ART TALK | Gli Innovatori #05 Mario Paloschi
Se Ballandi si dà al cinema
Un'immagine dal set de "Le Ninfee di Monet. Un incantesimo di acqua e di luce" prodotto da Ballandi Arts e Nexo Digital . Nella foto Ross King assieme alla troupe del film. - courtesy © 2018 Ballandi Arts
Piero Muscarà
12/11/2018
Roma - Lo sguardo guizzante e intelligente è la prima cosa che colpisce in Mario Paloschi, cremonese, 53 anni, amministratore delegato di Ballandi Arts e ora di tutto il gruppo Ballandi dopo un management buyout seguito alla scomparsa dello storico fondatore, l’agente e king maker di tante star della musica e del piccolo schermo Bibi Ballandi.
E quell’aria apparentemente bonaria e un visto quasi seicentesco incorniciato da un baffetto e un pizzo caravaggesco un po’ vezzoso ma così demodé da risultare persino una nota di stile.
Ci accoglie in una giornata fredda e umida di pioggia battente, di quelle che a Roma ci sono solo a novembre, nel suo ufficio a due passi da Viale Mazzini. Una piccola stanza piena di quadri, libri, idee, separata da un corridoio che si allunga in una sequenza di altre stanze e sale riunione. “Scusami arrivo subito, finisco un altro appuntamento” dice gentile, poi dopo qualche istante vedi sfilare veloce Raffaella - sì l’icona dal caschetto biondo - e fa un po’ strano in apparenza parlare d’arte in un luogo così pop uno penserebbe. Poi trovi sul suo tavolo appoggiata “La vita di Napoleone raccontata da lui stesso” in una prima edizione Piccola Biblioteca Longanesi del 1952 un po’ smangiucchiata e ti ricredi.
Mario Paloschi AD di Ballandi Arts | Courtesy © Ballandi Multimedia
Ma Ballandi è così, l’ibrido che non ti aspetti. L’arthouse che nella stanza accanto cucina i palinsesti per la televisione mainstream da Celentano a Fiorello e nel frattempo lavora ad alcuni dei programmi televisivi che reggono la programmazione di canali intellò come Sky Arte o RAI Storia.
“Futuro, mi sono sempre occupato soprattutto di futuro - si schernisce Paloschi - e con Bibi Ballandi ci siamo capiti al volo. Quando gli ho detto che c’era spazio per produrre arte e cultura in tv in Italia, lui mi ha risposto ‘Mario io c’ho la terza media, ma è una sfida che abbraccio con entusiasmo’ e così siamo partiti. D’istinto. Era il 2013 e io non avevo mai fatto nulla in tv. Ero un totale esordiente.”
Il mondo dell’arte lo conosce bene però.
“Sì, dal 2001 mi sono occupato di divulgazione culturale ed ho fondato e gestito Arthemisia per oltre 10 anni (la prima srl, quella finita poi in concordato preventivo nel 2012 sulle cui ceneri si è fondato l’omonimo gruppo oggi presieduto dalla moglie di Paloschi, Iole Siena - NdR) una società con cui ho organizzato centinaia di mostre d’arte di grande successo e curato l’organizzazione e la gestione museale di una infinità di luoghi in Italia.”
Un primo amore per Paloschi organizzare mostre, tanto che il suo profilo Twitter ne porta ancora ironicamente il segno - @arthemisio il suo nickname.
“Sì un amore per il ‘raccontare storie’ che poi è quello che si fa quando si organizza una mostra d’arte. Non sono solo una sequenza di opere messe in scena, ma è la storia che regge tutto il progetto. In questo senso c’è una grande vicinanza tra questi due mondi, mostre e tv.”
E come arriva dunque alla televisione?
“Arrivo sempre dove mi prefiggo - ride Paloschi - Quando Rupert Murdoch ha annunciato in un industry dinner che avrebbe dato vita al canale Sky Arte in Italia mi sono trovato dopo poco coinvolto nella progettazione di questa idea come consulente. Poco più di due anni di lavoro, molto interessante, in cui mi sono reso conto che c’era un buco evidente in Italia. Grande qualità e tradizione di documentari, ma zero prodotto televisivo disponibile e poca attenzione produttiva per un modello di televisione tematico dedicato a temi tutto sommato considerati ancora oggi marginali.”
