Thorsten Kirchhoff. Retrovisione
Dal 10 Aprile 2014 al 04 Maggio 2014
Roma
Luogo: Quadriennale - Villa Carpegna
Indirizzo: Circonvallazione Aurelia 72
Orari: da lunedì a venerdì 9.30-13.30 / 14.30-17
Telefono per informazioni: +39 06 9774531
E-Mail info: info@quadriennalediroma.org
Sito ufficiale: http://www.quadriennalediroma.org
Giovedì 10 aprile 2014 alle ore 18 si inaugura alla Quadriennale, a Villa Carpegna, il primo appuntamento del ciclo espositivo “La poetica degli omaggi”. Articolato in tre mostre personali da aprile a luglio 2014, introdotte ciascuna da tavole rotonde, il ciclo presenta opere che, all’interno della vasta declinazione del concetto di citazione nell’arte contemporanea, sono accomunate dalla rielaborazione di immagini e segni provenienti dal linguaggio cinematografico, dalla scrittura, dall’arte visiva.
La mostra di Thorsten Kirchhoff “Retrovisione”, introdotta da Bruno Di Marino, presenta per la prima volta la rassegna antologica dei film realizzati dall’artista dal 1997 ad oggi. Kirchhoff, che ha fatto del cinema il suo archivio di immagini, sostiene che il cinema è “un archivio senza fine”, che qualsiasi immagine si cerchi, la si trovi nel cinema. Strutture narrative composte da innesti testuali, quanto da associazioni e rimandi, generano racconti perturbanti che oltrepassano lo schermo per dialogare con lo spazio della realtà.
Precede l’inaugurazione la presentazione del libro di Lucilla Meloni “Arte guarda Arte. Pratiche della citazione nell’arte contemporanea”, (Postmediabooks, Milano 2013), di cui parleranno con l’autrice Bruno Di Marino e Daniela Lancioni.
RETROVISIONE
Intervista di Lucilla Meloni
Lucilla Meloni: Partiamo dalla mostra che qui presenti: Retrovisione, un’antologia dei tuoi film dal 1997, congegnata come un’installazione che mette insieme immagini filmiche, segno sonoro e segno visivo a comporre, come spesso nei tuoi lavori, una sorta di set cinematografico. Hai sostenuto più volte che il cinema è un archivio che contiene tutte le immagini, un luogo in cui coesistono finzione e realtà, uno strumento, per te, per praticare quella “sorta di psicoanalisi della realtà”, come hai definito il tuo lavoro. Presentare i film sempre all’interno di una installazione serve a sottolineare il rapporto osmotico tra la finzione e la realtà?
Thorsten Kirchhoff Penso che l’opera, in un modo o nell’altro, abbia sempre bisogno di integrarsi con l’ambiente in cui si trova. Nel caso di questa mostra, ho creato nella sala delle colonne un luogo che è anche un trucco architettonico, dove si attiva un’osmosi tra i materiali, come una serra si potrebbe dire, dove ci sono oggetti come personaggi, dove accade una specie di fotosintesi, come nella vita della pellicola, dove la luce che arriva viene restituita come immagine. In tutto il mio lavoro l’immagine si confronta con il materiale perché, in fondo, un set cinematografico contiene nel suo DNA la possibilità di essere immagine.
L. M. L’idea di poter procedere a una specie di “psicoanalisi della realtà” indica che il tuo è un lavoro strettamente connesso ai dati di realtà; l’uso del cinema poi, come arte della finzione ma potentemente realistica, ti consente la messa in campo di strutture narrative che nascono sia da innesti testuali di brani filmici, sia dalla ricreazione di ambientazioni cinematografiche, volte alla narrazione di storie composte da associazioni di immagini, in cui coesistono il tragico con l’ironico, che procedono per slittamenti semantici, per salti e per associazioni.
T. K. Anche nei sogni c’è una narrazione che ha una sua logica in quel contesto: quando si segue contemporaneamente la logica dei sogni e quella della realtà, questa viene rappresentata in modo distorto. Penso che in generale quello che faccio è guardare al contempo i due lati della realtà: quello che vedo e quello che non vedo.
L. M. Nei tuoi film ci sono sempre una trama e un linguaggio impeccabile. Citi tanto le immagini, quanto la musica. Ti chiedo per quale procedimento arrivi a una determinata scelta e poi come associ gli elementi provenienti dai diversi contesti.
