Earth Made. Ceramiche Italiane realizzate dal 1940 al 1960/ Stanligrad in every city
Dal 01 Dicembre 2012 al 07 Gennaio 2013
Napoli
Luogo: Galleria Raucci/Santamaria
Indirizzo: corso Amedeo di Savoia 190
Orari: da lunedi a venerdi 11-13.30/ 15-18.30
Costo del biglietto: ingresso gratuito
Telefono per informazioni: +39 081 7443645
E-Mail info: info@raucciesantamaria.com
Sito ufficiale: http://www.raucciesantamaria.com/rs/index.php
Gallery A: Earth Made. Ceramiche Italiane realizzate dal 1940 al 1960
Guido Gambone - Franco Meneguzzo - Fausto Melotti - Andrea Parini - Nanni Valentini - Luigi Zortea
La distinzione tra arte e arti decorative è sempre stata al centro di un dibattito aperto che ha acceso gli animi degli appassionati. La parola ceramica, considerata come fragile e di uso comune, in virtù di questa sua accezione, contribuisce psicologicamente ad ampliare la distanza dalla parola Arte. In verità, alla luce degli sviluppi dell’arte contemporanea, questa limitazione viene del tutto annullata dall’uso disinvolto dei materiali da parte degli artisti, e la ceramica non fa eccezione. Quindi oggi è solo nella forma e nei contenuti, dalla presenza di un oggetto in un preciso tipo di mercato, che lo leggiamo e gli attribuiamo peculiarità artistiche. Superando questo atavico impasse, ci sono alcuni dati storici che dovremmo considerare nel passaggio della riproduzione della forma in serie, nella visione del designer e la conseguente trasformazione del ceramista in produttore di opere uniche o multiple.
I precedenti tentativi di produzione seriale, che portarono alla nascita dell’Italian Design, tra la fine dell’ottocento e sino alla definitiva affermazione negli anni ‘60, erano stati introdotti da alcuni antesignani del design e si erano risolti in produzioni industriali di piccole serie, se non addirittura limitata a solo pochi pezzi tanto da risultare unici.
L’Italia, nel secolo scorso, era disseminata di botteghe di abili artigiani, purtroppo scomparsi, che, intuendo la trasformazione industriale ed eredi di una perizia millenaria, incominciarono a sperimentare, con esiti più o meno felici, nuove forme e tecniche. In questa ricerca alcuni di essi reinterpretarono anche forme comuni o ancestrali sino ad arrivare alla creazione di opere che, riassumendo i dictat propri dell’arte, non dimenticavano le caratteristiche della materia utilizzata. In altro campo invece gli artisti proseguirono una ricerca, iniziata negli anni ‘20, sino ad arrivare ad una più allargata sperimentazione con la ceramica, che toccherà l’apice tra la metà degli anni ‘40 e la fine degli anni ‘50. Si possono citare quelli più noti come Pablo Picasso, Juan Mirò, Lucio Fontana, Leoncillo Leonardi, Fausto Melotti, che hanno sperimentato con la ceramica producendo opere di altissimo livello. Alcuni di questi artisti si avvalevano di abili artigiani che, nelle loro botteghe, suggerivano l’utilizzo dei materiali più idonei alla creazione delle opere in un reciproco scambio di informazioni e discussioni che producevano una nuova visione della materia. Mentre Fontana, negli anni ‘40, realizzava le sue maioliche barocche ad Albissola, Leoncillo Leonardi, in Umbria presso la fabbrica Rometti e nel suo studio romano, reinterpretava la forma ed i colori nella rilettura del suo barocco, che di lì a poco, da forme neocubiste sarebbero diventate informali.
Alla fine degli anni ’30 a Nove, vicino Bassano del Grappa, patria di ceramiche ben note e famosissime nel veneto settecentesco, Luigi Zortea, da abile e riservato artigiano qual era, si inspirava poeticamente alle forme di quella tradizione nella creazione di fantasiosi e surreali cespi fioriti di maiolica bianca che avrebbero affascinato Giò Ponti. Nello stesso luogo Andrea Parini, nato in Sicilia, produceva ceramiche lievemente policrome che, memori della sua origine, si traducevano in opere metafisiche e narrative. Nella discussione della forma e dello spazio Lucio Fontana, nei suoi incontri con amici, confrontava le sue idee con quelle di Nanni Valentini e Franco Meneguzzo, che sperimentavano nella loro ricerca forme semplici, da colori terracei e bruniti, attraverso una nuova interpretazione della materia, spesso graffiata e bucata per rivelarne la vera natura celata da poveri, ma raffinatissimi, smalti. Questi ultimi rivestivano le forme eleganti e le figure realizzate da Fausto Melotti che, in collaborazione con grandi architetti come Giò Ponti e Melchiorre Bega, avrebbero dato alla creazione di ambienti rivestiti da policrome maioliche realizzate nel suo laboratorio. Infine Guido Gambone, originario campano trasferitosi a Firenze nel 1950, realizzerà nella sua carriera, maioliche dalle forme senza tempo, rivestite di uno smalto denso e poroso, sperimentando impasti di gres che daranno nuova vita alla materia tanto da portarlo ad essere uno dei ceramisti più premiato nei concorsi e riconosciuto internazionalmente.