Dove altri vedono problemi lei ha colto un’opportunità..
“In un certo senso sì. Non è facile produrre cultura per la tv tematica. I programmi vengono comprati a prezzi molto bassi sui mercati internazionali e un canale come Sky Arte ha una cinquantina di ore di programmazione originale all’anno su cui investire, a dei prezzi che sono dieci, venti volte inferiori a quelli dei grandi canali generalisti.”
Come fare dunque?
“Industrializzando e serializzando il processo produttivo. Organizzando meglio la progettazione del programma tv e concentrando lo sforzo produttivo in poco tempo. Il che vuol dire scrivere e pre-produrre i programmi in modo molto diverso dall’approccio tradizionale a cui eravamo abituati in Italia.”
Che è la formula ormai classica dei canali tv tematici..
“Con una differenza. La qualità. Perché parlare di arte e cultura necessita di due altre cose: produzioni semplici e una grande attenzione alla dimensione estetica e visiva del prodotto. Costruire una narrazione accessibile a tutti ma non noiosa per gli art lover. Come per le mostre.”
L’ha trovata la formula?
“La fortuna è stato poter costruire questo percorso all’interno di un gruppo solido come Ballandi in grado di dare garanzia ai broadcaster del livello qualitativo prima ancora di iniziare a farci conoscere e di supportare l’attività da start up finanziariamente, con le spalle larghe di una compagnia che produce grandi programmi per budget importanti. E così in 6 anni abbiamo potuto produrre oltre 450 ore di programmi e aprire la strada a nuovi autori, registi, produttori. Programmi per altro che per vocazione hanno una ‘bassa obsolescenza’ cioè vanno a costruire non solo i palinsesti, ma le library dei canali tv che li ospitano. Programmi come Le Sette Meraviglie giunti oggi alla sesta edizione sono un long runner di grande successo su Sky Arte.”
La ricostruzione di un'opera di Gustav Klimt dal programma tv "Lost Paintings" prodotto da Ballandi Arts per l'hub europeo di Sky Arts | Courtesy © 2018 Ballandi Arts
Che caratteristica hanno in comune i vostri programmi, se ne hanno una?
“Far vedere dell’opera d’arte quello che non si può vedere a occhio nudo.”
Il passo successivo è stata la dimensione internazionale.
“Era l’unica strada possibile visto che rapidamente il mercato della tv che parla d’arte si è saturato a livello domestico. L’hub di produzione Sky Arts ha come missione quello di produrre dei programmi che fossero nativamente europei, in grado cioè di funzionare in Gran Bretagna, in Germania e in Italia. Una sfida non facile perché se da una parte ci apriva opportunità di budget dieci volte superiori, bisognava capire come farlo.”
E cosa ha scoperto?
“Che come con il cibo ognuno è diverso e poi ci sono gli americani che offrono una cucina universale, il fastfood. Diciamo che la differenza principale tra Italia e Gran Bretagna ad esempio è che un ristoratore italiano ti racconta il menù, mentre uno inglese ti mette il menù appeso fuori. Tradotto significa che usiamo le immagini in modo differente. Noi evochiamo, siamo lirici. Loro sono funzionali, descrittivi. La sintesi perfetta secondo me è scrivere come un inglese con un’estetica italiana. Sono nati così molti successi come la serie Il Mistero dei Capolavori Perduti o Master of Photography.”
E il cinema? In un mercato in pieno boom con titoli che si susseguono in sala con regolarità, strano veder arrivare Ballandi solo ora.
“Sì era evidente a tutti noi che il cinema d’arte fosse un altro possibile sbocco. Ma è il più difficile di tutti se si ha come proprio punto di forza ‘raccontare storie’. Se fare programmi per il pubblico italiano ci consente nel bene e nel male di dare per acquisite molte cose - non devo spiegare allo spettatore italiano cos’è il Colosseo - questo diventa meno vero facendo programmi tv d’arte distribuiti internazionalmente. E’ ancora più complicato fare cinema, perché il cinema ha un pubblico universale. Il che vuol dire semplificare al massimo senza diventare banali. La regola quindi è non dare nulla per scontato. Un tuo spettatore in Costa Rica potrebbe non sapere neppure cos’era l’Impero Romano.”
Ci siete riusciti?