T. K. Fare arte è una sorta di enigmistica: vai per associazioni, una cosa porta a un’altra; un effetto domino che all’inizio va per i fatti suoi nel subconscio, poi si razionalizza. È un po’ creare degli enigmi e cercare di risolverli; certe immagini vengono da cose che ho visto e faccio diventare mie. Tu puoi accettare o negare un linguaggio, l’importante è avere la coscienza di quello che vuoi fare, conoscerne le regole. I miei film seguono un linguaggio cinematografico, pretendono di essere del cinema ma al loro interno c’è un non-sense che rimanda all’arte visiva, all’invenzione extramedia.
L. M. Il tuo è un procedere transmediale, immagini trasmigrano dal fotogramma del film alla pittura, alla fotografia, alle installazioni… Mi hai parlato di montaggio.
T. K. Come il cinema, l’arte è una questione di montaggio: si tratta di imparare a dosare gli elementi che scegli di usare. Jacques Tati versus Suzi Quatro è un esempio dell’accostamento di cose che serve a costruire nuovi rapporti. E’ una sorta di analisi dell’humor di Tati messo insieme alla necessità di avere la forza di stare su un palcoscenico (la rockstar Suzi Quatro), loro erano due performer. Non potrei prescindere né dall’immagine né dal sonoro, che spinge in una direzione o in un’altra, dove per sonoro intendo anche quello che si chiama sound design, che, con i rumori della vita, ti fa entrare e uscire dalla realtà. Dal film si possono generare altre opere: installazione, quadro, scultura, e da queste, al contrario, può essere generato il film, e ritorniamo al concetto di fotosintesi come scambio. Ad esempio in My Dear Thorndike ci sono mie opere d’arte che fanno da scena, che vengono attraversate letteral-mente dal protagonista. Nel film Una serata con il dott. Hoffmann, la casa che introduce la storia è un’opera che ho esposto a Torino da Peola. Ho realizzato questo oggetto che, senza l’idea del film, non mi sarebbe venuto in mente.
L. M. I film sono fatti di citazioni visive e sonore a volte evidenti – innesti testuali – altre volte evocative.Hai scritto che è importante che lo spettatore riconosca la scena in quanto citazione, perché questo gli consente di vedere le cose da un altro punto di vista.
T. K. Prendere una cosa già nota e deviarla… Usare degli elementi già conosciuti dallo spettatore, che si aspetta tutta una serie di cose, ma al posto della ragazza che va giù in cantina (Psycho), qui c’è l’aspirina che aspetta di far fuori il mal di testa del dott. Hoffmann. C’è l’immagine di una strada che conosciamo tutti, solo che qui io faccio una deviazione… faccio vedere l’aspirina come se fosse una persona e questo è un elemento che proviene dalle arti visive, un’assurdità che proviene da un mondo in cui non ci sono delle regole.
L. M. Dai film emerge anche un messaggio sociale, politico.
T. K. Overdrive è l’esempio di una coscienza della realtà sociale, parla di una società che ha accettato di subire il cosiddetto progresso in un autolesionismo totale: l’uomo che sta sul ramo e sega il ramo su cui è seduto è una metafora dell’umanità. Stop motion parla di una memoria frantumata da cui può nascere una memoria nuova che ti porta in varie direzioni … direzioni che vanno verso il baratro.
L. M. Però alla fine del film dici “anche se”, come se ci fosse una via alternativa al baratro.
T. K. In un film c’è David Niven nel deserto, con le gomme bucate e con la benzina finita, che, in risposta all’amico che gli chiede se stia male, dice: “solo quando rido”. Mi sembra che il mio lavoro artistico sia basato su questo concetto: se vuoi ridere bisogna scegliere.
L. M. A Villa Carpegna tra la cucina e un salotto c’è un’apertura da cui proviene una musica.
T. K. Si, è un tipico esempio di come le cose possano cambiare e diventare soluzioni formali diverse per ogni soggetto. Nella storia di Rosemary’s Baby c’è una porta di comunicazione tra la sua casa e quella dei satanisti. La musica del film di Polanski è il prototipo della musica che indica forte tensione e che in sé contiene tantissime immagini che conosciamo già (Non aprire quella porta, Psycho). Guardi dentro ma non puoi entrare in cucina, guardi dallo sportellino… Mistero e tensione … potrebbe finire male… “anche se”…
La mostra successiva tappa sarà l’8 maggio 2014 con l’inaugurazione della mostra di Gianfranco Baruchello “Intorno a Verifica incerta”, introdotta da una tavola rotonda con Gianfranco Baruchello, Lucilla Meloni, Alessandro Rabottini, Carla Subrizi.