Questa scelta di nomi, legati agli oggetti della nostra collezione privata, non rappresentano un elenco esaustivo e privilegiato di coloro i quali portarono la ceramica ad essere considerata come espressione d’Arte ma solo alcuni esempi di quella fertile attività di innovazione artistica che portò l’Italia ad essere ampiamente considerata internazionalmente come luogo di produzioni altamente qualitative.
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Gallery B: “Stanligrad in every city” – Padraig Timoney
In occasione della sua nuova personale nella galleria Raucci/Santamaria l’artista irlandese Padraig Timoney (Derry, 1968 – vive e lavora a New York) presenta una serie di lavori di grandi dimensioni. Le opere, tutte del 2012, evidenziano ancora una volta la capacità dell’artista di utilizzare la pittura, ma talvolta anche la fotografia, la scultura, il video e l’installazione, come medium per rappresentare la molteplicità del contemporaneo e tutte le possibili modalità con cui le sue immagini si possono riprodurre.
L’idea di uno stile riconoscibile, spesso marchio di fabbrica di molti artisti, diventa in Timoney una questione marginale: la varietà delle tecniche e dei linguaggi utilizzati non vogliono dimostrare una presunta ecletticità visuale ma anzi riflettono la multiforme complessità della realtà, introducendo il nuovo concetto di “iperstile”. Per questo motivo, anche se la perizia e l’intelligenza potrebbero permetterglielo, l’artista rifugge dall’assoggettare ad un unico registro formale il suo lavoro, applicando sia tecniche di propria invenzione, sia attualizzando pratiche in uso sin dagli albori della pittura. Pur in questa continua variazione emerge dunque una coerenza ed una continuità di ricerca che sfocia in un iperstile che sovrintende con mezzi diversi verso un unico scopo.
Tale sperimentazione supporta un processo creativo che è intimamente connesso alla memoria ed alla sua interpretazione, accompagnandosi ad una lucida critica della crisi correlata alla riproducibilità dell’immagine. Il titolo della mostra “Stanligrad in every city” prende spunto da un evento non pubblicizzato che ha visto per una mezzora solcare i cieli di Manhattan da un aereo che sventolava il messaggio pubblicitario “Stanligrad in every city”.
Il nome della città sovietica è stato storpiato per evitare complicazioni nel mostrare striscioni di intento politico nei cieli di New York. Resta tuttavia invariato il messaggio ed il riferimento alla Battaglia di Stalingrado, di cui ricorre il settantesimo anniversario, che segnò la prima grande sconfitta politico-militare della Germania nazista. L’utopico risvolto politico-sociale di una “Stalingrado in ogni città” è ovviamente concatenato all’idea di trasmettere ad un pubblico ampio un messaggio universale sottoforma di pubblicità e di veicolazione del linguaggio. Le modalità con cui si muove la comunicazione e la sua crisi diventano allora la chiave di lettura della mostra. Oltre allo striscione, in mostra a modo di reliquia e di memento, l’artista espone una serie di pitture che, anche se tecnicamente e formalmente diverse, si legano allo stesso fil rouge.
In “OhOhOh” l’artista presenta un fumettistico olio, quasi una contemporanea pala d’altare, dove lo sfortunato quanto ingegnoso Wile E. Coyote sta per essere travolto da un treno; mentre nell’astratto “Roosha” il movimento delle colate dell’inchiostro di seppia evocano la traduzione visuale del linguaggio dei sensi. In “Gone for” - disegno a carboncino rosso, verde, nero e bianco - Timoney riproduce realisticamente un camion rovesciato sul ciglio di una strada di campagna mentre l’unica presenza umana sembra disinteressarsi alla cosa. “Crossing” stratifica sullo stesso quadro, grazie all’uso del rivelatore fotografico, una veduta naturalistica sovrapposta alle strisce pedonali di una strada.
