La scuola di Raffaello
Perin del Vaga
08/04/2001
E’ nella decorazione delle Logge Vaticane, tra il 1516 e il 1518, che si precisano le individualità degli allievi di Raffaello, fino a quel momento utilizzati dal maestro come “garzoni di bottega”. La lunga galleria (65 metri), ospitata oggi all’interno del percorso di visita dei Musei Vaticani, è divisa in tredici campate. In ogni volta vi sono quattro storie dipinte, tratte dal Vecchio Testamento (dodici volte) e dal Nuovo (la tredicesima), entro cornici di stucco con decorazioni a grottesche. Polidoro da Caravaggio, Giulio Romano, Giovan Francesco Penni, Giovanni da Udine e Perino del Vaga si occuparono di tradurre le invenzioni grafiche raffaellesche in termini di colore. Ne venne fuori un racconto vivace e rapido, portato avanti in modo aneddotico, da novella brillante. L’intervento di Perino, tanto per fare un esempio, è stato individuato nelle ultime tre campate per quanto riguarda gli episodi biblici e in una più vasta area per quanto riguarda l’ornamentazione. Nel cantiere si precisarono le brillanti capacità di Giovanni da Udine nella realizzazione di stucchi e grottesche; quelle di Polidoro nella resa dei paesaggi e degli sfondi; quelle di Giulio Romano, l’allievo più maturo, nella narrazione dei diversi episodi.
Roma era in quel periodo il luogo dove si concentravano e confrontavano le esperienze culturali maturate nei diversi centri italiani. Raffaello la chiamava la communis patria, palestra per gli artisti studiosi dell’antico e centro di elaborazione e diffusione della maniera moderna.
Tra la morte del maestro urbinate (1520) e il Sacco (1527) Roma rimase tale. Giulio Romano, Perino, Polidoro e gli altri, ormai divenuti maestri autonomi, ottennero commissioni importanti. Si specializzarono nella decorazione delle facciate e degli interni dei palazzi romani, lavorarono ad opere devozionali (rimanendo legati ai prototipi raffelleschi, soprattutto nelle Sacre Famiglie e nelle Sacre Conversazioni), disegnarono corazze, elmi, suppellettile sacra e profana, tessuti e argenti. Mescolarono, infine, il classicismo arioso e “giocoso” dell’ultimo Raffaello (si pensi alla decorazione della Farnesina in via della Lungara) all’antitetico linguaggio michelangiolesco, privato del portato etico e utilizzato come repertorio formale.
L’atmosfera elettrizzante del pontificato mediceo di Clemente VII (papa dal 1523) attrasse peraltro a Roma un gran numero di nuovi talenti: Rosso Fiorentino e Parmigianino, tra gli altri. Basta leggere qualche vivace pagina della Vita di Benvenuto Cellini dedicata ai piaceri conviviali ed erotici di questi suoi anni romani, o figurarsi davanti la serie scandalosa dei Modi di Giulio Romano, incisa da Marcantonio Raimondi e accompagnata dai sonetti lussuriosi di Pietro Aretino, per trovare più di una conferma a questo scenario da “dolce vita”. La serie degli Amori degli dei, completata da Perino durante i mesi dell’occupazione luterana della città, fu l’ultimo guizzo creativo del magico periodo.
Il trauma del Sacco provocò l’immediata fuga degli artisti di punta dalla città. Polidoro da Caravaggio finì prima a Napoli e poi in Sicilia, Giulio Romano si trasferì a Mantova, Girolamo Genga ad Urbino, Perino a Genova, Giovanni da Udine se ne tornò in patria. Qualche altro emigrò in Francia (Primaticcio, Rosso, Cellini) trapiantando la Maniera italiana alla corte di Fontainebleu. Tutto ciò comportò la diffusione ramificata e rapida del linguaggio raffaellesco-michelangiolesco in Italia e nell’Europa cattolica. La circolazione capillare di stampe, disegni, bronzetti fece il resto. La nuova Maniera ottenne un’irradiazione internazionale che non si ricordava, per uno stile artistico, dalla caduta dell’Impero romano.
Gli affreschi con "La caduta dei giganti" di Palazzo Tè e di palazzo Doria sono tra le maggiori testimonianze del periodo. Né Giulio Romano né Perin del Vaga mirarono a costruire un’unità basata sull’armonia e sull’equilibrio classico accentuando, al contrario, la critica ai principi di naturalezza e verosimiglianza. Il classicismo raffaellesco generava il suo opposto; il superamento del naturalismo quattrocentesco e l’innesto della teoria dell’arte nella pratica della pittura produceva l’intellettualizzazione dei contenuti e il trionfo del simbolo.
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