L’appuntamento conclusivo sarà il 5 giugno 2014 con la vernice della mostra di Mauricio Lupini “Spazio senza volume”, preceduta da una conversazione tra Viviana Gravano, Mauricio Lupini, Lucilla Meloni.
La mostra di Thorsten Kirchhoff “Retrovisione”, introdotta da Bruno Di Marino, presenta per la prima volta la rassegna antologica dei film realizzati dall’artista dal 1997 ad oggi. Kirchhoff, che ha fatto del cinema il suo archivio di immagini, sostiene che il cinema è “un archivio senza fine”, che qualsiasi immagine si cerchi, la si trovi nel cinema. Strutture narrative composte da innesti testuali, quanto da associazioni e rimandi, generano racconti perturbanti che oltrepassano lo schermo per dialogare con lo spazio della realtà.
Precede l’inaugurazione la presentazione del libro di Lucilla Meloni “Arte guarda Arte. Pratiche della citazione nell’arte contemporanea”, (Postmediabooks, Milano 2013), di cui parleranno con l’autrice Bruno Di Marino e Daniela Lancioni.
RETROVISIONE
Intervista di Lucilla Meloni
Lucilla Meloni: Partiamo dalla mostra che qui presenti: Retrovisione, un’antologia dei tuoi film dal 1997, congegnata come un’installazione che mette insieme immagini filmiche, segno sonoro e segno visivo a comporre, come spesso nei tuoi lavori, una sorta di set cinematografico. Hai sostenuto più volte che il cinema è un archivio che contiene tutte le immagini, un luogo in cui coesistono finzione e realtà, uno strumento, per te, per praticare quella “sorta di psicoanalisi della realtà”, come hai definito il tuo lavoro. Presentare i film sempre all’interno di una installazione serve a sottolineare il rapporto osmotico tra la finzione e la realtà?
Thorsten Kirchhoff Penso che l’opera, in un modo o nell’altro, abbia sempre bisogno di integrarsi con l’ambiente in cui si trova. Nel caso di questa mostra, ho creato nella sala delle colonne un luogo che è anche un trucco architettonico, dove si attiva un’osmosi tra i materiali, come una serra si potrebbe dire, dove ci sono oggetti come personaggi, dove accade una specie di fotosintesi, come nella vita della pellicola, dove la luce che arriva viene restituita come immagine. In tutto il mio lavoro l’immagine si confronta con il materiale perché, in fondo, un set cinematografico contiene nel suo DNA la possibilità di essere immagine.
L. M. L’idea di poter procedere a una specie di “psicoanalisi della realtà” indica che il tuo è un lavoro strettamente connesso ai dati di realtà; l’uso del cinema poi, come arte della finzione ma potentemente realistica, ti consente la messa in campo di strutture narrative che nascono sia da innesti testuali di brani filmici, sia dalla ricreazione di ambientazioni cinematografiche, volte alla narrazione di storie composte da associazioni di immagini, in cui coesistono il tragico con l’ironico, che procedono per slittamenti semantici, per salti e per associazioni.
T. K. Anche nei sogni c’è una narrazione che ha una sua logica in quel contesto: quando si segue contemporaneamente la logica dei sogni e quella della realtà, questa viene rappresentata in modo distorto. Penso che in generale quello che faccio è guardare al contempo i due lati della realtà: quello che vedo e quello che non vedo.
L. M. Nei tuoi film ci sono sempre una trama e un linguaggio impeccabile. Citi tanto le immagini, quanto la musica. Ti chiedo per quale procedimento arrivi a una determinata scelta e poi come associ gli elementi provenienti dai diversi contesti.
T. K. Fare arte è una sorta di enigmistica: vai per associazioni, una cosa porta a un’altra; un effetto domino che all’inizio va per i fatti suoi nel subconscio, poi si razionalizza. È un po’ creare degli enigmi e cercare di risolverli; certe immagini vengono da cose che ho visto e faccio diventare mie. Tu puoi accettare o negare un linguaggio, l’importante è avere la coscienza di quello che vuoi fare, conoscerne le regole. I miei film seguono un linguaggio cinematografico, pretendono di essere del cinema ma al loro interno c’è un non-sense che rimanda all’arte visiva, all’invenzione extramedia.
