Gabriele Basilico e Vincenzo Castella
Dal 29 Agosto 2012 al 18 Ottobre 2012
Venezia
Luogo: Galleria Traghetto
Indirizzo: San Marco 2543
Orari: da lunedì a sabato 15-19 e su appuntamento
Telefono per informazioni: +39 041 5221188
E-Mail info: galleria.traghetto@tin.it
Sito ufficiale: http://www.galleriatraghetto.it
In occasione della XIII Biennale Architettura la Galleria Traghetto è lieta di presentare alcune opere storiche di due tra i maggiori fotografi italiani:Gabriele Basilico e Vincenzo Castella, un'analisi della città come agglomerato urbano e umano allo stesso tempo, nelle cui immagini architettoniche si rispecchiano infinite tracce di vita individuale, che invitano lo spettatore ad un muto dialogo.
Gabriele Basilico (Milano 1944) ha lavorato, nel corso del tempo, su diverse città: da Milano a Beirut, da Bolzano a Berlino, a Montecarlo; primo e unico italiano, fra l’altro, a partecipare, nel 1984, alla prestigiosa missione fotografica francese Datar.
Le mostre e i libri di Gabriele Basilico costituiscono sempre un importante momento di riflessione sulla fotografia di paesaggio. La sua ricerca che spazia ben al di là dei confini della mera fotografia documentaria, è, infatti, un punto di riferimento obbligato per quanti oggi si occupano di fotografia e di urbanistica.
In una recente intervista Basilico ha dichiarato: «E’ certo che io faccio fotografie in relazione al principio e all’esperienza estetica della “visione”. In questo senso io sono pienamente fotografo. Ma è anche vero che la fotografia, e non solo come linguaggio, è entrata da parecchio tempo, e a buon diritto, nel mondo dell’arte. Sono convinto però che un’unità della fotografia nel grande bacino della ricerca artistica è un’idea troppo riduttiva: una cosa è usare la fotografia come linguaggio per comunicare un’opera concepita in modo diverso (per esempio un’installazione), un’altra cosa è pensare «fotograficamente», interpretandola, la realtà».
Le immagini urbane di Vincenzo Castella (Napoli 1952) lasciano riaffiorare tutto ciò che la rappresentazione panoramica, per statuto, esclude e sopprime: la città abitata, le sue procedure impercettibili, le sue funzioni reali, lo spazio vissuto. È come se una sorta di vertigine si insinuasse sulla superficie orizzontale che satura, attraverso la sovrapposizione delle stratificazioni architettoniche, il campo visivo dell’immagine. I grandi frammenti urbani di Castella si presentano sempre come l’effetto architettonico di movimenti dal basso, di ridistribuzioni di funzioni, di metamorfosi continue, di accumulazioni lente. Dietro ogni strato ce n’è sempre un altro che ne rivela un altro ancora, secondo concatenamenti diversi, molteplicità non riducibili ad un ordine, sistemi acentrici.
Così Castella definisce il suo lavoro: “Alla base della fotografia c’è lo scarto differenziale fra il momento dello scatto e la visione del risultato. Una fotografia è sempre l’aggiustamento di un errore: è lì che nasce il meccanismo di scoperta. È il raggiungimento laterale di qualcosa che non era previsto. La migliore fotografia è quella che il fotografo non sperava di poter fare.
Il fotografo che lavora bene è quello che dà coerenza alla ricerca, perché è fatale che dieci immagini che seguono dieci fili diversi non servono a nulla. Invece dieci fotografie che stanno vicine e aprono delle relazioni reciproche, possono diventare un’unica cosa straordinaria.”
Gabriele Basilico (Milano 1944) ha lavorato, nel corso del tempo, su diverse città: da Milano a Beirut, da Bolzano a Berlino, a Montecarlo; primo e unico italiano, fra l’altro, a partecipare, nel 1984, alla prestigiosa missione fotografica francese Datar.
Le mostre e i libri di Gabriele Basilico costituiscono sempre un importante momento di riflessione sulla fotografia di paesaggio. La sua ricerca che spazia ben al di là dei confini della mera fotografia documentaria, è, infatti, un punto di riferimento obbligato per quanti oggi si occupano di fotografia e di urbanistica.
In una recente intervista Basilico ha dichiarato: «E’ certo che io faccio fotografie in relazione al principio e all’esperienza estetica della “visione”. In questo senso io sono pienamente fotografo. Ma è anche vero che la fotografia, e non solo come linguaggio, è entrata da parecchio tempo, e a buon diritto, nel mondo dell’arte. Sono convinto però che un’unità della fotografia nel grande bacino della ricerca artistica è un’idea troppo riduttiva: una cosa è usare la fotografia come linguaggio per comunicare un’opera concepita in modo diverso (per esempio un’installazione), un’altra cosa è pensare «fotograficamente», interpretandola, la realtà».
Le immagini urbane di Vincenzo Castella (Napoli 1952) lasciano riaffiorare tutto ciò che la rappresentazione panoramica, per statuto, esclude e sopprime: la città abitata, le sue procedure impercettibili, le sue funzioni reali, lo spazio vissuto. È come se una sorta di vertigine si insinuasse sulla superficie orizzontale che satura, attraverso la sovrapposizione delle stratificazioni architettoniche, il campo visivo dell’immagine. I grandi frammenti urbani di Castella si presentano sempre come l’effetto architettonico di movimenti dal basso, di ridistribuzioni di funzioni, di metamorfosi continue, di accumulazioni lente. Dietro ogni strato ce n’è sempre un altro che ne rivela un altro ancora, secondo concatenamenti diversi, molteplicità non riducibili ad un ordine, sistemi acentrici.
Così Castella definisce il suo lavoro: “Alla base della fotografia c’è lo scarto differenziale fra il momento dello scatto e la visione del risultato. Una fotografia è sempre l’aggiustamento di un errore: è lì che nasce il meccanismo di scoperta. È il raggiungimento laterale di qualcosa che non era previsto. La migliore fotografia è quella che il fotografo non sperava di poter fare.
Il fotografo che lavora bene è quello che dà coerenza alla ricerca, perché è fatale che dieci immagini che seguono dieci fili diversi non servono a nulla. Invece dieci fotografie che stanno vicine e aprono delle relazioni reciproche, possono diventare un’unica cosa straordinaria.”
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