Bodywork: Discomfort and Existence
Dal 23 Febbraio 2021 al 17 Aprile 2021
Milano
Luogo: Massimo De Carlo Gallery
Indirizzo: Viale Lombardia 17
E-Mail info: milano@massimodecarlo.com
Sito ufficiale: http://www.massimodecarlo.com
MASSIMODECARLO presenta Bodywork: Discomfort and Existence, una mostra collettiva che riunisce il lavoro degli artisti contemporanei Shannon Cartier Lucy, Jordan Casteel, Aaron Garber-Maikovska, Sayre Gomez, Johannes Kahrs, Kathleen Ryan e Kaari Upson con opere su carta realizzate da Carol Rama tra gli anni Sessanta e Ottanta, e importanti opere video di Bruce Nauman e dalla coreografa Pina Bausch. L’accostamento di posizioni derivanti da luoghi e contesti distanti tra loro offre l’occasione per comprendere gli impulsi condivisi e le visioni artistiche che utilizzano la corporalità come influenza e strumento per la pittura, la scultura e la performance, così come il ruolo che il corpo ha come oggetto di analisi e strumento per comprendere strutture di potere e relazioni sociali.
Bodywork: Discomfort and Existence mappa l’attuale disagio esistenziale e indaga lo spazio che occupa il corpo. Nell’ultimo anno il nostro stile di vita, le nostre idee e il modo in cui guardiamo a noi stessi sono profondamente cambiati. Questa mostra parte dall’odierno malessere del corpo nel vivere il presente, nell’intimità tanto quanto all’interno della società. Il corpo è dunque il soggetto della mostra: il corpo inteso come strumento che permette di stabilire una relazione con il contesto circostante, e il corpo che vive il proprio tempo a prescindere da vincoli esterni. La complessità della mostra, con la sua identità multiforme, pone una serie di domande, piuttosto che cercare di dare risposte.
La centralità del video e della danza all’interno della mostra riporta l’attenzione sull’effimero, la mortalità e l’interferenza fra le varie discipline culturali. Negli anni Sessanta gli artisti iniziarono a rifiutare i limiti stabiliti dalle diverse aree artistiche, alla ricerca di un’esperienza non mediata. Il teatro, le cosiddette arti visive, la pittura e la scultura furono destituiti delle loro funzioni tradizionali da numerosi artisti che iniziarono a utilizzare il corpo quale principale strumento di lavoro. Tra questi, Bruce Nauman usava il proprio corpo e la propria fisicità per esplorare i limiti delle condizioni di vita quotidiane, e trasformò il video nel suo palcoscenico teatrale e dispositivo di sorveglianza ideali. In Wall/Floor Positions (1968), Nauman utilizza il suo corpo per esplorare lo spazio del suo studio, trasformandosi in una sorta di metro umano per indagare e misurare le dimensioni dello spazio circostante.
Allo stesso modo, Pina Bausch esplora i limiti della materialità e della fisicità corporea scomponendo con la sua opera gli stereotipi a essi legati. Nell’estratto in mostra da Un jour pina a demandé, diretto da Chantal Akerman nel 1983, due ballerini, per mezzo dei loro corpi e dei loro movimenti, uniscono ripetutamente dimensioni tra loro inconciliabili e disfano stereotipi corporei e sessuali, strutture tradizionali e ruoli di genere. Con il suo Tanztheater, la coreografa tedesca genera nuovi modi di pensare lo spazio, il tempo e il movimento, attraverso un linguaggio ibrido che mette in scena interazioni sociali e i traumi psicologici che ne derivano.
Gli eventi del corpo, trattati in base alle diverse sensibilità e idee, sono al centro del lavoro degli altri artisti in mostra. Non a caso, è con il termine somatico che l’artista Aaron Garber-Maikovska descrive la propria opera, che si situa in un interstizio tra movimento, danza, semiotica, pittura e performance, con il corpo a fare da ultimo connettore. Utilizzando il proprio corpo come sito di indagine, l’artista concepisce le sue opere come un sistema di documentazione per la memoria muscolare. ‘Il corpo e le macchie sono sempre presenti nel mio lavoro’, afferma Kaari Upson, i cui due busti in mostra sono i ritratti ambigui delle donne che definiscono il mondo dell’artista, la quale spesso si richiama alla propria discendenza matriarcale come principale fonte di ispirazione del suo lavoro. Ciascun volto viene fuso, ingrandito e dipinto su vari livelli sovrapposti, e successivamente pressato in modo da fondere e far colare la vernice. Un tema centrale del lavoro di Johannes Kahrs è la rappresentazione del corpo umano. In Untitled (pink nude) (2013), ad esempio, la corporalità è sezionata con cura feticista, e la frammentazione del corpo sfida la nostra capacità di osservare, mettendo in discussione la realtà rivelandone la fisicità, la perturbazione e la sensualità violenta.
Shannon Cartier Lucy, Jordan Casteel e Kathleen Ryan esplorano il concetto di corpo attraverso diversi media e stili. Le sculture di Ryan hanno una fisicità dirompente, realizzate con svariati oggetti recuperati e resi spettacolari, spesso in contrasto con i soggetti che rappresentano: un limone dai lineamenti candidi e leggeri è realizzato con pietre pesanti, marmo e rocce ruvide, diventando un’allegoria dinamica della decadenza del corpo e del ciclo della vita. Attraverso i loro dipinti, Cartier Lucy e Casteel esprimono i diversi modi del vivere sociale: la limpida e malinconica realtà domestica di Cartier Lucy contrasta con i ritratti a grandezza naturale di Casteel, che fonda la sua pratica nell’impegno comunitario. Il senso di solitudine e nostalgia che caratterizza l’opera di Cartier Lucy si ritrova anche nell’opera di Sayre Gomez, la cui anta chiusa trompe-l’oeil diventa metafora di distanza e immobilità in contrasto con la sua superficie tangibile, quasi palpabile.
