Un'artista profondamente immersa nel realismo magico
Shirin Neshat, una coraggiosa sognatrice
Shirin Neshat, Land of Dreams, 2019 | © Shirin Neshat
Piero Muscarà
10/09/2023
Venezia - È stata una grande emozione incontrare a Venezia, in occasione della 80ª edizione della Mostra del Cinema, Shirin Neshat. All’artista, fotografa e regista iraniana è stato consegnato il 5 settembre 2023 il premio Le Vie dell’Immagine assegnato per la prima volta da NABA Nuova Accademia di Belle Arti e dal magazine Cinematografo in collaborazione con le Giornate degli Autori. Venezia del resto è un luogo speciale per la Neshat che ha raccontato come la città sulla laguna sia stata meta delle svolte più significative della sua carriera. Nel 1999 ha ricevuto il Leone d’Oro alla Biennale d’Arte per la videoinstallazione Turbulent. Dieci anni più tardi, nel 2009, alla Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia ha ricevuto il Leone d’Argento per il suo primo lungometraggio - il film Women Without Men. Nel 2017 è tornata ancora alla Mostra, questa volta ospite delle Giornate degli Autori con un suo film Looking for Oum Kulthum.
In occasione del suo passaggio veneziano - a conclusione dell’incontro di Shirin Neshat con gli studenti della Scuola Nazionale di Cinema e di NABA - ARTE.it ha avuto la possibilità di scambiare qualche parola con l’artista. Nonostante la brevità, poco meno di mezz’ora, il contesto in cui si è svolto l’incontro - una grande sala con un palcoscenico affollata di molte persone vocianti - e l’amorevole ansia della sua assistente che l’ha troppo presto reclamata "altrove", incontrare la Neshat è stato un privilegio e per qualche istante anche un piacevole scambio intellettuale.
Shirin Neshat | Foto: © Rodolfo Martinez
Shirin è una donna minuta, piena di forza e di fascino: parla con un tono di voce dolce e tranquillo, anche quando - e accade molto spesso - dice cose serissime. Nella masterclass che ha dedicato agli studenti ha ripercorso i suoi passaggi veneziani, ha brevemente accennato ad alcune delle sue opere d’arte più note - Women of Allah (1994) e The Fury (2023) - ma ha parlato anche del suo percorso di avvicinamento al cinema. Ha incitato gli studenti “a non farsi intimidire” dal gigantismo hollywoodiano e ad andare avanti credendo in loro stessi, come un buon maestro fa con i propri allievi, e ha accettato di rispondere a qualche domanda del pubblico. L’incontro è stato del resto filmato dalla Scuola Nazionale di Cinema e si spera questo materiale verrà reso disponibile, oltre che agli studenti dei suoi corsi, anche al più vasto pubblico di appassionati d’arte interessati alla pratica di Shirin Neshat.
Di seguito intanto l’intervista, che poi non è un'intervista molto ordinaria, che abbiamo realizzato.
Prima di ascoltare la tua masterclass pensavo di avere molte domande, ma ascoltandoti parlare agli studenti ho deciso di stracciarle. Seguiremo un altro percorso. Andiamo a braccio. Hai detto più volte di non essere un'artista interessata al realismo e hai menzionato l’importanza dei sogni nella tua pratica. Mi domandavo - pensando al fatto che la tua vita si è svolta in Iran prima e negli Stati Uniti poi - se i tuoi sogni siano in persiano o in inglese…
Non solo nei sogni, anche nella vita reale mi trovo ad andare in giro e penso di parlare e pensare contemporaneamente in entrambe le lingue... è tutto un po’ confuso e poco netto credo... ma sui sogni vorrei dirti una cosa che ho notato. Sogno molto e me li trascrivo quando mi sveglio. Ma i miei sogni sono sempre incubi, non sono mai bei sogni, mai, quasi mai, potrebbero essere benigni, niente di interessante in quel caso. Forse è per questo che ci credo fermamente ed è la ragione per cui sono passata dallo scrivere i miei sogni e trasformarli in film, a collezionare i sogni di altre persone perché ho questa curiosità. Credo sia vero che le paure della maggior parte delle persone vivano nei loro sogni. Infatti quando abbiamo realizzato questo progetto (Land of Dreams - NDR: il film del 2021 che Shirin Nehsat insieme al marito Shoja Azari ha diretto su una sceneggiatura scritta da Jean-Claude Carrière) ho letteralmente chiesto alle persone dei loro sogni. Dai senzatetto alle persone benestanti, e quando lo fai davvero capisci che c’è un altro aspetto dei sogni: i sogni attraversano i confini. È come se i nostri sogni fossero tutti molto simili tra loro: come la paura della morte, la paura dello spostamento da un luogo ad un altro, la guerra, la violenza, l’alienazione, l’abbandono… e quindi per me i sogni sono paura... i sogni sono una proiezione delle paure inconsce delle persone.
