Novecento. La fotografia
Dal 10 Marzo 2013 al 25 Maggio 2013
Brescia
Luogo: Museo Ken Damy di Fotografia Contemporanea
Indirizzo: Corsetto S.Agata 22
Orari: da giovedì a sabato 15.30-19.30 o su appuntamento
Curatori: Ken Damy
Telefono per informazioni: +39 030 3758370
E-Mail info: info@museokendamy.com
Sito ufficiale: http://www.museokendamy.com/
"...la determinazione che la fotografia fosse arte, affrancata alla pittura, si concretizzò da parte di molti intellettuali – come
Gertrude Stein, Oscar Wilde, George Bernard Shaw, del filosofo Henry Bergson e di artisti quali Vassilji Kandisky, Marcel Duchamp e Man Ray – attorno Camera Work, quel movimento, nonchè rivista newyorkese fondato mel 1903 da Alfred Stieglitz. Il fermento culturale e il confronto tra le varie discipline segnarono l’alto livello di questa rivista, uscita in una cinquantina di numeri nei suoi 15 anni di vita.
Essa coincise con il successo del pittorialismo, ma nei successivi anni di ricerca sperimentale venne ad imporsi una nuova volontà estetica e una ridefinizione degli ambiti fotografici, che segnarono la svolta decisiva verso la sensibilità modernista.
Agli inizi del ‘900, le arti avvertono il sentimento di crisi della civiltà. L’esplosione dei movimenti avanguardistici, a modo suo, rompe con i presupposti tradizionali della mimèsi, che ha come conseguenza l’allontanamento dalla realtà e la costituzione di moduli sintetici e riduttivi di essa.
È la fine dell’arte, intesa come comunicazione delle impressioni ricavate dall’osservazione dei fenomeni naturali; ma è l’inizio di una serie di nuovi codici che esprimono l’interiorità e il pensiero dell’artista, luogo inalienabile, assoluto e incensurabile, dove far esplodere la propria soggettività ed una rinnovata idea di uomo vagante nell’universo.
Coscienza della frammentarietà del soggetto e sperimentazione e necessità di una maggiore libertà, sia espressiva, sia
comportamentale, sono gli elementi trainanti del nuovo sentire modernista, che si estenderà fino agli anni ’50 del ‘900.
La volontà di scandalizzare, di irrompere nell’immaginario e di abbandonare la tradizione pittorica ed i suoi presupposti – in particolare quella mimetica, durata quasi 400 anni, che aveva ingabbiato le forme mortificando l’irrazionale attraverso le sue idee di ordine, misura e armonia – volge alla fine della rappresentazione, in quanto la realtà appare ora troppo frammentaria e contraddittoria.
L’abbandono del realismo, la totale libertà della creazione artistica, la fine della separazione dei generi – tra cui la
fotografia -, l’entrata nelle opere d’arte di oggetti, scarti e frammenti della realtà contingente segnano la fine dei temi
tradizionali, quali il ritratto, il paesaggio e la natura morta, che sono sostituiti da altri che rispecchiano l’interiorità
dell’artista, la visionarietà, il sogno, la paura, l’incubo, la casualità, la difficoltà di comunicare, il funzionamento della
realtà sul modello della macchina.
L’esperienza futurista, tesa ad esaltare il progresso tecnologico e a dissacrare la tradizionale cultura borghese, lesse nelle opere di Antonio Giulio e Arturo Bragaglia una novità assoluta, una inedita serie di sperimentazioni fotografiche, le quali si proponevano la lettura dinamica del gesto. In questa poetica rivoluzionaria, sensoria e psicologica dell’immagine, il fotodinamismo dei fratelli Bragaglia diventa sintesi del movimento, essenza di gesto comportamentale, registrazione della traiettoria gestuale del soggetto ritratto in lunghe pose. Il loro studio si fa riflessione
sulla smaterializzazione della forma nello spazio e ricerca dell’interiorità delle cose, tratti dall’emozione, dimensione del
reale inafferrabile in bilico tra scientificità ed estetizzazione, idealizzazione di una “realtà che ci ripugna per la sua freddezza e materialità” (Antonio Giulio Bragaglia). La visione fotodinamica rivendica la velocità come insieme di frammenti temporali di un flusso transitorio del vivere che diventa eterno, realtà impressa nel flusso cosmico..."