Timoney offre una serie di spunti: di mezzi di trasporto fuori controllo, di cambiamenti di direzione, di una comunicazione bloccata e sibillina, di messaggi che, anche se apparentemente espliciti, diventano imprecisi o deviati. Allusioni al continuo mutare dei linguaggi che mettono in discussione la prospettiva di una lettura non convenzionale del mondo e del suo frammentato trasformarsi.
Guido Gambone - Franco Meneguzzo - Fausto Melotti - Andrea Parini - Nanni Valentini - Luigi Zortea
La distinzione tra arte e arti decorative è sempre stata al centro di un dibattito aperto che ha acceso gli animi degli appassionati. La parola ceramica, considerata come fragile e di uso comune, in virtù di questa sua accezione, contribuisce psicologicamente ad ampliare la distanza dalla parola Arte. In verità, alla luce degli sviluppi dell’arte contemporanea, questa limitazione viene del tutto annullata dall’uso disinvolto dei materiali da parte degli artisti, e la ceramica non fa eccezione. Quindi oggi è solo nella forma e nei contenuti, dalla presenza di un oggetto in un preciso tipo di mercato, che lo leggiamo e gli attribuiamo peculiarità artistiche. Superando questo atavico impasse, ci sono alcuni dati storici che dovremmo considerare nel passaggio della riproduzione della forma in serie, nella visione del designer e la conseguente trasformazione del ceramista in produttore di opere uniche o multiple.
I precedenti tentativi di produzione seriale, che portarono alla nascita dell’Italian Design, tra la fine dell’ottocento e sino alla definitiva affermazione negli anni ‘60, erano stati introdotti da alcuni antesignani del design e si erano risolti in produzioni industriali di piccole serie, se non addirittura limitata a solo pochi pezzi tanto da risultare unici.
L’Italia, nel secolo scorso, era disseminata di botteghe di abili artigiani, purtroppo scomparsi, che, intuendo la trasformazione industriale ed eredi di una perizia millenaria, incominciarono a sperimentare, con esiti più o meno felici, nuove forme e tecniche. In questa ricerca alcuni di essi reinterpretarono anche forme comuni o ancestrali sino ad arrivare alla creazione di opere che, riassumendo i dictat propri dell’arte, non dimenticavano le caratteristiche della materia utilizzata. In altro campo invece gli artisti proseguirono una ricerca, iniziata negli anni ‘20, sino ad arrivare ad una più allargata sperimentazione con la ceramica, che toccherà l’apice tra la metà degli anni ‘40 e la fine degli anni ‘50. Si possono citare quelli più noti come Pablo Picasso, Juan Mirò, Lucio Fontana, Leoncillo Leonardi, Fausto Melotti, che hanno sperimentato con la ceramica producendo opere di altissimo livello. Alcuni di questi artisti si avvalevano di abili artigiani che, nelle loro botteghe, suggerivano l’utilizzo dei materiali più idonei alla creazione delle opere in un reciproco scambio di informazioni e discussioni che producevano una nuova visione della materia. Mentre Fontana, negli anni ‘40, realizzava le sue maioliche barocche ad Albissola, Leoncillo Leonardi, in Umbria presso la fabbrica Rometti e nel suo studio romano, reinterpretava la forma ed i colori nella rilettura del suo barocco, che di lì a poco, da forme neocubiste sarebbero diventate informali.
Alla fine degli anni ’30 a Nove, vicino Bassano del Grappa, patria di ceramiche ben note e famosissime nel veneto settecentesco, Luigi Zortea, da abile e riservato artigiano qual era, si inspirava poeticamente alle forme di quella tradizione nella creazione di fantasiosi e surreali cespi fioriti di maiolica bianca che avrebbero affascinato Giò Ponti. Nello stesso luogo Andrea Parini, nato in Sicilia, produceva ceramiche lievemente policrome che, memori della sua origine, si traducevano in opere metafisiche e narrative. Nella discussione della forma e dello spazio Lucio Fontana, nei suoi incontri con amici, confrontava le sue idee con quelle di Nanni Valentini e Franco Meneguzzo, che sperimentavano nella loro ricerca forme semplici, da colori terracei e bruniti, attraverso una nuova interpretazione della materia, spesso graffiata e bucata per rivelarne la vera natura celata da poveri, ma raffinatissimi, smalti. Questi ultimi rivestivano le forme eleganti e le figure realizzate da Fausto Melotti che, in collaborazione con grandi architetti come Giò Ponti e Melchiorre Bega, avrebbero dato alla creazione di ambienti rivestiti da policrome maioliche realizzate nel suo laboratorio. Infine Guido Gambone, originario campano trasferitosi a Firenze nel 1950, realizzerà nella sua carriera, maioliche dalle forme senza tempo, rivestite di uno smalto denso e poroso, sperimentando impasti di gres che daranno nuova vita alla materia tanto da portarlo ad essere uno dei ceramisti più premiato nei concorsi e riconosciuto internazionalmente.