Infine, le cupe composizioni su carta di Carol Rama mostrano ritratti disturbati del corpo umano capaci di sprigionare un’energia frenetica. Liberati da norme e preconcetti culturali, i corpi storpiati e deformi ci invitano a riconsiderare l’idea di bellezza delle forme maschili e femminili.
Bodywork: Discomfort and Existence mappa l’attuale disagio esistenziale e indaga lo spazio che occupa il corpo. Nell’ultimo anno il nostro stile di vita, le nostre idee e il modo in cui guardiamo a noi stessi sono profondamente cambiati. Questa mostra parte dall’odierno malessere del corpo nel vivere il presente, nell’intimità tanto quanto all’interno della società. Il corpo è dunque il soggetto della mostra: il corpo inteso come strumento che permette di stabilire una relazione con il contesto circostante, e il corpo che vive il proprio tempo a prescindere da vincoli esterni. La complessità della mostra, con la sua identità multiforme, pone una serie di domande, piuttosto che cercare di dare risposte.
La centralità del video e della danza all’interno della mostra riporta l’attenzione sull’effimero, la mortalità e l’interferenza fra le varie discipline culturali. Negli anni Sessanta gli artisti iniziarono a rifiutare i limiti stabiliti dalle diverse aree artistiche, alla ricerca di un’esperienza non mediata. Il teatro, le cosiddette arti visive, la pittura e la scultura furono destituiti delle loro funzioni tradizionali da numerosi artisti che iniziarono a utilizzare il corpo quale principale strumento di lavoro. Tra questi, Bruce Nauman usava il proprio corpo e la propria fisicità per esplorare i limiti delle condizioni di vita quotidiane, e trasformò il video nel suo palcoscenico teatrale e dispositivo di sorveglianza ideali. In Wall/Floor Positions (1968), Nauman utilizza il suo corpo per esplorare lo spazio del suo studio, trasformandosi in una sorta di metro umano per indagare e misurare le dimensioni dello spazio circostante.
Allo stesso modo, Pina Bausch esplora i limiti della materialità e della fisicità corporea scomponendo con la sua opera gli stereotipi a essi legati. Nell’estratto in mostra da Un jour pina a demandé, diretto da Chantal Akerman nel 1983, due ballerini, per mezzo dei loro corpi e dei loro movimenti, uniscono ripetutamente dimensioni tra loro inconciliabili e disfano stereotipi corporei e sessuali, strutture tradizionali e ruoli di genere. Con il suo Tanztheater, la coreografa tedesca genera nuovi modi di pensare lo spazio, il tempo e il movimento, attraverso un linguaggio ibrido che mette in scena interazioni sociali e i traumi psicologici che ne derivano.
Gli eventi del corpo, trattati in base alle diverse sensibilità e idee, sono al centro del lavoro degli altri artisti in mostra. Non a caso, è con il termine somatico che l’artista Aaron Garber-Maikovska descrive la propria opera, che si situa in un interstizio tra movimento, danza, semiotica, pittura e performance, con il corpo a fare da ultimo connettore. Utilizzando il proprio corpo come sito di indagine, l’artista concepisce le sue opere come un sistema di documentazione per la memoria muscolare. ‘Il corpo e le macchie sono sempre presenti nel mio lavoro’, afferma Kaari Upson, i cui due busti in mostra sono i ritratti ambigui delle donne che definiscono il mondo dell’artista, la quale spesso si richiama alla propria discendenza matriarcale come principale fonte di ispirazione del suo lavoro. Ciascun volto viene fuso, ingrandito e dipinto su vari livelli sovrapposti, e successivamente pressato in modo da fondere e far colare la vernice. Un tema centrale del lavoro di Johannes Kahrs è la rappresentazione del corpo umano. In Untitled (pink nude) (2013), ad esempio, la corporalità è sezionata con cura feticista, e la frammentazione del corpo sfida la nostra capacità di osservare, mettendo in discussione la realtà rivelandone la fisicità, la perturbazione e la sensualità violenta.
Shannon Cartier Lucy, Jordan Casteel e Kathleen Ryan esplorano il concetto di corpo attraverso diversi media e stili. Le sculture di Ryan hanno una fisicità dirompente, realizzate con svariati oggetti recuperati e resi spettacolari, spesso in contrasto con i soggetti che rappresentano: un limone dai lineamenti candidi e leggeri è realizzato con pietre pesanti, marmo e rocce ruvide, diventando un’allegoria dinamica della decadenza del corpo e del ciclo della vita. Attraverso i loro dipinti, Cartier Lucy e Casteel esprimono i diversi modi del vivere sociale: la limpida e malinconica realtà domestica di Cartier Lucy contrasta con i ritratti a grandezza naturale di Casteel, che fonda la sua pratica nell’impegno comunitario. Il senso di solitudine e nostalgia che caratterizza l’opera di Cartier Lucy si ritrova anche nell’opera di Sayre Gomez, la cui anta chiusa trompe-l’oeil diventa metafora di distanza e immobilità in contrasto con la sua superficie tangibile, quasi palpabile.
Infine, le cupe composizioni su carta di Carol Rama mostrano ritratti disturbati del corpo umano capaci di sprigionare un’energia frenetica. Liberati da norme e preconcetti culturali, i corpi storpiati e deformi ci invitano a riconsiderare l’idea di bellezza delle forme maschili e femminili.
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