Il cuore barocco di Napoli
Napoli barocca3
25/02/2004
Quando Caravaggio arrivava a Napoli nell'ottobre del 1606 non immaginava certo di provocare uno sconvolgimento nel panorama artistico della città. La fama delle opere romane lo aveva preceduto: una larga schiera di committenti e di giovani artisti, stanchi dei modi e delle forme della pittura di ascendenza rinascimentale, lo braccavano e lo investivano del ruolo di rinnovatore e maestro. Le Sette Opere di Misericordia e la Flagellazione di Cristo diventavano i manifesti cittadini della nuova pittura che, abbandonati i tradizionali riferimenti al bello ideale, si votava alla rappresentazione fedele del dato naturale.
L'attardato fondo manieristico della cultura locale poteva dirsi spazzato via già alla fine del primo decennio del secolo.
Tra i primi a recepire il messaggio dell'artista lombardo fu Battista Caracciolo, detto Battistello (1570-1637), entusiasta e comprensivo interprete della poetica del maestro. Già nel Battesimo di Cristo della Quadreria dei Girolamini, anteriore al 1610, l'adesione è completa: l'intensa religiosità è resa in termini di ascetica e composta gravità; squarci luminosi e brani di intensa verità naturale danno sostanza alla composizione.
Tra il 1616 e il 1630 è però l'attività di Jusepe de Ribera (1591-1652), artista formatosi a Roma dopo il 1610 e lungamente protetto a Napoli dai viceré spagnoli, a proporsi come momento decisivo per l'intero sviluppo della pittura locale. Dapprima caratterizzato da un'autonoma espressione naturalistica, fondata sull'immediata e brutale trascrizione del dato visivo, il linguaggio di Ribera si modifica in seguito puntando verso una più equilibrata visione e una ricerca di bellezza formale. I suoi giovanili martiri e apostoli in primo piano, ammantati di vesti pesanti e misere e segnati da intense espressioni facciali, influenzano tanto Velazquez (in visita a Napoli nel 1630) quanto Zurbaran.
La Pietà eseguita nel 1637 per la Certosa di San Martino, tra i migliori esempi della seconda maniera del Ribera, rispecchia invece la più generale evoluzione della scuola napoletana verso il classicismo carraccesco, sotto l'influsso degli artisti emiliani giunti a Napoli tra il terzo e il quarto decennio del secolo.
Proprio l'innesto della maniera chiara e ariosa di Guido Reni (in città nel 1621) e di Domenichino (dal 1630 impegnato negli affreschi della Cappella del Tesoro di San Gennaro in duomo) su quella scura e tenebrosa di ascendenza caravaggesca caratterizza l'attività di pittori quali Massimo Stanzione (1585-1656) e Bernardo Cavallino (1616-56). La Pietà dipinta da Stanzione per la Certosa di San Martino in concorrenza col Ribera (1638) coniuga l'equilibrio compositivo di derivazione emiliana con un brillante pittoricismo e un'intonazione teatralmente sentimentale. L'intima poesia di Cavallino si esprime in quadri di dimensioni limitate, le cui superfici scintillano grazie a pennellate saettanti, come strappate e sfrangiate dal vento, fino a perdere il significato di rivestimento di masse compatte. Il Cavallino, che tratta temi biblici con gusto profano e quasi di genere, puntando sulla qualità della stesura, ricca di effetti serici, e sul garbo briosamente teatrale delle invenzioni, si colloca in una posizione d'avanguardia, del tutto originale.
E' sempre intorno al 1630 che la pittura napoletana, apertasi grazie agli artisti emiliani ai contatti con Roma (con i padri Teatini e con i Gesuiti soprattutto), passa dal naturalismo riformato (mix di caravaggismo e carraccismo) al barocco. Giovanni Lanfranco, reduce dall'impresa romana di Sant'Andrea della Valle, si intrattiene nella capitale partenopea dal 1633 al 1646, collaborando alle imprese pittoriche più prestigiose del periodo (cupola della cappella di San Gennaro in duomo, affreschi al Gesù Nuovo). Sulle sue opere, caratterizzate da una maniera ariosa e veloce che disdegna il tenebrismo caravaggesco e si rifà direttamente a Correggio, si formano Mattia Preti (1613-99) e Luca Giordano (1634-1705). Il primo, di origini calabre, giunge a Napoli dopo aver soggiornato più volte a Roma e a Venezia; il secondo, napoletano, trascorre un fondamentale periodo giovanile in terra veneziana, compiendo una sintesi spettacolare tra le opere del Rinascimento maturo (Raffaello, Correggio, Tiziano, Veronese), Caravaggio e i modelli contemporanei (Lanfranco, Pietro da Cortona).
Mattia Preti, nel bozzetto preparatorio (Napoli, museo di Capodimonte) per gli affreschi, oggi perduti, dipinti sulle porte della città in concomitanza con la terribile peste del 1656, utilizza gli espedienti della pittura barocca romana del tempo (drammaticità, impaginazione dinamica, scorci virtuosistici), ricorrendo a tonalità argentee e ad una tecnica pittorica discorsiva e vibrante. Nel Trionfo di Giuditta (Napoli, Certosa di San Martino, Cappella del Tesoro) Luca Giordano smaterializza le forme e offre la prova più aerea e luminosa della sua concezione spaziale. Il suo principale allievo, Francesco Solimena (1657-1747), ne segue la lezione dilatando il respiro delle composizioni (si veda per tutte la Caduta di Simon Mago della chiesa di San Paolo Maggiore), caratterizzate da complesse partizioni architettoniche, da un multiforme ordine e da citazioni dai maggiori brani di pittura del Seicento italiano (Annibale Carracci, Domenichino, Pietro da Cortona). Siamo entrati nel XVIII secolo, alle soglie di quella stagione rococò che rivoluzionerà il gusto e il modo di intendere l'arte.
I tempi di Tiepolo e di Fragonard si approssimano. La pittura barocca si svuota dei contenuti allegorico-moraleggianti, della sudditanza alla pratica accademica del disegno, degli obblighi verso la Storia e la Religione: finalmente si libra in volo
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