Stai dicendo che nello stato di veglia non siamo in grado di gestire queste paure e abbiamo bisogno di sognare per farle emergere ?
Proprio così. Secondo me, la maggior parte degli esseri umani durante la giornata fanno di tutto per nascondere a se stessi e agli altri il proprio subconscio. Questo perché non vogliamo “traboccare”. Io non voglio mostrarvi la mia vulnerabilità, non voglio svelare di cosa mi preoccupo. Se la mia paura è la salute, se è mia madre, se è la carriera, se è un partner… qualunque cosa sia, queste paure le teniamo nascoste, mentiamo, perché dobbiamo funzionare. Ma quando dormiamo tutti quei pensieri, tutte quelle ansie, diventano così reali, così vivide.
Shirin Neshat, Roja, 2016 | © Shirin Neshat
Parlami delle tue paure...
Per esempio, solo per darti un'idea, stavo registrando i miei sogni e mi sono resa conto che nei miei sogni mia madre appare spesso come una sorta di salvatrice, come una sicurezza nelle peggiori situazioni. Ho capito che lei a sua volta stava cercando di connettersi con sua madre, ma che sua madre si è trasformata in un mostro. Quello era il mio sogno. Finalmente ho capito che il potenziale di perdere la mia casa non rappresenta solo la mia casa. Rappresenta l’idea di essere senza dimora, senza tetto. In qualche modo è come se il legame con mia madre - che ora ha 94 anni e che letteralmente non so quanto vivrà, e che chiamo ogni giorno al telefono ma che non vedo, non posso vedere, da molto tempo - è come se il mio rapporto con lei, il modo in cui lei appare nei miei sogni, tutto questo rappresenti anche il mio rapporto con il mio paese. Se lei muore, molto probabilmente il mio legame con l’Iran sarà reciso, sarà cancellato.
So che sei stata cresciuta in Iran in una famiglia benestante e hai frequentato una scuola cattolica. Da qualche parte ho letto che tuo padre aveva questa idea che l’America fosse una sorta di dreamland. Una terra dei sogni, l’incarnazione dei valori della democrazia …
Negli anni ‘70 l’immagine dell’America in Iran era quella che ci dava Hollywood. Tutti erano ossessionati dagli Stati Uniti, anche se in verità pochi iraniani ci erano mai andati e la più parte era stata al massimo in Europa. Il cinema hollywoodiano era il nostro tramite a quel mondo, il nostro modo di comprenderlo e di fantasticarne. Tutto sembrava meraviglioso, quelle magnifiche case immerse nel sole, belle persone, belle automobili, nessun problema politico, nessuna polizia segreta. Era un mondo perfetto, fantastico, immaginato con grande euforia. Tutti volevano mandare i loro figli all’estero in California, a Los Angeles.
Nel 1975 ti sei iscritta all’University of California, Berkeley dove hai completato i tuoi studi. Come ricordi quegli anni?
Li ricordo come alcuni degli anni più tristi della mia vita, dal momento in cui sono arrivata fino a quando ho lasciato la California, perché era esattamente l’opposto di come l’avevo immaginata. Non solo mi ero disconnessa alla mia comunità, dal mio mondo d’origine. Vivevo in piccoli appartamenti e passavo molto tempo in classe a studiare. Mio padre e mia madre, la mia famiglia mi mancavano disperatamente. E poi è arrivata la rivoluzione, e ovviamente da quel momento non potevo più tornare indietro in Iran. Sono stata molto arrabbiata, per lungo tempo, con mio padre. Per il modo in cui aveva incoraggiato i suoi figli ad andarsene via, così lontani. E infatti sento che gran parte dei temi del mio lavoro artistico risalgano a quel periodo, a quegli anni lontani…
Pensi avresti avuto un futuro in Iran?
