Una conversazione con Giorgio Verzotti
Come gestire l’anti-autorialità nell’era dell’AI? La risposta nella mostra MECCANICA a ViaSaterna
Sergio Lombardo, Stochastic Tiling, 2015, pittura vinilica su tela, cm 120x180 © Sergio Lombardo, Courtesy Archivio Sergio Lombardo
Eleonora Zamparutti
27/03/2024
“La Macchina non è forse oggi il simbolo più esuberante della misteriosa forza creatrice umana?” si domandavano i Futuristi quasi cento anni fa, prefigurando con grande lucidità la morte del genio creativo e l’avvento dei robot.
In un’epoca che definivano di “sfrenato confusionismo”, gli artisti dell’Avanguardia di primo Novecento pubblicavano il Manifesto dell’Arte Meccanica consci del fatto che dalla macchina e nella macchina si svolgeva tutto il dramma umano della modernità.
“Ci sentiamo costruiti in acciaio. Anche noi macchine, anche noi, meccanizzati” affermavano.
“Nel Manifesto dell’Arte Meccanica i Futuristi sostengono che il soggetto, l’artista deve assumere la forza e il ritmo produttivo della macchina e poi si deve comportare con la stessa istintualità di un animale. Per loro, la nuova figura dell’artista è qualcuno che sta a metà fra l’umano e il macchininico, rinunciando a razionalità, sentimenti, giudizio per dedicarsi all’istinto” afferma Giorgio Verzotti, curatore della mostra “MECCANICA” che inaugura il 7 aprile alla Galleria ViaSaterna di Milano. Uno spazio che è vero laboratorio di ricerca: “Presentiamo soprattutto artisti non ancora così affermati dal punto di vista del mercato. Fare ricerca però significa tanta fatica in più, che non si vede” dichiara Irene Crocco, deus ex machina della galleria milanese ViaSaterna.
Camilla Gurgone, Process to Shape the Imaginery n°4, 2024, barra porta comande in alluminio, stampa su rotoli di carta termica, cm 30x25 © Camilla Gurgone, courtesy Viasaterna
Il rischio che l’artista, diventando macchina, perdesse ogni autorialità era il passo successivo che le generazioni succedute ai Futuristi hanno ben messo in evidenza.
Dagli anni Cinquanta in poi l’atto meccanico, la ripetizione, la casualità sono diventati il principio generativo delle opere di molti.
“Oggi la questione si fa più articolata perché nell’epoca in cui la creatività umana viene delegata alla macchina “intelligente” è molto più complesso pensare l’anti-autorialità” continua Verzotti. L’esposizione MECCANICA è una breve rassegna storica che parte da Dadamaino e arriva fino alla giovane Camilla Gurgone. L’idea nasce dalla volontà di dare rappresentazione a un’arte realizzata meccanicamente, cioè senza un coinvolgimento creativo da parte dell’artista, ma prodotta grazie a un programma di produzione di segni, di immagini, di forme.
“C’è tutto un filone dell’arte contemporanea che mette ai margini l’idea stessa dell’artista creatore di cose inedite in favore di pratiche semplificate al massimo, ripetute meccanicamente, in sequenza seriali” continua Verzotti. “Dal Secondo dopoguerra in poi questo atteggiamento finisce per mettere in discussione l’autorialità e dichiarare la morte dell’autore, come affermava Roland Barthes”. Seguendo questa scia Alighiero Boetti arrivava a sostenere che “chiunque può fare quello che faccio io”, e Joseph Beuys gli faceva eco sostenendo che “ognuno è potenzialmente un artista”. “Ho intitolato la mostra MECCANICA perché c’è questa idea di creare qualcosa di nuovo nell’ambito artistico, ma con pratiche assolutamente meccaniche alla portata di tutti.”
Bertrand Lavier, Nobilis n°8, 2023, pittura acrilica su tela, cm 139x132,5x3,5 © Bertrand Lavier, Adagp, Paris, 2024. Courtesy l'artista e Mennour, Paris. Photo Archives Mennour
Dadamaino, esponente milanese dell’Avanguardia negli anni Sessanta, contrastava il gesto passionale dell’informale che considerava troppo umano. “E allora lei, anche con strumenti non pittorici, con un taglierino ad esempio, realizzava sulla tela dei buchi che hanno dei volumi. C’è questa percezione del vuoto come un possibile pieno in negativo, con un atteggiamento “anti” passionale”.
