IK-00. The Spaces of Confinement
Dal 07 Giugno 2014 al 24 Agosto 2014
Venezia
Luogo: Casa dei Tre Oci
Indirizzo: Giudecca 43
Orari: 10-18; martedì chiuso
Curatori: Katerina Chuchalina
Costo del biglietto: ingresso gratuito
Telefono per informazioni: +39 346 2165881
E-Mail info: helweaver@gmail.com
Sito ufficiale: http://www.treoci.org/
La mostra, a cura di Katerina Chuchalina, è un progetto collettivo internazionale in cui gli artisti sono stati chiamati a riflettere sull'architettura dell'esclusione, alla ricerca di modi diversi per documentare e testimoniare gli spazi istituzionali destinati a punire e talvolta a correggere gli individui attraverso la loro separazione dal resto della società.
Prigioni, manicomi e altri istituti correttivi sono in costante evoluzione dal punto di vista ideologico, strutturale e architettonico, racchiudendo intere storie di violenza e resistenza. Come nasce uno spazio di reclusione? Come può essere testimoniato? In che modo esso può essere documentato e visualizzato? La sintassi spaziale di una prigione è una miscela distorta di fantasia e realtà. Gli artisti in mostra riflettono su questi spazi di costrizione, reclusione e isolamento, i cui meccanismi funzionali restano dietro al visibile, data la divisione sia spaziale che temporale dalla vita che scorre al di fuori. Tuttavia, questo non vuol dire che tali spazi abbiano un'esistenza totalmente svincolata dal nostro quotidiano. La loro costruzione genera una serie di schemi psicologici complessi che fanno parte della condizione umana di ognuno di noi.
Michel Foucault ha utilizzato il Panopticon, ideato dal filosofo e sociologo inglese Jeremy Bentham nel 1793, "per trasformare i prigionieri, medicare i pazienti, educare i bambini, isolare i pazzi e per dare un lavoro ai mendicanti e ai fannulloni."
Il principio del Panopticon, basato sulla sovraesposizione dei prigionieri in contrasto con lo sguardo invisibile dei loro sorveglianti, nascosti all'interno della torre, è ampiamente riconosciuto come uno schema mentale ancor più che architettonico, per esemplificare l'insieme delle prospettive e dei punti di vista che forma le relazioni di potere.
Al rapido incremento dei detenuti, ha fatto seguito una crescita nella costruzione delle prigioni che non ha precedenti – spazi che vengono monitorati con nuove tecnologie di controllo e di sorveglianza.
Questa nuova realtà non produce solo nuovi spazi ma anche nuove tecniche di osservazione e nuovi mondi dell'immaginario che emergono dagli strumenti di documentazione dei sistemi di sorveglianza. Lo spazio chiuso ed isolato della prigione viene allora demistificato e deterritorializzato, le prigioni diventano specchio della società e allo stesso tempo sua controfigura e proiezione. Gli artisti riflettono su questi processi ed utilizzano gli spazi dell'isolamento come laboratori per esperimenti antropologici e tecnici che mettano in luce schemi di comportamento e strumenti di manipolazione individuale.
È possibile ritrovare il clima ostile della prigione nella sua integrazione con il paesaggio circostante. Le prigioni spesso agiscono come ricordo visuale dell'occupazione coloniale o di altre istituzioni del potere dominante. Il paesaggio ostile e il clima rigido in cui sono state costruite alcune prigioni possono agire come ulteriore mezzo di separazione dal mondo esterno, abitabile, e allo stesso tempo scoraggiare la fuga verso di esso.
Gli artisti esplorano i limiti della documentazione e le politiche di rappresentazione di queste realtà, lavorando con i territori remoti delle prigioni "naturali" come quelle dei primi campi Gulag. In mostra ritroviamo quei pochi paesaggi superstiti, disegnati da alcuni prigionieri dei Gulag in età sovietica, che sono insieme opere d'arte e testimonianza del tentativo di affrontare i muri invisibili di massima sicurezza del paesaggio circostante.
Prigioni, manicomi e altri istituti correttivi sono in costante evoluzione dal punto di vista ideologico, strutturale e architettonico, racchiudendo intere storie di violenza e resistenza. Come nasce uno spazio di reclusione? Come può essere testimoniato? In che modo esso può essere documentato e visualizzato? La sintassi spaziale di una prigione è una miscela distorta di fantasia e realtà. Gli artisti in mostra riflettono su questi spazi di costrizione, reclusione e isolamento, i cui meccanismi funzionali restano dietro al visibile, data la divisione sia spaziale che temporale dalla vita che scorre al di fuori. Tuttavia, questo non vuol dire che tali spazi abbiano un'esistenza totalmente svincolata dal nostro quotidiano. La loro costruzione genera una serie di schemi psicologici complessi che fanno parte della condizione umana di ognuno di noi.
Michel Foucault ha utilizzato il Panopticon, ideato dal filosofo e sociologo inglese Jeremy Bentham nel 1793, "per trasformare i prigionieri, medicare i pazienti, educare i bambini, isolare i pazzi e per dare un lavoro ai mendicanti e ai fannulloni."
Il principio del Panopticon, basato sulla sovraesposizione dei prigionieri in contrasto con lo sguardo invisibile dei loro sorveglianti, nascosti all'interno della torre, è ampiamente riconosciuto come uno schema mentale ancor più che architettonico, per esemplificare l'insieme delle prospettive e dei punti di vista che forma le relazioni di potere.
Al rapido incremento dei detenuti, ha fatto seguito una crescita nella costruzione delle prigioni che non ha precedenti – spazi che vengono monitorati con nuove tecnologie di controllo e di sorveglianza.
Questa nuova realtà non produce solo nuovi spazi ma anche nuove tecniche di osservazione e nuovi mondi dell'immaginario che emergono dagli strumenti di documentazione dei sistemi di sorveglianza. Lo spazio chiuso ed isolato della prigione viene allora demistificato e deterritorializzato, le prigioni diventano specchio della società e allo stesso tempo sua controfigura e proiezione. Gli artisti riflettono su questi processi ed utilizzano gli spazi dell'isolamento come laboratori per esperimenti antropologici e tecnici che mettano in luce schemi di comportamento e strumenti di manipolazione individuale.
È possibile ritrovare il clima ostile della prigione nella sua integrazione con il paesaggio circostante. Le prigioni spesso agiscono come ricordo visuale dell'occupazione coloniale o di altre istituzioni del potere dominante. Il paesaggio ostile e il clima rigido in cui sono state costruite alcune prigioni possono agire come ulteriore mezzo di separazione dal mondo esterno, abitabile, e allo stesso tempo scoraggiare la fuga verso di esso.
Gli artisti esplorano i limiti della documentazione e le politiche di rappresentazione di queste realtà, lavorando con i territori remoti delle prigioni "naturali" come quelle dei primi campi Gulag. In mostra ritroviamo quei pochi paesaggi superstiti, disegnati da alcuni prigionieri dei Gulag in età sovietica, che sono insieme opere d'arte e testimonianza del tentativo di affrontare i muri invisibili di massima sicurezza del paesaggio circostante.
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