No, non credo. Innanzi tutto perché purtroppo non credo che questo governo (il regime iraniano - NDR) sia in grado di andare da nessuna parte. In secondo luogo perché lo stile di vita che ho sviluppato è basato sul fatto che sono una outsider: vivo in un luogo dove non assomiglio agli altri, non parlo come fanno tutti. Non ho la minima idea di cosa voglia dire vivere in Iran, dove sono uguale agli altri. Probabilmente in Iran sarei ancora più un’outsider di quanto non lo sia a New York. A NY tutti vengono da un altro luogo, tutti sono un po’ estranei. In Iran penso, la gente mi discriminerebbe perché non sono come loro.
...magari un domani sarà diverso, migliore...
Temo di no. Penso che la parte più triste della storia del popolo iraniano sia il fatto che per 44 anni siamo stati divisi e separati. Anche se le cose andassero meglio per noi, non saremo mai più interi, lo dico sul serio. Intendo dire che non potremo essere un'unica comunità, perché (gli iraniani espatriati - NDR) ci siamo così profondamente separati e adattati alle altre comunità dove viviamo, così tante persone si sono sposate con persone di altri paesi. Io stessa ho avuto un figlio che è per metà coreano, per metà iraniano. Non so se mai potrò nella mia vita tornare a vivere in Iran. Non credo.
Shirin Neshat, Land of Dreams, 2019 | © Shirin Neshat
Durante la masterclass, hai accennato al fatto che non hai studiato fotografia e che per la tua prima serie - Women of Allah (1994) - hai utilizzato un fotografo per scattare le immagini. Eppure se io guardo le tue fotografie, i tuoi video, i tuoi film… l’estetica, la dimensione estetica di ogni tua immagine mi sembra ti appartenga profondamente. È attraverso la dimensione estetica che mi sono avvicinato alla tua arte. Mi sono quindi un po’ stupito quando ho saputo che non eri tu…
Capisco la tua meraviglia. Non intendo dire che non sono mie immagini. Intendo dire che in quel momento la fotografia era uno strumento troppo potente per me e quindi ho usato qualcuno per fare click alla macchina fotografica. Le immagini però sono frutto della mia estetica e del mio linguaggio di ricerca artistico.
In che modo usi l’estetica per la tua arte?
Nell’arte io cerco le emozioni. Amo essere commossa emotivamente, adoro vedere film che mi fanno piangere, voglio sentire che l'arte è qualcosa che ti trasforma, sono fermamente convinta che l’arte abbia cambiato la mia vita. La vita, sai, voglio quel tipo di aspettativa dall'arte, vero, ma parte di quella espressione di emozioni è anche la costruzione dell'immagine stessa. La poesia, la poetica del modo in cui la componi. Il modo in cui usi la fotocamera, il modo in cui usi la musica. È un sottile equilibrio attraverso cui crei emozioni, non solo con l'uso dell’immagine, ma con qualsiasi altra cosa. Ad esempio la calligrafia, se vedi i miei ultimi lavori - The Fury, NDR - per me sono molto emozionanti il modo in cui le scritte inizino in linea retta e poi comincino a cadere. Per me si tratta di come aumentare le emozioni, in modo che ciò sia comprensibile anche per altre persone, divenga universale. Penso che come artisti cerchiamo di provocare le persone in modo che si identifichino con noi.
Quello che intendevo è che tu usi la bellezza come strumento per attivare le emozioni e attraverso la dimensione estetica sei in grado di sviluppare una narrazione che diventa ancora più potente nel momento in cui il pubblico capisce di cosa stai parlando. The Fury, una mostra di nuove fotografie incentrate sul tema dello sfruttamento sessuale delle prigioniere politiche in Iran, che ha aperto ai primi di settembre e sarà visitabile al Fotografiska di Stoccolma fino al 18 febbraio 2024 - ne è un buon esempio credo.
Questo vale anche per molti altri registi, a cui ci si avvicina per la dimensione molto visiva del loro cinema. Penso a Tarkovsky che per me è una delle persone più poetiche. Il modo in cui ti trascina nella storia non è solo con le parole, ma con la poetica e la politica emotiva dell'umore, ed è quello lo spazio in cui mi piace essere. Non sempre ci riesco però.