“Penso di sì. Ma lo deciderà il pubblico che andrà a vedere al cinema il 26, 27 e 28 novembre prossimi il nostro film d’esordio Le Ninfee di Monet che portiamo però in sala con il numero uno della distribuzione italiana del cinema d’arte la NEXO Digital di Franco di Sarro. Che poi è già una garanzia!”
ART TALK | Gli Innovatori
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• Parla Phil Grabsky, il pioniere dell'arte al cinema
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• Loving IS Vincent
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#04
- A tu per tu con Mr.Nexo
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#05
- Se Ballandi si dà al cinema
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E quell’aria apparentemente bonaria e un visto quasi seicentesco incorniciato da un baffetto e un pizzo caravaggesco un po’ vezzoso ma così demodé da risultare persino una nota di stile.
Ci accoglie in una giornata fredda e umida di pioggia battente, di quelle che a Roma ci sono solo a novembre, nel suo ufficio a due passi da Viale Mazzini. Una piccola stanza piena di quadri, libri, idee, separata da un corridoio che si allunga in una sequenza di altre stanze e sale riunione. “Scusami arrivo subito, finisco un altro appuntamento” dice gentile, poi dopo qualche istante vedi sfilare veloce Raffaella - sì l’icona dal caschetto biondo - e fa un po’ strano in apparenza parlare d’arte in un luogo così pop uno penserebbe. Poi trovi sul suo tavolo appoggiata “La vita di Napoleone raccontata da lui stesso” in una prima edizione Piccola Biblioteca Longanesi del 1952 un po’ smangiucchiata e ti ricredi.
Mario Paloschi AD di Ballandi Arts | Courtesy © Ballandi Multimedia
Ma Ballandi è così, l’ibrido che non ti aspetti. L’arthouse che nella stanza accanto cucina i palinsesti per la televisione mainstream da Celentano a Fiorello e nel frattempo lavora ad alcuni dei programmi televisivi che reggono la programmazione di canali intellò come Sky Arte o RAI Storia.
“Futuro, mi sono sempre occupato soprattutto di futuro - si schernisce Paloschi - e con Bibi Ballandi ci siamo capiti al volo. Quando gli ho detto che c’era spazio per produrre arte e cultura in tv in Italia, lui mi ha risposto ‘Mario io c’ho la terza media, ma è una sfida che abbraccio con entusiasmo’ e così siamo partiti. D’istinto. Era il 2013 e io non avevo mai fatto nulla in tv. Ero un totale esordiente.”
Il mondo dell’arte lo conosce bene però.
“Sì, dal 2001 mi sono occupato di divulgazione culturale ed ho fondato e gestito Arthemisia per oltre 10 anni (la prima srl, quella finita poi in concordato preventivo nel 2012 sulle cui ceneri si è fondato l’omonimo gruppo oggi presieduto dalla moglie di Paloschi, Iole Siena - NdR) una società con cui ho organizzato centinaia di mostre d’arte di grande successo e curato l’organizzazione e la gestione museale di una infinità di luoghi in Italia.”
Un primo amore per Paloschi organizzare mostre, tanto che il suo profilo Twitter ne porta ancora ironicamente il segno - @arthemisio il suo nickname.
“Sì un amore per il ‘raccontare storie’ che poi è quello che si fa quando si organizza una mostra d’arte. Non sono solo una sequenza di opere messe in scena, ma è la storia che regge tutto il progetto. In questo senso c’è una grande vicinanza tra questi due mondi, mostre e tv.”
E come arriva dunque alla televisione?
“Arrivo sempre dove mi prefiggo - ride Paloschi - Quando Rupert Murdoch ha annunciato in un industry dinner che avrebbe dato vita al canale Sky Arte in Italia mi sono trovato dopo poco coinvolto nella progettazione di questa idea come consulente. Poco più di due anni di lavoro, molto interessante, in cui mi sono reso conto che c’era un buco evidente in Italia. Grande qualità e tradizione di documentari, ma zero prodotto televisivo disponibile e poca attenzione produttiva per un modello di televisione tematico dedicato a temi tutto sommato considerati ancora oggi marginali.”
Dove altri vedono problemi lei ha colto un’opportunità..
“In un certo senso sì. Non è facile produrre cultura per la tv tematica. I programmi vengono comprati a prezzi molto bassi sui mercati internazionali e un canale come Sky Arte ha una cinquantina di ore di programmazione originale all’anno su cui investire, a dei prezzi che sono dieci, venti volte inferiori a quelli dei grandi canali generalisti.”