Niele Toroni invece parte da un atteggiamento contestatario nei confronti della figura dell’artista, romanticamente inteso. “E arriva a fare delle impronte di pennello tutte uguali, tutte alla stessa distanza sia sulle tele che sui muri, producendo delle opere assolutamente anonime che chiunque avrebbe potuto fare. Cambia semmai solo il contesto, ma l’opera di suo contraddice tutto quello che da un pittore - lui si definisce pittore, non artista - si richiede, cioè di esprimere un proprio stile personale e soprattutto di non ripetersi, di fare delle cose sempre diverse”. Una decisione a tavolino che è una forma di protesta contro il mercato e la mercificazione dell’opera.
“Sergio Lombardo comincia negli anni Cinquanta a formalizzare un metodo che lui chiama pittura stocastica, cioè basata su un programma per cui a un segno di un certo tipo corrisponde un segno di un altro tipo all’interno di un sistema che lo stesso artista ha creato liberamente. Però chi vuole partecipare, e può essere chiunque, deve rispettare la regola.”
In esposizione le opere che l’artista veneziano Giovanni Rizzoli ha cominciato a realizzare all’inizio degli anni Novanta. “E’ un artista poliedrico e che per un certo periodo ha utilizzato delle superfici damascate sulle quali infila una flebo in modo che il colore del liquido che di solito è blu, macchi i tessuti. Alle volte il processo si ferma e a volte continua. E’ una specie di performance meccanica, ovviamente il colore fuoriesce dalla stoffa e dalla superficie con una pratica imprevedibile” afferma Verzotti.
Giovanni Rizzoli, Tempo, apertura flebo 20.06.2014, ore 11.45 Ospedaletti, 2014, legno, gomma e flebo azzurra, cm 36x22x9 © Giovanni Rizzoli, courtesy dell'artista e Viasaterna
“Non è una pittura che si fa con il pennello o con lo spray” dichiara Giovanni Rizzoli. “L’idea è invece di una pittura che predispongo su dei tondi o dei rettangoli aurei, che possono essere anche molto grandi, rivestiti di quel tessuto che a Venezia puoi trovare mezzo consumato nelle chiese, alle pareti degli ambienti squallidi del Casinò a Palazzo Vendramin Calergi, sbrindellato sulle scale di un edificio abbandonato. Il damasco che io considero un po’ come la pelle di Venezia e che ancora oggi alcune aziende in città producono”.
Un oggetto industriale (la flebo) una preparazione alchemica che prevede soluzione fisiologica, sale, pigmento e altro, e una mano che apre il rubinetto. “La cosa incredibile è che io piazzo l’ago nel pannello e avvio il processo. Da quel momento lì non posso più controllarlo: sono spettatore di me stesso, come in un atto erotico” afferma Rizzoli.
“E’una forma d’arte che si fa sotto gli occhi dell’osservatore e dove l’artista ha predisposto le condizioni perché il processo avvenga ma poi non si può controllare fino alla fine. A meno di dire chiuso, stop. Ed era questo il discorso che era sorto negli anni Sessanta come atto di protesta contro l’assertività aprioristica dell’astrazione geometrica. L’arte processuale, come è stata definita, è un fare esperienza : la cera che si scioglie, il lattice che si solidifica, la pittura che cola” continua Verzotti.
“Rizzoli è un artista di una generazione che non è uscita ancora abbastanza, perché è stata sommersa da tante mode. Ha fatto la Biennale e conosce molto bene la sua contemporaneità” afferma Irene Crocco.
In mostra l’opera di Camilla Gurgone apre nuovi scenari e offre una maniera di utilizzare l’AI toccando le note del sentimento: lavora con i sogni e con l’automatico.
“Quando realizza questa sorta di poesia fatta con la meccanica del PC e degli algoritmi per poi seguire una sorta di profondità del pensiero dell’uomo, rivelando la nostra parte più emotiva, empatica e sentimentale, riesce a toccare gli opposti e a farli suonare” afferma Irene Crocco.
Ma a forza di marginalizzare il soggetto creativo e diventare come delle macchine che producono, adesso con l’AI la sfida diventa ancora più importante. “Può diventare uno strumento da gestire come gli altri, può diventare uno strumento che ti gestisce. Quanto di umano resta dentro a questo futuro tecnologico che stiamo costruendo?” è la domanda che pone Giorgio Verzotti.