Sei anche molto umile. Citi spesso tuoi supposti fallimenti. Lo fai per avvicinare il pubblico alla tua arte e non farlo spaventare di fronte alla grandezza della tua opera?
Oh, ma io ho anche dei lavori che non sono molto buoni, il che va bene perché sai, una cosa di cui non abbiamo parlato è che io amo gli artisti, e gli artisti sono vulnerabili. Io credo nella loro imperfezione Non ho problemi ad ammetterlo. In effetti conosco alcuni dei migliori artisti viventi che sono così vulnerabili e penso che sia la qualità più grande di un artista comprendere la propria imperfezione.
Shirin Neshat, Daniela, Dalla serie The Fury, 2023 | © Shirin Neshat | Courtesy Shirin Neshat e Gladstone Gallery, New York / Brussels
Ho letto da qualche parte che il tuo arrivo nel mondo del cinema sia una reazione a quello dell’arte. Un mondo di cui ti saresti stufata…
Quando ho realizzato il film Woman without men mi sono allontanata dal mondo dell’arte per quasi sei anni. Mi aspettavo che il mondo dell’arte si dimenticasse di me e invece la cosa interessante, e inaspettata, è che questa lunga pausa mi ha fatto rispettare di più. Penso che uno dei motivi per cui sono ancora rilevante come artista sia perché il pubblico vede che sto facendo cose sempre diverse, che mi reinvento. Nel cinema sono ancora una new comer, ma nel mondo dell’arte ho successo con le mie opere, faccio mostre importanti e come fotografa e come videoartista sono orgogliosa di come una donna iraniana, cresciuta da sola negli Stati Uniti, possa mantenersi e vivere con i soldi che derivano dalla sua arte e anche realizzare dei film.
Ho notato dalle domande che ti son state fatte alla fine della masterclass, che spesso ti viene chiesto se ti definisci un’attivista politica, un’artista di propaganda. E quando tu rispondi che hai le domande e non hai le risposte e che non ti senti un’attivista quasi tutti ci rimangano male.
Mi sento molto a disagio quando l’arte diventa propaganda. Anche quando un film è fatto molto bene, ma è estremamente manipolativo. Penso sempre che siano opere basate sulle idee correnti in quel momento storico, ma non siano senza tempo. E quindi penso siano opere manipolative del pubblico e questo non mi piace. Il pubblico è molto pigro e a dire il vero non ama usare la propria immaginazione. A volte ci sono storie difficili da digerire e molti se ne vanno perchè il pubblico è davvero interessato a vedere film che danno le risposte che si attendono.
Hai visto il film Barbie? Ho letto una recensione scritta da Boris Johnson, l'ex premier britannico, che mi ha convinto ad andare a vederlo. Nonostante io avessi molte reticenze.
Si ho visto Barbie e mi è piaciuto. Penso che Greta Gerwig sia una regista estremamente intelligente. C’è sempre la questione che invece ("noi registe impegnate" - NDR) dovremmo odiare i film di questo genere, che lei ha venduto la sua anima per 150 milioni di dollari a Hollywood e ragionamenti di questo tipo. Io invece dico: perchè no? Credo lei abbia cercato di realizzare un film significativo mentre intratteneva e divertiva il pubblico, ma aveva un coltello affilato in termini di critica al modo in cui noi donne siamo state programmate con bambole che erano mamme e siamo poi passate all'idea della bambola che diviene l'immagine della perfezione stessa. Penso sia un tema molto interessante. Alla fine Barbie è un film che diventerà uno dei pochi blockbuster realizzati da una donna, uno dei più grandi successi al box office della storia del cinema, e un film che riguarda il femminismo. Mi pare un grande risultato.
Nel tuo ultimo film, Land of Dreams (2021), hai avuto la fortuna di lavorare con Jean Claude Carrière. Che esperienza ne hai tratto?