L. M. Il tuo è un procedere transmediale, immagini trasmigrano dal fotogramma del film alla pittura, alla fotografia, alle installazioni… Mi hai parlato di montaggio.
T. K. Come il cinema, l’arte è una questione di montaggio: si tratta di imparare a dosare gli elementi che scegli di usare. Jacques Tati versus Suzi Quatro è un esempio dell’accostamento di cose che serve a costruire nuovi rapporti. E’ una sorta di analisi dell’humor di Tati messo insieme alla necessità di avere la forza di stare su un palcoscenico (la rockstar Suzi Quatro), loro erano due performer. Non potrei prescindere né dall’immagine né dal sonoro, che spinge in una direzione o in un’altra, dove per sonoro intendo anche quello che si chiama sound design, che, con i rumori della vita, ti fa entrare e uscire dalla realtà. Dal film si possono generare altre opere: installazione, quadro, scultura, e da queste, al contrario, può essere generato il film, e ritorniamo al concetto di fotosintesi come scambio. Ad esempio in My Dear Thorndike ci sono mie opere d’arte che fanno da scena, che vengono attraversate letteral-mente dal protagonista. Nel film Una serata con il dott. Hoffmann, la casa che introduce la storia è un’opera che ho esposto a Torino da Peola. Ho realizzato questo oggetto che, senza l’idea del film, non mi sarebbe venuto in mente.
L. M. I film sono fatti di citazioni visive e sonore a volte evidenti – innesti testuali – altre volte evocative.Hai scritto che è importante che lo spettatore riconosca la scena in quanto citazione, perché questo gli consente di vedere le cose da un altro punto di vista.
T. K. Prendere una cosa già nota e deviarla… Usare degli elementi già conosciuti dallo spettatore, che si aspetta tutta una serie di cose, ma al posto della ragazza che va giù in cantina (Psycho), qui c’è l’aspirina che aspetta di far fuori il mal di testa del dott. Hoffmann. C’è l’immagine di una strada che conosciamo tutti, solo che qui io faccio una deviazione… faccio vedere l’aspirina come se fosse una persona e questo è un elemento che proviene dalle arti visive, un’assurdità che proviene da un mondo in cui non ci sono delle regole.
L. M. Dai film emerge anche un messaggio sociale, politico.
T. K. Overdrive è l’esempio di una coscienza della realtà sociale, parla di una società che ha accettato di subire il cosiddetto progresso in un autolesionismo totale: l’uomo che sta sul ramo e sega il ramo su cui è seduto è una metafora dell’umanità. Stop motion parla di una memoria frantumata da cui può nascere una memoria nuova che ti porta in varie direzioni … direzioni che vanno verso il baratro.
L. M. Però alla fine del film dici “anche se”, come se ci fosse una via alternativa al baratro.
T. K. In un film c’è David Niven nel deserto, con le gomme bucate e con la benzina finita, che, in risposta all’amico che gli chiede se stia male, dice: “solo quando rido”. Mi sembra che il mio lavoro artistico sia basato su questo concetto: se vuoi ridere bisogna scegliere.
L. M. A Villa Carpegna tra la cucina e un salotto c’è un’apertura da cui proviene una musica.
T. K. Si, è un tipico esempio di come le cose possano cambiare e diventare soluzioni formali diverse per ogni soggetto. Nella storia di Rosemary’s Baby c’è una porta di comunicazione tra la sua casa e quella dei satanisti. La musica del film di Polanski è il prototipo della musica che indica forte tensione e che in sé contiene tantissime immagini che conosciamo già (Non aprire quella porta, Psycho). Guardi dentro ma non puoi entrare in cucina, guardi dallo sportellino… Mistero e tensione … potrebbe finire male… “anche se”…
La mostra successiva tappa sarà l’8 maggio 2014 con l’inaugurazione della mostra di Gianfranco Baruchello “Intorno a Verifica incerta”, introdotta da una tavola rotonda con Gianfranco Baruchello, Lucilla Meloni, Alessandro Rabottini, Carla Subrizi.
L’appuntamento conclusivo sarà il 5 giugno 2014 con la vernice della mostra di Mauricio Lupini “Spazio senza volume”, preceduta da una conversazione tra Viviana Gravano, Mauricio Lupini, Lucilla Meloni.
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