei Musei di Castelvecchio e patrocinata dal Comune di Verona, rimarrà aperta dal 3 al 12 Maggio e verrà inaugurata il 4 Maggio alla presenza di Lorenzo Albi, presidente di Legambiente Verona. A seguire concerto degli Ancher.
La mostra, inserita nella cornice del progetto Salvalarte di Legambiente, si augura di favorire un interesse estetico ed artistico nei confronti di luoghi nascosti e poco visitati, come la Chiesa di San Pietro Martire, e di sensibilizzare il pubblico verso la problematica del degrado di molte aree urbane. L’Ospedale psichiatrico abbandonato di Granzette (Rovigo) e l’ex-zuccherificio di San Bonifacio sono, infatti, i protagonisti di questa mostra.
Io non sono qui cattura paesaggi di memorie dimenticate, poesie evocative che Nuvoloni scatta per regalarci una riflessione sull’intimo, sulle tracce emotive che lasciamo in quei luoghi che abbandoniamo. Scarpe, fotografie, una scatola “dei tesori”, archivi abbandonati, sono tutti ritratti di vite passate. Jacques Derrida direbbe che un ritratto rispetto al viso che rappresenta ritorna, nella sua immutata permanenza, come uno spettro dal passato. È la rovina della nostra sembianza. A differenza però del ritratto, che ispira un certo narcisismo melanconico, le costruzioni, una volta create, sono destinate come il nostro corpo ad invecchiare e, se non curate, diventano cicatrici.
I luoghi abbandonati non sono solo materia ma, in quanto rovine, sono immagini capaci di proiettarci in un limbo temporale alla Ballard. Il fascino per le macerie non è nulla di nuovo. Brian Dillon nella sua “Breve storia della decadenza” definisce il nostro un tempo di macerie. L’estetica della rovina ha radici lontane nel rinascimento ma, solo con il XX secolo, staccandosi dalle melanconie romantiche, acquista ambigui e molteplici significati legati prima al trionfo e poi al crollo di utopie come quella modernista o di regimi come quello Sovietico. L’esplosione dei Buddha in Birmania, la distruzione delle due torri e la crisi economica globale con le sue costruzioni mai finite o abbandonate, ci presentano con irruenza questo problema.
L’interesse mostrato in Italia, a distanza di trentacinque anni dalla legge Basaglia, verso ex-ospedali psichiatrici abbandonati, soggetto prevalente nella mostra, è un esempio nazionale di estetica delle rovine del XXI secolo. Vari sono i significati e i soggetti analizzati. Alcuni progetti accentuano con la post-produzione l’aspetto spettrale, mentre altri, focalizzandosi sui materiali ospedalieri, sembrano denunciare lo spreco o la malagestione che ha seguito l’abbandono di queste strutture. In questi scatti di Nuvoloni, cui bianco e nero dona una patina melanconica, prevale l’umanità assente. Ci sono i traumi, i dolori e le speranze di quelli che hanno vissuto una volta in quei luoghi. Tra le macerie, però ci auguriamo che si possano trovare anche gli elementi per immaginare il futuro.
La mostra, inserita nella cornice del progetto Salvalarte di Legambiente, si augura di favorire un interesse estetico ed artistico nei confronti di luoghi nascosti e poco visitati, come la Chiesa di San Pietro Martire, e di sensibilizzare il pubblico verso la problematica del degrado di molte aree urbane. L’Ospedale psichiatrico abbandonato di Granzette (Rovigo) e l’ex-zuccherificio di San Bonifacio sono, infatti, i protagonisti di questa mostra.
Io non sono qui cattura paesaggi di memorie dimenticate, poesie evocative che Nuvoloni scatta per regalarci una riflessione sull’intimo, sulle tracce emotive che lasciamo in quei luoghi che abbandoniamo. Scarpe, fotografie, una scatola “dei tesori”, archivi abbandonati, sono tutti ritratti di vite passate. Jacques Derrida direbbe che un ritratto rispetto al viso che rappresenta ritorna, nella sua immutata permanenza, come uno spettro dal passato. È la rovina della nostra sembianza. A differenza però del ritratto, che ispira un certo narcisismo melanconico, le costruzioni, una volta create, sono destinate come il nostro corpo ad invecchiare e, se non curate, diventano cicatrici.
I luoghi abbandonati non sono solo materia ma, in quanto rovine, sono immagini capaci di proiettarci in un limbo temporale alla Ballard. Il fascino per le macerie non è nulla di nuovo. Brian Dillon nella sua “Breve storia della decadenza” definisce il nostro un tempo di macerie. L’estetica della rovina ha radici lontane nel rinascimento ma, solo con il XX secolo, staccandosi dalle melanconie romantiche, acquista ambigui e molteplici significati legati prima al trionfo e poi al crollo di utopie come quella modernista o di regimi come quello Sovietico. L’esplosione dei Buddha in Birmania, la distruzione delle due torri e la crisi economica globale con le sue costruzioni mai finite o abbandonate, ci presentano con irruenza questo problema.
L’interesse mostrato in Italia, a distanza di trentacinque anni dalla legge Basaglia, verso ex-ospedali psichiatrici abbandonati, soggetto prevalente nella mostra, è un esempio nazionale di estetica delle rovine del XXI secolo. Vari sono i significati e i soggetti analizzati. Alcuni progetti accentuano con la post-produzione l’aspetto spettrale, mentre altri, focalizzandosi sui materiali ospedalieri, sembrano denunciare lo spreco o la malagestione che ha seguito l’abbandono di queste strutture. In questi scatti di Nuvoloni, cui bianco e nero dona una patina melanconica, prevale l’umanità assente. Ci sono i traumi, i dolori e le speranze di quelli che hanno vissuto una volta in quei luoghi. Tra le macerie, però ci auguriamo che si possano trovare anche gli elementi per immaginare il futuro.
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