Questa scelta di nomi, legati agli oggetti della nostra collezione privata, non rappresentano un elenco esaustivo e privilegiato di coloro i quali portarono la ceramica ad essere considerata come espressione d’Arte ma solo alcuni esempi di quella fertile attività di innovazione artistica che portò l’Italia ad essere ampiamente considerata internazionalmente come luogo di produzioni altamente qualitative.
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Gallery B: “Stanligrad in every city” – Padraig Timoney
In occasione della sua nuova personale nella galleria Raucci/Santamaria l’artista irlandese Padraig Timoney (Derry, 1968 – vive e lavora a New York) presenta una serie di lavori di grandi dimensioni. Le opere, tutte del 2012, evidenziano ancora una volta la capacità dell’artista di utilizzare la pittura, ma talvolta anche la fotografia, la scultura, il video e l’installazione, come medium per rappresentare la molteplicità del contemporaneo e tutte le possibili modalità con cui le sue immagini si possono riprodurre.
L’idea di uno stile riconoscibile, spesso marchio di fabbrica di molti artisti, diventa in Timoney una questione marginale: la varietà delle tecniche e dei linguaggi utilizzati non vogliono dimostrare una presunta ecletticità visuale ma anzi riflettono la multiforme complessità della realtà, introducendo il nuovo concetto di “iperstile”. Per questo motivo, anche se la perizia e l’intelligenza potrebbero permetterglielo, l’artista rifugge dall’assoggettare ad un unico registro formale il suo lavoro, applicando sia tecniche di propria invenzione, sia attualizzando pratiche in uso sin dagli albori della pittura. Pur in questa continua variazione emerge dunque una coerenza ed una continuità di ricerca che sfocia in un iperstile che sovrintende con mezzi diversi verso un unico scopo.
Tale sperimentazione supporta un processo creativo che è intimamente connesso alla memoria ed alla sua interpretazione, accompagnandosi ad una lucida critica della crisi correlata alla riproducibilità dell’immagine. Il titolo della mostra “Stanligrad in every city” prende spunto da un evento non pubblicizzato che ha visto per una mezzora solcare i cieli di Manhattan da un aereo che sventolava il messaggio pubblicitario “Stanligrad in every city”.
Il nome della città sovietica è stato storpiato per evitare complicazioni nel mostrare striscioni di intento politico nei cieli di New York. Resta tuttavia invariato il messaggio ed il riferimento alla Battaglia di Stalingrado, di cui ricorre il settantesimo anniversario, che segnò la prima grande sconfitta politico-militare della Germania nazista. L’utopico risvolto politico-sociale di una “Stalingrado in ogni città” è ovviamente concatenato all’idea di trasmettere ad un pubblico ampio un messaggio universale sottoforma di pubblicità e di veicolazione del linguaggio. Le modalità con cui si muove la comunicazione e la sua crisi diventano allora la chiave di lettura della mostra. Oltre allo striscione, in mostra a modo di reliquia e di memento, l’artista espone una serie di pitture che, anche se tecnicamente e formalmente diverse, si legano allo stesso fil rouge.
In “OhOhOh” l’artista presenta un fumettistico olio, quasi una contemporanea pala d’altare, dove lo sfortunato quanto ingegnoso Wile E. Coyote sta per essere travolto da un treno; mentre nell’astratto “Roosha” il movimento delle colate dell’inchiostro di seppia evocano la traduzione visuale del linguaggio dei sensi. In “Gone for” - disegno a carboncino rosso, verde, nero e bianco - Timoney riproduce realisticamente un camion rovesciato sul ciglio di una strada di campagna mentre l’unica presenza umana sembra disinteressarsi alla cosa. “Crossing” stratifica sullo stesso quadro, grazie all’uso del rivelatore fotografico, una veduta naturalistica sovrapposta alle strisce pedonali di una strada.
Timoney offre una serie di spunti: di mezzi di trasporto fuori controllo, di cambiamenti di direzione, di una comunicazione bloccata e sibillina, di messaggi che, anche se apparentemente espliciti, diventano imprecisi o deviati. Allusioni al continuo mutare dei linguaggi che mettono in discussione la prospettiva di una lettura non convenzionale del mondo e del suo frammentato trasformarsi.
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