tratto dal testo di presentazione di Giampiero Guiotto per la Biennale di Fotografia (Brescia, 2010)
Gertrude Stein, Oscar Wilde, George Bernard Shaw, del filosofo Henry Bergson e di artisti quali Vassilji Kandisky, Marcel Duchamp e Man Ray – attorno Camera Work, quel movimento, nonchè rivista newyorkese fondato mel 1903 da Alfred Stieglitz. Il fermento culturale e il confronto tra le varie discipline segnarono l’alto livello di questa rivista, uscita in una cinquantina di numeri nei suoi 15 anni di vita.
Essa coincise con il successo del pittorialismo, ma nei successivi anni di ricerca sperimentale venne ad imporsi una nuova volontà estetica e una ridefinizione degli ambiti fotografici, che segnarono la svolta decisiva verso la sensibilità modernista.
Agli inizi del ‘900, le arti avvertono il sentimento di crisi della civiltà. L’esplosione dei movimenti avanguardistici, a modo suo, rompe con i presupposti tradizionali della mimèsi, che ha come conseguenza l’allontanamento dalla realtà e la costituzione di moduli sintetici e riduttivi di essa.
È la fine dell’arte, intesa come comunicazione delle impressioni ricavate dall’osservazione dei fenomeni naturali; ma è l’inizio di una serie di nuovi codici che esprimono l’interiorità e il pensiero dell’artista, luogo inalienabile, assoluto e incensurabile, dove far esplodere la propria soggettività ed una rinnovata idea di uomo vagante nell’universo.
Coscienza della frammentarietà del soggetto e sperimentazione e necessità di una maggiore libertà, sia espressiva, sia
comportamentale, sono gli elementi trainanti del nuovo sentire modernista, che si estenderà fino agli anni ’50 del ‘900.
La volontà di scandalizzare, di irrompere nell’immaginario e di abbandonare la tradizione pittorica ed i suoi presupposti – in particolare quella mimetica, durata quasi 400 anni, che aveva ingabbiato le forme mortificando l’irrazionale attraverso le sue idee di ordine, misura e armonia – volge alla fine della rappresentazione, in quanto la realtà appare ora troppo frammentaria e contraddittoria.
L’abbandono del realismo, la totale libertà della creazione artistica, la fine della separazione dei generi – tra cui la
fotografia -, l’entrata nelle opere d’arte di oggetti, scarti e frammenti della realtà contingente segnano la fine dei temi
tradizionali, quali il ritratto, il paesaggio e la natura morta, che sono sostituiti da altri che rispecchiano l’interiorità
dell’artista, la visionarietà, il sogno, la paura, l’incubo, la casualità, la difficoltà di comunicare, il funzionamento della
realtà sul modello della macchina.
L’esperienza futurista, tesa ad esaltare il progresso tecnologico e a dissacrare la tradizionale cultura borghese, lesse nelle opere di Antonio Giulio e Arturo Bragaglia una novità assoluta, una inedita serie di sperimentazioni fotografiche, le quali si proponevano la lettura dinamica del gesto. In questa poetica rivoluzionaria, sensoria e psicologica dell’immagine, il fotodinamismo dei fratelli Bragaglia diventa sintesi del movimento, essenza di gesto comportamentale, registrazione della traiettoria gestuale del soggetto ritratto in lunghe pose. Il loro studio si fa riflessione
sulla smaterializzazione della forma nello spazio e ricerca dell’interiorità delle cose, tratti dall’emozione, dimensione del
reale inafferrabile in bilico tra scientificità ed estetizzazione, idealizzazione di una “realtà che ci ripugna per la sua freddezza e materialità” (Antonio Giulio Bragaglia). La visione fotodinamica rivendica la velocità come insieme di frammenti temporali di un flusso transitorio del vivere che diventa eterno, realtà impressa nel flusso cosmico..."
tratto dal testo di presentazione di Giampiero Guiotto per la Biennale di Fotografia (Brescia, 2010)
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