E’ questa la domanda su cui si fonda l’idea della mostra MECCANICA.
Leggi anche:
• Metti un veneziano a Venezia. Bruno Corà racconta Giovanni Rizzoli
• Le riflessioni intorno all'infinito dello scultore Rizzoli
In un’epoca che definivano di “sfrenato confusionismo”, gli artisti dell’Avanguardia di primo Novecento pubblicavano il Manifesto dell’Arte Meccanica consci del fatto che dalla macchina e nella macchina si svolgeva tutto il dramma umano della modernità.
“Ci sentiamo costruiti in acciaio. Anche noi macchine, anche noi, meccanizzati” affermavano.
“Nel Manifesto dell’Arte Meccanica i Futuristi sostengono che il soggetto, l’artista deve assumere la forza e il ritmo produttivo della macchina e poi si deve comportare con la stessa istintualità di un animale. Per loro, la nuova figura dell’artista è qualcuno che sta a metà fra l’umano e il macchininico, rinunciando a razionalità, sentimenti, giudizio per dedicarsi all’istinto” afferma Giorgio Verzotti, curatore della mostra “MECCANICA” che inaugura il 7 aprile alla Galleria ViaSaterna di Milano. Uno spazio che è vero laboratorio di ricerca: “Presentiamo soprattutto artisti non ancora così affermati dal punto di vista del mercato. Fare ricerca però significa tanta fatica in più, che non si vede” dichiara Irene Crocco, deus ex machina della galleria milanese ViaSaterna.
Camilla Gurgone, Process to Shape the Imaginery n°4, 2024, barra porta comande in alluminio, stampa su rotoli di carta termica, cm 30x25 © Camilla Gurgone, courtesy Viasaterna
Il rischio che l’artista, diventando macchina, perdesse ogni autorialità era il passo successivo che le generazioni succedute ai Futuristi hanno ben messo in evidenza.
Dagli anni Cinquanta in poi l’atto meccanico, la ripetizione, la casualità sono diventati il principio generativo delle opere di molti.
“Oggi la questione si fa più articolata perché nell’epoca in cui la creatività umana viene delegata alla macchina “intelligente” è molto più complesso pensare l’anti-autorialità” continua Verzotti. L’esposizione MECCANICA è una breve rassegna storica che parte da Dadamaino e arriva fino alla giovane Camilla Gurgone. L’idea nasce dalla volontà di dare rappresentazione a un’arte realizzata meccanicamente, cioè senza un coinvolgimento creativo da parte dell’artista, ma prodotta grazie a un programma di produzione di segni, di immagini, di forme.
“C’è tutto un filone dell’arte contemporanea che mette ai margini l’idea stessa dell’artista creatore di cose inedite in favore di pratiche semplificate al massimo, ripetute meccanicamente, in sequenza seriali” continua Verzotti. “Dal Secondo dopoguerra in poi questo atteggiamento finisce per mettere in discussione l’autorialità e dichiarare la morte dell’autore, come affermava Roland Barthes”. Seguendo questa scia Alighiero Boetti arrivava a sostenere che “chiunque può fare quello che faccio io”, e Joseph Beuys gli faceva eco sostenendo che “ognuno è potenzialmente un artista”. “Ho intitolato la mostra MECCANICA perché c’è questa idea di creare qualcosa di nuovo nell’ambito artistico, ma con pratiche assolutamente meccaniche alla portata di tutti.”
Bertrand Lavier, Nobilis n°8, 2023, pittura acrilica su tela, cm 139x132,5x3,5 © Bertrand Lavier, Adagp, Paris, 2024. Courtesy l'artista e Mennour, Paris. Photo Archives Mennour
Dadamaino, esponente milanese dell’Avanguardia negli anni Sessanta, contrastava il gesto passionale dell’informale che considerava troppo umano. “E allora lei, anche con strumenti non pittorici, con un taglierino ad esempio, realizzava sulla tela dei buchi che hanno dei volumi. C’è questa percezione del vuoto come un possibile pieno in negativo, con un atteggiamento “anti” passionale”.
