Elisabetta Di Maggio. Dis-nascere

Elisabetta Di Maggio, Senza Titolo, 2012, vetro di Murano e spine di rosa
Dal 10 Ottobre 2012 al 09 Dicembre 2012
Venezia
Luogo: Palazzetto Tito
Indirizzo: Dorsoduro 2826
Orari: da mercoledì a domenica 10.30-17.30
Curatori: Angela Vettese
Costo del biglietto: intero euro 5, ridotto euro 3
Telefono per informazioni: +39 041 5207797
E-Mail info: info@bevilacqualamasa.it
Sito ufficiale: http://www.bevilacqualamasa.it/
La Fondazione Bevilacqua La Masa testimonia per la prima volta con una mostra personale l’operato di Elisabetta Di Maggio (nata a Milano nel 1964) ideale completamento di un lavoro murale iniziato nel 2004 e lasciato incompleto per la nascita del figlio Andrea.
La mostra conterrà tutta la gamma di tipologie operative sviluppate dall’artista negli ultimi dieci anni circa.
I lavori di Elisabetta Di Maggio sembrano a prima vista dei pattern decorativi. In effetti, essendo partita soprattutto dal ricamo, la sua pratica si realizza muovendo da una manualità molto precisa di vocazione femminile. Una delle sue prime opere importanti è stato un corredo che simulava in carta ciò che le ragazze di un tempo facevano sulla stoffa. Guardando con attenzione, si scopre però che non c'è nulla di romantico o di specificamente muliebre nelle opere: sono spesso, anzi, portatrici di un senso duro della vita, aspro, crudele.
L'artista generalmente trafora con una acribia da chirurgo fogli di carta velina, foglie di vegetali piccoli o enormi, saponi e altre superfici, incluso l'intonaco. Operando con una serie di bisturi passa ore a sezionare questi materiali, ottenendo una geografia disegnata che allude a molti soggetti. Tutti pero' possono essere accomunati a un tema unitario, cioè le forme che assume la vita nel suo dilatarsi e organizzarsi.
Ecco allora che troviamo, come temi e come trame sottostanti al ricamo, la maniera in cui si espandono le radici di certi vegetali, il modo in cui si sviluppano le cellule dei tessuti viventi, la maniera in cui si snodano varie tipologie di città con la loro rete di strade, circuiti che ricordano quelli elettrici e che scopriamo, invece, essere il pattern che assume il volo di una farfalla.
L'artista prende dunque i suoi soggetti dal mondo reale, partendo da illustrazioni antropologiche, botaniche, urbanistiche e scientifiche in genere. In quest'ottica, anche il richiamo a tappezzerie domestiche, decorate con rose o con fiori vari, diventano una manifestazione di come opera la natura, in questo caso attraverso la manualità e il gusto dell'uomo.
Dunque, nelle grandi superfici di carta, nelle configurazioni fatte di spilli, nei disegni preparatori, in tutto il repertorio di Elisabetta Di Maggio, si ripete dunque il rito della vita e del suo diffondersi ineluttabile, a volte lasciando morire i rami secchi, a volte lasciando vivere e anzi esagerando la vitalità di rami collaterali.
L'opera complessiva assume dunque il sapore di una riflessione sul nostro stesso esistere come parti di un tutto che tende a ripetere certe leggi di proliferazione frattale. La vita umana vi si presenta fatta di poesia e di piacere, ma anche di pericolo, di costante precarietà, di mancanza di pace. In questo senso l'artista scarnifica e rende scheletrica la vita al punto da suggerire un senso di “disnascita”, di riconduzione a uno stato originario e precosciente, di ossificazione dei processi esistenziali e quindi di raggelamento del malessere. L'unico modo per lenire l'angoscia della lucidità su chi siamo e da dove veniamo sembra essere quella dell'agire, dell'applicazione al fare come una forma di meditazione e, al contempo, di anestesia.
La mostra conterrà tutta la gamma di tipologie operative sviluppate dall’artista negli ultimi dieci anni circa.
I lavori di Elisabetta Di Maggio sembrano a prima vista dei pattern decorativi. In effetti, essendo partita soprattutto dal ricamo, la sua pratica si realizza muovendo da una manualità molto precisa di vocazione femminile. Una delle sue prime opere importanti è stato un corredo che simulava in carta ciò che le ragazze di un tempo facevano sulla stoffa. Guardando con attenzione, si scopre però che non c'è nulla di romantico o di specificamente muliebre nelle opere: sono spesso, anzi, portatrici di un senso duro della vita, aspro, crudele.
L'artista generalmente trafora con una acribia da chirurgo fogli di carta velina, foglie di vegetali piccoli o enormi, saponi e altre superfici, incluso l'intonaco. Operando con una serie di bisturi passa ore a sezionare questi materiali, ottenendo una geografia disegnata che allude a molti soggetti. Tutti pero' possono essere accomunati a un tema unitario, cioè le forme che assume la vita nel suo dilatarsi e organizzarsi.
Ecco allora che troviamo, come temi e come trame sottostanti al ricamo, la maniera in cui si espandono le radici di certi vegetali, il modo in cui si sviluppano le cellule dei tessuti viventi, la maniera in cui si snodano varie tipologie di città con la loro rete di strade, circuiti che ricordano quelli elettrici e che scopriamo, invece, essere il pattern che assume il volo di una farfalla.
L'artista prende dunque i suoi soggetti dal mondo reale, partendo da illustrazioni antropologiche, botaniche, urbanistiche e scientifiche in genere. In quest'ottica, anche il richiamo a tappezzerie domestiche, decorate con rose o con fiori vari, diventano una manifestazione di come opera la natura, in questo caso attraverso la manualità e il gusto dell'uomo.
Dunque, nelle grandi superfici di carta, nelle configurazioni fatte di spilli, nei disegni preparatori, in tutto il repertorio di Elisabetta Di Maggio, si ripete dunque il rito della vita e del suo diffondersi ineluttabile, a volte lasciando morire i rami secchi, a volte lasciando vivere e anzi esagerando la vitalità di rami collaterali.
L'opera complessiva assume dunque il sapore di una riflessione sul nostro stesso esistere come parti di un tutto che tende a ripetere certe leggi di proliferazione frattale. La vita umana vi si presenta fatta di poesia e di piacere, ma anche di pericolo, di costante precarietà, di mancanza di pace. In questo senso l'artista scarnifica e rende scheletrica la vita al punto da suggerire un senso di “disnascita”, di riconduzione a uno stato originario e precosciente, di ossificazione dei processi esistenziali e quindi di raggelamento del malessere. L'unico modo per lenire l'angoscia della lucidità su chi siamo e da dove veniamo sembra essere quella dell'agire, dell'applicazione al fare come una forma di meditazione e, al contempo, di anestesia.
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