L’artista belga a Roma fino al 1° marzo

"Difendo la vulnerabilità di tutto ciò che è vivo". Parla Jan Fabre, in mostra alla Galleria Mucciaccia di Roma

Jan Fabre alla Galleria Mucciaccia | Foto: © Valentina Sensi | Courtesy Ufficio Stampa HF4
 

Samantha De Martin

03/02/2025

Roma - I'm completely in love! 
Prima di accendersi una sigaretta, alla domanda (l’ultima di questa intervista) relativa al rapporto con Django, il figlio di tre anni, Jan Fabre si andare a un sorriso pieno che dice più di qualsiasi parola.
Quando lo incontriamo mancano alcune ore all’inaugurazione e le casse con le opere, adagiate sul pavimento, sono già state svuotate. L’artista di Anversa, che è anche autore e creatore teatrale, capace di fondere tradizione artistica, filosofia, scienza e spiritualità in un unico personalissimo universo creativo, è fino al 1° marzo alla Galleria Mucciaccia di Roma con un corpus molto intimo di lavori che attraversano l’essenza del pensiero umano, la fragilità della vita, il potere trasformativo dell’arte.
Anche questa volta il concittadino di Rubens e van Dyck, tra i più grandi innovatori della scena contemporanea, gioca con la performatività dei materiali, con i colori a matita e tempera, per esplorare temi esistenziali, spirituali e scientifici attraverso un dialogo costante tra corpo, mente e materia. Attraverso questa mostra molto toccante a cura di Dimitri Ozerkov, con contributi di Giacinto Di Pietrantonio, Melania Rossi e Floriana Conte, l’arte visionaria dell’artista visivo riunisce, per la prima volta in Italia, i due più recenti capitoli della sua produzione artistica: Songs of the Canaries (A Tribute to Emiel Fabre and Robert Stroud) e Songs of the Gypsies (A Tribute to Django Reinhardt and Django Gennaro Fabre), già esposti a Londra, ma in due momenti diversi.


Jan Fabre alla Galleria Mucciaccia | Foto: © Valentina Sensi | Courtesy Ufficio Stampa HF4

All’ingresso della galleria romana di Largo della Fontanella Borghese tre grandi sculture in marmo di Carrara - The pacemaker (of Art), The Freefaller (of Art) e The partisan (of Art) – che rappresentano un neonato fuori scala, Django, il figlio dell’artista, all'età di 5 mesi e mezzo, ma ritratto con la stessa altezza del padre, introducono al secondo capitolo della mostra, intitolato Songs of the Gypsies (A Tribute to Django Reinhardt and Django Gennaro Fabre). Fabre ha chiamato il suo primogenito Django Gennaro in omaggio a Django Reinhardt, virtuoso chitarrista gypsy jazz belga, acclamato come geniale e innovativo. Reinhardt era riuscito a eccellere e a inventare un genere musicale personale partendo da un grande svantaggio: una grave menomazione alla mano sinistra dovuta a un incidente da ragazzo. Le morbide forme infantili nelle quali Fabre racchiude il corpo del figlio traducono il mistero della nascita e della creazione, ma diventano anche messaggere di partiture musicali jazz, incise dall’artista nel marmo come anche nei suggestivi disegni dai colori vivaci, a evocare una dimensione giocosa e improvvisata, ispirata alle pitture infantili del giovane Django e ai brani di Reinhardt.
Ed eccoli i disegni realizzati con le impronte delle mani del bambino, fare capolino dalle pareti della galleria, a dialogare con le statue che, come una partitura musicale multidimensionale, trasportano lo spettatore sulle note dei grandi successi del chitarrista gitano, da “Minor Swing”, “Nuages” a “Manoir de Mes Rêves”.


Jan Fabre alla Galleria Mucciaccia | Foto: © Valentina Sensi | Courtesy Ufficio Stampa HF4

Entriamo in punta di piedi in un mondo di sogni concreti, di vite intessute di arte, abbandonandoci, assieme all’artista, a un lento swing tra l’infinitamente piccolo lo smisuratamente grande, abbracciando il suo invito a contemplare la fragilità e lo splendore della condizione umana. La mostra tutta è un inno alla musica, filo conduttore che attraversa entrambe le serie. Al piano di sotto, il primo capitolo intitolato Songs of the Canaries (A Tribute to Emiel Fabre and Robert Stroud) trova il suo fulcro nella monumentale scultura The Man Who Measures His Own Planet (2024) realizzata interamente in marmo di Carrara. Un uomo si erge su una scala, con le braccia tese come a voler misurare l’immensità del cielo. Il corpo è modellato su quello di Fabre stesso, mentre il volto rimanda al fratello Emiel, scomparso prematuramente all’età di tre anni, che Jan non ha mai conosciuto e al quale la mostra è dedicata.
Questo primo capitolo Songs of the Canaries è anche un omaggio a Robert Stroud, detto “Birdman of Alcatraz”, un criminale che in carcere divenne un rinomato ornitologo, specializzato in canarini. Per poterli studiare, Stroud riuscì a farsi portare in cella centinaia di uccelli, creature che anche in cattività trovavano la forza di cantare e ispirare la mente. Fabre esplora queste tematiche attraverso un’installazione composta da opere meticolosamente scolpite in marmo di Carrara e intimi, sorprendenti disegni a matite colorate su Vantablack dove i neuroni diventano scintille vibranti di un’energica luce che cattura l’osservatore. D’altra parte Jan Fabre ha più volte dialogato con lo scienziato Giacomo Rizzolatti, padre della teoria dei neuroni specchio.
Una distesa di canarini in marmo, appollaiati in cima a cervelli umani sembrano contemplare i meccanismi interni della mente svelando incredibili dettagli, dalle piume - metafora della libertà e della fragilità - alle vene che si trasformano in una poesia scultorea che armonizza i suoni del cielo con l’eco dei pensieri umani, attraverso titoli evocativi come Thinking Outside the Cage (2024), Sharing Secrets About the Neurons (2024) e Measuring the Neurons (2024).
La mostra lascia spazio a interrogativi che trovano risposta in un disponibilissimo Jan Fabre.