Ho avuto la fortuna di conoscere Jean Claude Carrière per tramite di sua moglie Nahal Tajadod che come me è iraniana e con cui siamo grandi amiche. Quella di Land of Dreams è stata l’ultima sceneggiatura a cui Jean Claude abbia lavorato (Jean Claude Carrière ha anche lavorato ad un altro film straordinario, il documentario L'Ombra di Goya - NDR), perché dopo pochi mesi è mancato. Abbiamo lavorato assieme a Parigi. Che giornate meravigliose, che bel tempo passato assieme. Avresti potuto farti un’istruzione semplicemente ascoltando le sue storie, le sue esperienze che raccontava sempre con buon umore. Era un uomo così umile e così vulnerabile. Amavo così tanto parlare con lui così teneramente. Diceva sempre una cosa bellissima: quando scrivo apro delle porte, se non ti piace Sherin chiudiamo la porta, la strappiamo e buttiamo via. Tu lasciami semplicemente scrivere qualcos’altro di fantastico. Forse questo è il motivo per cui ho abbracciato il linguaggio del surrealismo e del realismo magico perché ti fa evadere da tutto quello che conosci e ti consente di andare in ogni luogo.
In occasione del suo passaggio veneziano - a conclusione dell’incontro di Shirin Neshat con gli studenti della Scuola Nazionale di Cinema e di NABA - ARTE.it ha avuto la possibilità di scambiare qualche parola con l’artista. Nonostante la brevità, poco meno di mezz’ora, il contesto in cui si è svolto l’incontro - una grande sala con un palcoscenico affollata di molte persone vocianti - e l’amorevole ansia della sua assistente che l’ha troppo presto reclamata "altrove", incontrare la Neshat è stato un privilegio e per qualche istante anche un piacevole scambio intellettuale.
Shirin Neshat | Foto: © Rodolfo Martinez
Shirin è una donna minuta, piena di forza e di fascino: parla con un tono di voce dolce e tranquillo, anche quando - e accade molto spesso - dice cose serissime. Nella masterclass che ha dedicato agli studenti ha ripercorso i suoi passaggi veneziani, ha brevemente accennato ad alcune delle sue opere d’arte più note - Women of Allah (1994) e The Fury (2023) - ma ha parlato anche del suo percorso di avvicinamento al cinema. Ha incitato gli studenti “a non farsi intimidire” dal gigantismo hollywoodiano e ad andare avanti credendo in loro stessi, come un buon maestro fa con i propri allievi, e ha accettato di rispondere a qualche domanda del pubblico. L’incontro è stato del resto filmato dalla Scuola Nazionale di Cinema e si spera questo materiale verrà reso disponibile, oltre che agli studenti dei suoi corsi, anche al più vasto pubblico di appassionati d’arte interessati alla pratica di Shirin Neshat.
Di seguito intanto l’intervista, che poi non è un'intervista molto ordinaria, che abbiamo realizzato.
Prima di ascoltare la tua masterclass pensavo di avere molte domande, ma ascoltandoti parlare agli studenti ho deciso di stracciarle. Seguiremo un altro percorso. Andiamo a braccio. Hai detto più volte di non essere un'artista interessata al realismo e hai menzionato l’importanza dei sogni nella tua pratica. Mi domandavo - pensando al fatto che la tua vita si è svolta in Iran prima e negli Stati Uniti poi - se i tuoi sogni siano in persiano o in inglese…
Non solo nei sogni, anche nella vita reale mi trovo ad andare in giro e penso di parlare e pensare contemporaneamente in entrambe le lingue... è tutto un po’ confuso e poco netto credo... ma sui sogni vorrei dirti una cosa che ho notato. Sogno molto e me li trascrivo quando mi sveglio. Ma i miei sogni sono sempre incubi, non sono mai bei sogni, mai, quasi mai, potrebbero essere benigni, niente di interessante in quel caso. Forse è per questo che ci credo fermamente ed è la ragione per cui sono passata dallo scrivere i miei sogni e trasformarli in film, a collezionare i sogni di altre persone perché ho questa curiosità. Credo sia vero che le paure della maggior parte delle persone vivano nei loro sogni. Infatti quando abbiamo realizzato questo progetto (Land of Dreams - NDR: il film del 2021 che Shirin Nehsat insieme al marito Shoja Azari ha diretto su una sceneggiatura scritta da Jean-Claude Carrière) ho letteralmente chiesto alle persone dei loro sogni. Dai senzatetto alle persone benestanti, e quando lo fai davvero capisci che c’è un altro aspetto dei sogni: i sogni attraversano i confini. È come se i nostri sogni fossero tutti molto simili tra loro: come la paura della morte, la paura dello spostamento da un luogo ad un altro, la guerra, la violenza, l’alienazione, l’abbandono… e quindi per me i sogni sono paura... i sogni sono una proiezione delle paure inconsce delle persone.