Come fare dunque?
“Industrializzando e serializzando il processo produttivo. Organizzando meglio la progettazione del programma tv e concentrando lo sforzo produttivo in poco tempo. Il che vuol dire scrivere e pre-produrre i programmi in modo molto diverso dall’approccio tradizionale a cui eravamo abituati in Italia.”
Che è la formula ormai classica dei canali tv tematici..
“Con una differenza. La qualità. Perché parlare di arte e cultura necessita di due altre cose: produzioni semplici e una grande attenzione alla dimensione estetica e visiva del prodotto. Costruire una narrazione accessibile a tutti ma non noiosa per gli art lover. Come per le mostre.”
L’ha trovata la formula?
“La fortuna è stato poter costruire questo percorso all’interno di un gruppo solido come Ballandi in grado di dare garanzia ai broadcaster del livello qualitativo prima ancora di iniziare a farci conoscere e di supportare l’attività da start up finanziariamente, con le spalle larghe di una compagnia che produce grandi programmi per budget importanti. E così in 6 anni abbiamo potuto produrre oltre 450 ore di programmi e aprire la strada a nuovi autori, registi, produttori. Programmi per altro che per vocazione hanno una ‘bassa obsolescenza’ cioè vanno a costruire non solo i palinsesti, ma le library dei canali tv che li ospitano. Programmi come Le Sette Meraviglie giunti oggi alla sesta edizione sono un long runner di grande successo su Sky Arte.”
La ricostruzione di un'opera di Gustav Klimt dal programma tv "Lost Paintings" prodotto da Ballandi Arts per l'hub europeo di Sky Arts | Courtesy © 2018 Ballandi Arts
Che caratteristica hanno in comune i vostri programmi, se ne hanno una?
“Far vedere dell’opera d’arte quello che non si può vedere a occhio nudo.”
Il passo successivo è stata la dimensione internazionale.
“Era l’unica strada possibile visto che rapidamente il mercato della tv che parla d’arte si è saturato a livello domestico. L’hub di produzione Sky Arts ha come missione quello di produrre dei programmi che fossero nativamente europei, in grado cioè di funzionare in Gran Bretagna, in Germania e in Italia. Una sfida non facile perché se da una parte ci apriva opportunità di budget dieci volte superiori, bisognava capire come farlo.”
E cosa ha scoperto?
“Che come con il cibo ognuno è diverso e poi ci sono gli americani che offrono una cucina universale, il fastfood. Diciamo che la differenza principale tra Italia e Gran Bretagna ad esempio è che un ristoratore italiano ti racconta il menù, mentre uno inglese ti mette il menù appeso fuori. Tradotto significa che usiamo le immagini in modo differente. Noi evochiamo, siamo lirici. Loro sono funzionali, descrittivi. La sintesi perfetta secondo me è scrivere come un inglese con un’estetica italiana. Sono nati così molti successi come la serie Il Mistero dei Capolavori Perduti o Master of Photography.”
E il cinema? In un mercato in pieno boom con titoli che si susseguono in sala con regolarità, strano veder arrivare Ballandi solo ora.
“Sì era evidente a tutti noi che il cinema d’arte fosse un altro possibile sbocco. Ma è il più difficile di tutti se si ha come proprio punto di forza ‘raccontare storie’. Se fare programmi per il pubblico italiano ci consente nel bene e nel male di dare per acquisite molte cose - non devo spiegare allo spettatore italiano cos’è il Colosseo - questo diventa meno vero facendo programmi tv d’arte distribuiti internazionalmente. E’ ancora più complicato fare cinema, perché il cinema ha un pubblico universale. Il che vuol dire semplificare al massimo senza diventare banali. La regola quindi è non dare nulla per scontato. Un tuo spettatore in Costa Rica potrebbe non sapere neppure cos’era l’Impero Romano.”
Ci siete riusciti?
“Penso di sì. Ma lo deciderà il pubblico che andrà a vedere al cinema il 26, 27 e 28 novembre prossimi il nostro film d’esordio Le Ninfee di Monet che portiamo però in sala con il numero uno della distribuzione italiana del cinema d’arte la NEXO Digital di Franco di Sarro. Che poi è già una garanzia!”
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