Quello che porta a Roma è un progetto molto intimo che lega tre figure a lei care: suo figlio Django, suo fratello Emiel e il criminale Robert Stroud. Qual è il filo che lega questi personaggi così diversi e come nasce questa idea?
“Mi sono lasciato ispirare dal celebre ornitologo Robert Stroud. Quando fu rilasciato, alla domanda dei giornalisti su cosa avesse intenzione di fare per il resto della sua vita, rispose: “Voglio misurare le nuvole”. Avevo visto anche il film L’uomo di Alcatraz con Bart Lancaster. Stroud era diventato specialista nei canarini e mio fratello Emiel morì all’età di tre anni a causa di una malattia che nelle Fiandre è chiamata “Il canarino che canta troppo forte nell’orecchio”, una sorta di parotite. Il canarino è stato più volte usato come una sorta di sentinella per i lavoratori delle miniere. In Belgio ve ne sono moltissime. I minatori portavano con sé questi uccelli e nel momento in cui gli animali svenivano capivano che non c’era abbastanza ossigeno e ritornavano in superficie. Quindi attraverso l’immagine del canarino voglio alludere a colui che vede prima, che sente qualcosa prima degli altri”



Jan Fabre alla Galleria Mucciaccia | Foto: © Valentina Sensi | Courtesy Ufficio Stampa HF4

Un po’ come l’artista...
“Esattamente...”

“The Man Who Measures His Own Planet”, come anche “The Man Who Measures the Clouds” sembra anche un omaggio a tutti i sognatori, a coloro che si confrontano con un’impresa impossibile. Chi è “l’uomo che misura il proprio pianeta”? Ci riesce?
“L’uomo che cerca di misurare il proprio pianeta cerca di fare qualcosa di impossibile perché il cervello può essere considerato come il nostro universo, qualcosa in gran parte di ancora sconosciuto e in continua espansione. Si tratta di un tentativo di conoscere qualcosa che ancora resta un’incognita”.

Nella parte posteriore, la scultura lascia intravedere, il cervello scoperto. L’artista tenta forse di sviscerare questo mistero?
“Ho compiuto un tentativo di rappresentare la geometria della vibrazione. I nostri neuroni vibrano, nello spazio che occupiamo tutto vibra e tutto è energia che si muove costantemente. Quindi alludo forse alla volontà di voler rappresentare la geometria, la forma della vibrazione”.

Colpisce molto in mostra la convivenza di due materiali così antitetici. Da una parte il marmo di Carrara, dall’altra il Vantablack (la più nera versione esistente del nero). A cosa allude l’artista attraverso questa contrapposizione? “Rappresentano lo yin e lo yang. Fotografie scientifiche provano come anche i neuroni si dispongono in una forma che è simile a quella dello yin e dello yang. Questa sorta di convergenza tra queste due mostre è una convergenza tra arte visiva, scienza e filosofia”.

Più volte nei suoi lavori allude al corpo e alla sua vulnerabilità. In mostra vi sono due figure: da un lato un criminale che, nonostante abbia trascorso in carcere la maggior parte dell’esistenza, riesce a emergere grazie ai suoi studi sui canarini; dall’altra un musicista che, nonostante una menomazione, riesce a brillare grazie a un’arte. In una società, come quella attuale, fortemente incentrata sull’immagine, c’è ancora spazio per la vulnerabilità del corpo?
“Django Reinhardt è stato anche perseguitato dai nazisti durante la guerra. Come artista la mia missione è quella di difendere la vulnerabilità di tutto ciò che è vivo”.


Jan Fabre alla Galleria Mucciaccia | Foto: © Valentina Sensi | Courtesy Ufficio Stampa HF4

Più volte ha detto che per lei il disegno rappresenta la “calligrafia dell’artista”. È anche un grande collezionista di disegni, ad esempio di James Ensor. Che ruolo ha questo linguaggio nella sua arte? Quando disegna?
“Scrivo e disegno ogni notte. Non uso il computer e disegno totalmente a mano. Per me il disegno rappresenta un’attività intima, la base dalla quale si origina tutto il mio lavoro. Spesso un piccolo disegno diventa una scrittura e, viceversa, una scrittura si fa disegno. Talvolta i disegni lasciano intravedere la mano dell’artista e da un disegno si vede talvolta se siamo di fronte a un bravo maestro”.

Che rapporto ha con Roma?
“Sono stato per la prima volta a Roma nel 1985. È una città fantastica e tutte le volte che vengo sogno di viverci sei mesi, un anno. Poi i tanti progetti prendono il sopravvento e sono costretto a lasciarla, ma nutro ancora questo desiderio. Ogni angolo della città è per me fonte di ispirazione Adoro le Terme di Diocleziano e in mezzo a tanta bellezza mi sento un piccolo artista.”

Insomma...! Lei coltiva con successo tanti linguaggi, anche molto diversi, dalla scultura all’installazione, dalla performance al teatro, dal disegno alla musica. Qual è il mezzo che preferisce?
“Io sono sempre in ginocchio di fronte alla bellezza. Il mezzo che scelgo è quello più giusto per rappresentare l’idea che ho in quel momento”.

Prossimi progetti?
“I migliori lavori forse sono quelli utopici, che non saranno mai realizzati. Considerate le tantissime idee che ho in merito a progetti futuri dovrei arrivare a 150 anni!”

E allora lunga vita a Jan.