Stai dicendo che nello stato di veglia non siamo in grado di gestire queste paure e abbiamo bisogno di sognare per farle emergere ?
Proprio così. Secondo me, la maggior parte degli esseri umani durante la giornata fanno di tutto per nascondere a se stessi e agli altri il proprio subconscio. Questo perché non vogliamo “traboccare”. Io non voglio mostrarvi la mia vulnerabilità, non voglio svelare di cosa mi preoccupo. Se la mia paura è la salute, se è mia madre, se è la carriera, se è un partner… qualunque cosa sia, queste paure le teniamo nascoste, mentiamo, perché dobbiamo funzionare. Ma quando dormiamo tutti quei pensieri, tutte quelle ansie, diventano così reali, così vivide.
Shirin Neshat, Roja, 2016 | © Shirin Neshat
Parlami delle tue paure...
Per esempio, solo per darti un'idea, stavo registrando i miei sogni e mi sono resa conto che nei miei sogni mia madre appare spesso come una sorta di salvatrice, come una sicurezza nelle peggiori situazioni. Ho capito che lei a sua volta stava cercando di connettersi con sua madre, ma che sua madre si è trasformata in un mostro. Quello era il mio sogno. Finalmente ho capito che il potenziale di perdere la mia casa non rappresenta solo la mia casa. Rappresenta l’idea di essere senza dimora, senza tetto. In qualche modo è come se il legame con mia madre - che ora ha 94 anni e che letteralmente non so quanto vivrà, e che chiamo ogni giorno al telefono ma che non vedo, non posso vedere, da molto tempo - è come se il mio rapporto con lei, il modo in cui lei appare nei miei sogni, tutto questo rappresenti anche il mio rapporto con il mio paese. Se lei muore, molto probabilmente il mio legame con l’Iran sarà reciso, sarà cancellato.
So che sei stata cresciuta in Iran in una famiglia benestante e hai frequentato una scuola cattolica. Da qualche parte ho letto che tuo padre aveva questa idea che l’America fosse una sorta di dreamland. Una terra dei sogni, l’incarnazione dei valori della democrazia …
Negli anni ‘70 l’immagine dell’America in Iran era quella che ci dava Hollywood. Tutti erano ossessionati dagli Stati Uniti, anche se in verità pochi iraniani ci erano mai andati e la più parte era stata al massimo in Europa. Il cinema hollywoodiano era il nostro tramite a quel mondo, il nostro modo di comprenderlo e di fantasticarne. Tutto sembrava meraviglioso, quelle magnifiche case immerse nel sole, belle persone, belle automobili, nessun problema politico, nessuna polizia segreta. Era un mondo perfetto, fantastico, immaginato con grande euforia. Tutti volevano mandare i loro figli all’estero in California, a Los Angeles.
Nel 1975 ti sei iscritta all’University of California, Berkeley dove hai completato i tuoi studi. Come ricordi quegli anni?
Li ricordo come alcuni degli anni più tristi della mia vita, dal momento in cui sono arrivata fino a quando ho lasciato la California, perché era esattamente l’opposto di come l’avevo immaginata. Non solo mi ero disconnessa alla mia comunità, dal mio mondo d’origine. Vivevo in piccoli appartamenti e passavo molto tempo in classe a studiare. Mio padre e mia madre, la mia famiglia mi mancavano disperatamente. E poi è arrivata la rivoluzione, e ovviamente da quel momento non potevo più tornare indietro in Iran. Sono stata molto arrabbiata, per lungo tempo, con mio padre. Per il modo in cui aveva incoraggiato i suoi figli ad andarsene via, così lontani. E infatti sento che gran parte dei temi del mio lavoro artistico risalgano a quel periodo, a quegli anni lontani…
Pensi avresti avuto un futuro in Iran?
No, non credo. Innanzi tutto perché purtroppo non credo che questo governo (il regime iraniano - NDR) sia in grado di andare da nessuna parte. In secondo luogo perché lo stile di vita che ho sviluppato è basato sul fatto che sono una outsider: vivo in un luogo dove non assomiglio agli altri, non parlo come fanno tutti. Non ho la minima idea di cosa voglia dire vivere in Iran, dove sono uguale agli altri. Probabilmente in Iran sarei ancora più un’outsider di quanto non lo sia a New York. A NY tutti vengono da un altro luogo, tutti sono un po’ estranei. In Iran penso, la gente mi discriminerebbe perché non sono come loro.