Niele Toroni invece parte da un atteggiamento contestatario nei confronti della figura dell’artista, romanticamente inteso. “E arriva a fare delle impronte di pennello tutte uguali, tutte alla stessa distanza sia sulle tele che sui muri, producendo delle opere assolutamente anonime che chiunque avrebbe potuto fare. Cambia semmai solo il contesto, ma l’opera di suo contraddice tutto quello che da un pittore - lui si definisce pittore, non artista - si richiede, cioè di esprimere un proprio stile personale e soprattutto di non ripetersi, di fare delle cose sempre diverse”. Una decisione a tavolino che è una forma di protesta contro il mercato e la mercificazione dell’opera.
“Sergio Lombardo comincia negli anni Cinquanta a formalizzare un metodo che lui chiama pittura stocastica, cioè basata su un programma per cui a un segno di un certo tipo corrisponde un segno di un altro tipo all’interno di un sistema che lo stesso artista ha creato liberamente. Però chi vuole partecipare, e può essere chiunque, deve rispettare la regola.”
In esposizione le opere che l’artista veneziano Giovanni Rizzoli ha cominciato a realizzare all’inizio degli anni Novanta. “E’ un artista poliedrico e che per un certo periodo ha utilizzato delle superfici damascate sulle quali infila una flebo in modo che il colore del liquido che di solito è blu, macchi i tessuti. Alle volte il processo si ferma e a volte continua. E’ una specie di performance meccanica, ovviamente il colore fuoriesce dalla stoffa e dalla superficie con una pratica imprevedibile” afferma Verzotti.
Giovanni Rizzoli, Tempo, apertura flebo 20.06.2014, ore 11.45 Ospedaletti, 2014, legno, gomma e flebo azzurra, cm 36x22x9 © Giovanni Rizzoli, courtesy dell'artista e Viasaterna
“Non è una pittura che si fa con il pennello o con lo spray” dichiara Giovanni Rizzoli. “L’idea è invece di una pittura che predispongo su dei tondi o dei rettangoli aurei, che possono essere anche molto grandi, rivestiti di quel tessuto che a Venezia puoi trovare mezzo consumato nelle chiese, alle pareti degli ambienti squallidi del Casinò a Palazzo Vendramin Calergi, sbrindellato sulle scale di un edificio abbandonato. Il damasco che io considero un po’ come la pelle di Venezia e che ancora oggi alcune aziende in città producono”.
Un oggetto industriale (la flebo) una preparazione alchemica che prevede soluzione fisiologica, sale, pigmento e altro, e una mano che apre il rubinetto. “La cosa incredibile è che io piazzo l’ago nel pannello e avvio il processo. Da quel momento lì non posso più controllarlo: sono spettatore di me stesso, come in un atto erotico” afferma Rizzoli.
“E’una forma d’arte che si fa sotto gli occhi dell’osservatore e dove l’artista ha predisposto le condizioni perché il processo avvenga ma poi non si può controllare fino alla fine. A meno di dire chiuso, stop. Ed era questo il discorso che era sorto negli anni Sessanta come atto di protesta contro l’assertività aprioristica dell’astrazione geometrica. L’arte processuale, come è stata definita, è un fare esperienza : la cera che si scioglie, il lattice che si solidifica, la pittura che cola” continua Verzotti.
“Rizzoli è un artista di una generazione che non è uscita ancora abbastanza, perché è stata sommersa da tante mode. Ha fatto la Biennale e conosce molto bene la sua contemporaneità” afferma Irene Crocco.
In mostra l’opera di Camilla Gurgone apre nuovi scenari e offre una maniera di utilizzare l’AI toccando le note del sentimento: lavora con i sogni e con l’automatico.
“Quando realizza questa sorta di poesia fatta con la meccanica del PC e degli algoritmi per poi seguire una sorta di profondità del pensiero dell’uomo, rivelando la nostra parte più emotiva, empatica e sentimentale, riesce a toccare gli opposti e a farli suonare” afferma Irene Crocco.
Ma a forza di marginalizzare il soggetto creativo e diventare come delle macchine che producono, adesso con l’AI la sfida diventa ancora più importante. “Può diventare uno strumento da gestire come gli altri, può diventare uno strumento che ti gestisce. Quanto di umano resta dentro a questo futuro tecnologico che stiamo costruendo?” è la domanda che pone Giorgio Verzotti.
E’ questa la domanda su cui si fonda l’idea della mostra MECCANICA.
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