Nick Cave - "E l’asina vide l’angelo"

nick kave
 

22/01/2004

Dopo anni di struggimenti, ecco “And the Ass Saw the Angel”, la storia di un ragazzo muto in un villaggio lambito dalla palude. Una sfilata turpe di personaggi e di cattiveria, una bacheca del male fatta per sconvolgere. Trattandosi di Cave, non ci si stupisce. Le vicende di “E l’asina vide l’angelo” (Oscar Mondadori) narrano di Euchrid Eucrow, un ragazzo sopravvissuto al suo gemello morto durante il parto (come Elvis). Il ragazzo ricorda e racconta nei momenti prima della morte, mentre sprofonda nei fanghi molli della palude, inseguito dai popolani con torce e forconi, intenzionati a giustiziarlo. Questa è una delle immagini meno crude del romanzo, ma il vizio e l’orrido non sono tutto. Conoscere il Cave musicista prepara al tenore dello sberleffo e dell’humour nero. Prepara alla venatura biblica e alla crudeltà furibonda. Quando furibonda e quando diretta, immanente. La speranza e la salvezza non sono considerate. Sia il male che la sua soluzione sono fallimentari, e portano rovina. Il libro, la trama, è come una strada sporca e lurida che non porta alla meta. La meta non c’è. Quel che importa però è ciò che accade nella strada. Là viene esibito il grottesco, la disgrazia, la follia paradossale, la mutilazione, la devianza. Qual è il significato? Un circo non insegna nulla, non è la metafora di niente, è solo una parata di meraviglia e di gioia. Allo stesso modo, questo libro è una parata di crudeltà e deformità, fisica e morale, e sociale. Solo in questo senso è una storia esemplare. Dimostra una certa umanità e una certa vita, potandole delle ramificazioni del senso, del logico, del racconto classico. Come un testo morale, come la Bibbia, espone la sua verità senza sentire il bisogno di spiegarla. I più sciocchi chiameranno questa ‘violenza gratuita’, disperdendo nelle facce esterrefatte la fragranza della storia, e la libertà del racconto. Una Macondo dell’abiezione, in mezzo al nulla. E chi è avvezzo alla metrica, alla scrittura evocatrice del verso, alla sintesi e alla privazione di spazio, e al sostegno che la musica offre ai concetti, di fronte al romanzo si presuppone debba violentarsi. O improvvisamente libero, c’è il rischio che sbrodi senza criterio. Nel caso di Nick Cave, e vista la bontà del libro, né l’una né l’altra cosa. Musicisti come Leonard Cohen si sono accostati al romanzo con maestria, ma senza confondere le due professioni, e oggi c’è un Cohen narratore ben distinto dal Cohen cantautore. Per Cave invece questa è una prova fortemente voluta, ma unica e senza seguiti. Il Cave del romanzo così è proprio quello delle canzoni, anche nel ritmo, e nel disordine dello stile. Che passa dal selvatico all’inquadrato e pulitino, in accostamenti anche kitch, ma efficaci. L’aggettivazione corposa, eccessiva, è un segno della poca dimestichezza col mezzo narrativo. Il risultato però è sorprendente, onesto, bruciante. Il disagio non è gratuito e non è estorto, e quello che resterà dopo la lettura fa parte del corredo.

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