...magari un domani sarà diverso, migliore...
Temo di no. Penso che la parte più triste della storia del popolo iraniano sia il fatto che per 44 anni siamo stati divisi e separati. Anche se le cose andassero meglio per noi, non saremo mai più interi, lo dico sul serio. Intendo dire che non potremo essere un'unica comunità, perché (gli iraniani espatriati - NDR) ci siamo così profondamente separati e adattati alle altre comunità dove viviamo, così tante persone si sono sposate con persone di altri paesi. Io stessa ho avuto un figlio che è per metà coreano, per metà iraniano. Non so se mai potrò nella mia vita tornare a vivere in Iran. Non credo.
Shirin Neshat, Land of Dreams, 2019 | © Shirin Neshat
Durante la masterclass, hai accennato al fatto che non hai studiato fotografia e che per la tua prima serie - Women of Allah (1994) - hai utilizzato un fotografo per scattare le immagini. Eppure se io guardo le tue fotografie, i tuoi video, i tuoi film… l’estetica, la dimensione estetica di ogni tua immagine mi sembra ti appartenga profondamente. È attraverso la dimensione estetica che mi sono avvicinato alla tua arte. Mi sono quindi un po’ stupito quando ho saputo che non eri tu…
Capisco la tua meraviglia. Non intendo dire che non sono mie immagini. Intendo dire che in quel momento la fotografia era uno strumento troppo potente per me e quindi ho usato qualcuno per fare click alla macchina fotografica. Le immagini però sono frutto della mia estetica e del mio linguaggio di ricerca artistico.
In che modo usi l’estetica per la tua arte?
Nell’arte io cerco le emozioni. Amo essere commossa emotivamente, adoro vedere film che mi fanno piangere, voglio sentire che l'arte è qualcosa che ti trasforma, sono fermamente convinta che l’arte abbia cambiato la mia vita. La vita, sai, voglio quel tipo di aspettativa dall'arte, vero, ma parte di quella espressione di emozioni è anche la costruzione dell'immagine stessa. La poesia, la poetica del modo in cui la componi. Il modo in cui usi la fotocamera, il modo in cui usi la musica. È un sottile equilibrio attraverso cui crei emozioni, non solo con l'uso dell’immagine, ma con qualsiasi altra cosa. Ad esempio la calligrafia, se vedi i miei ultimi lavori - The Fury, NDR - per me sono molto emozionanti il modo in cui le scritte inizino in linea retta e poi comincino a cadere. Per me si tratta di come aumentare le emozioni, in modo che ciò sia comprensibile anche per altre persone, divenga universale. Penso che come artisti cerchiamo di provocare le persone in modo che si identifichino con noi.
Quello che intendevo è che tu usi la bellezza come strumento per attivare le emozioni e attraverso la dimensione estetica sei in grado di sviluppare una narrazione che diventa ancora più potente nel momento in cui il pubblico capisce di cosa stai parlando. The Fury, una mostra di nuove fotografie incentrate sul tema dello sfruttamento sessuale delle prigioniere politiche in Iran, che ha aperto ai primi di settembre e sarà visitabile al Fotografiska di Stoccolma fino al 18 febbraio 2024 - ne è un buon esempio credo.
Questo vale anche per molti altri registi, a cui ci si avvicina per la dimensione molto visiva del loro cinema. Penso a Tarkovsky che per me è una delle persone più poetiche. Il modo in cui ti trascina nella storia non è solo con le parole, ma con la poetica e la politica emotiva dell'umore, ed è quello lo spazio in cui mi piace essere. Non sempre ci riesco però.
Sei anche molto umile. Citi spesso tuoi supposti fallimenti. Lo fai per avvicinare il pubblico alla tua arte e non farlo spaventare di fronte alla grandezza della tua opera?
Oh, ma io ho anche dei lavori che non sono molto buoni, il che va bene perché sai, una cosa di cui non abbiamo parlato è che io amo gli artisti, e gli artisti sono vulnerabili. Io credo nella loro imperfezione Non ho problemi ad ammetterlo. In effetti conosco alcuni dei migliori artisti viventi che sono così vulnerabili e penso che sia la qualità più grande di un artista comprendere la propria imperfezione.
Shirin Neshat, Daniela, Dalla serie The Fury, 2023 | © Shirin Neshat | Courtesy Shirin Neshat e Gladstone Gallery, New York / Brussels
Ho letto da qualche parte che il tuo arrivo nel mondo del cinema sia una reazione a quello dell’arte. Un mondo di cui ti saresti stufata…
Quando ho realizzato il film Woman without men mi sono allontanata dal mondo dell’arte per quasi sei anni. Mi aspettavo che il mondo dell’arte si dimenticasse di me e invece la cosa interessante, e inaspettata, è che questa lunga pausa mi ha fatto rispettare di più. Penso che uno dei motivi per cui sono ancora rilevante come artista sia perché il pubblico vede che sto facendo cose sempre diverse, che mi reinvento. Nel cinema sono ancora una new comer, ma nel mondo dell’arte ho successo con le mie opere, faccio mostre importanti e come fotografa e come videoartista sono orgogliosa di come una donna iraniana, cresciuta da sola negli Stati Uniti, possa mantenersi e vivere con i soldi che derivano dalla sua arte e anche realizzare dei film.
Ho notato dalle domande che ti son state fatte alla fine della masterclass, che spesso ti viene chiesto se ti definisci un’attivista politica, un’artista di propaganda. E quando tu rispondi che hai le domande e non hai le risposte e che non ti senti un’attivista quasi tutti ci rimangano male.
Mi sento molto a disagio quando l’arte diventa propaganda. Anche quando un film è fatto molto bene, ma è estremamente manipolativo. Penso sempre che siano opere basate sulle idee correnti in quel momento storico, ma non siano senza tempo. E quindi penso siano opere manipolative del pubblico e questo non mi piace. Il pubblico è molto pigro e a dire il vero non ama usare la propria immaginazione. A volte ci sono storie difficili da digerire e molti se ne vanno perchè il pubblico è davvero interessato a vedere film che danno le risposte che si attendono.
Hai visto il film Barbie? Ho letto una recensione scritta da Boris Johnson, l'ex premier britannico, che mi ha convinto ad andare a vederlo. Nonostante io avessi molte reticenze.
Si ho visto Barbie e mi è piaciuto. Penso che Greta Gerwig sia una regista estremamente intelligente. C’è sempre la questione che invece ("noi registe impegnate" - NDR) dovremmo odiare i film di questo genere, che lei ha venduto la sua anima per 150 milioni di dollari a Hollywood e ragionamenti di questo tipo. Io invece dico: perchè no? Credo lei abbia cercato di realizzare un film significativo mentre intratteneva e divertiva il pubblico, ma aveva un coltello affilato in termini di critica al modo in cui noi donne siamo state programmate con bambole che erano mamme e siamo poi passate all'idea della bambola che diviene l'immagine della perfezione stessa. Penso sia un tema molto interessante. Alla fine Barbie è un film che diventerà uno dei pochi blockbuster realizzati da una donna, uno dei più grandi successi al box office della storia del cinema, e un film che riguarda il femminismo. Mi pare un grande risultato.
Nel tuo ultimo film, Land of Dreams (2021), hai avuto la fortuna di lavorare con Jean Claude Carrière. Che esperienza ne hai tratto?
Ho avuto la fortuna di conoscere Jean Claude Carrière per tramite di sua moglie Nahal Tajadod che come me è iraniana e con cui siamo grandi amiche. Quella di Land of Dreams è stata l’ultima sceneggiatura a cui Jean Claude abbia lavorato (Jean Claude Carrière ha anche lavorato ad un altro film straordinario, il documentario L'Ombra di Goya - NDR), perché dopo pochi mesi è mancato. Abbiamo lavorato assieme a Parigi. Che giornate meravigliose, che bel tempo passato assieme. Avresti potuto farti un’istruzione semplicemente ascoltando le sue storie, le sue esperienze che raccontava sempre con buon umore. Era un uomo così umile e così vulnerabile. Amavo così tanto parlare con lui così teneramente. Diceva sempre una cosa bellissima: quando scrivo apro delle porte, se non ti piace Sherin chiudiamo la porta, la strappiamo e buttiamo via. Tu lasciami semplicemente scrivere qualcos’altro di fantastico. Forse questo è il motivo per cui ho abbracciato il linguaggio del surrealismo e del realismo magico perché ti fa evadere da tutto quello che conosci e ti consente di andare in ogni luogo.
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