Silvana Alasia. Frammenti d’Africa
Dal 31 Maggio 2014 al 29 Giugno 2014
Avigliana | Torino
Luogo: Galleria “Arte per Voi”
Indirizzo: piazza Conte Rosso 3
Orari: sabato e domenica 15-19
Curatori: Luigi Castagna, Paolo Nesta
Enti promotori:
- Città di Avigliana
Telefono per informazioni: +39 339 2523791
E-Mail info: lcastagna@artepervoi.it
Sito ufficiale: http://www.artepervoi.it/
Prosegue negli spazi espositivi di Arte per Voi, ad Avigliana, a partire dal 31 maggio, con la mostra Frammenti d’Africa, il progetto di incontro-confronto tra operatori estetici contemporanei e manifestazioni artistiche di altre epoche e culture visive.
È questa la volta della pittrice Silvana Alasia, che nei mesi scorsi si è misurata con le suggestioni provenienti dalla splendida collezione di “opere d’arte” africana, che Ettore Brezzo è andato raccogliendo pazientemente e attentamente nel corso di decennali ricerche.
Ora, Silvana Alasia ce ne offre, attraverso una selezione di dipinti intensamente partecipati, la sua interpretazione, in chiave strettamente artistica.
Perché questo è il punto, il nodo intorno a cui ruota la mostra. Infatti, da una parte e anzi, volutamente mescolate ai quadri, negli spazi di Arte per Voi stanno le “opere d’arte” africana (e le virgolette si rendono necessarie e diremo perché) e, dall’altra, concettualmente, i dipinti di Silvana, che, pur in tutta la loro specificità e valenza, non possono che collocarsi e richiamarsi - con grande responsabilità dell’artista, ammirevolmente assolta - ad una impegnativa tradizione di esperienze figurative che la cultura occidentale ha appreso a dedicare a quel mondo (come, per altro all’esotismo nel tardo Ottocento), almeno fin dall’inizio del secolo scorso.
Quelle africane provengono per lo più dalla Costa d’Avorio, dallo Zambia, da diverse regioni del Congo, dal Camerun, dal Mali e dal Ruanda, dal Gabon e dai popoli della Nigeria, ma anche del Benin e del Togo; la loro natura di maschere, feticci, marionette, immagini di dee e figure di antenati denuncia, prima di tutto, il loro indissolubile legame con la volontà di tradurre in immagini il sostrato mitico di cui sono espressione concreta (la statua congolese della dea creatrice Ebotita, ad esempio, oppure la figura di antenato Ekpu, del popolo Oron, nel sud-est della Nigeria) e di essere funzionali a disparate funzioni rituali specifiche.
Non nascono, cioè, con le finalità estetiche proprie dell’arte moderna e soprattutto contemporanea, tipica del mondo occidentale; ma già, in questo caso, vale la pena annotare qualche perplessità; infatti, se è vero che la disciplina del bello, l’estetica, è creazione, anche per noi, sostanzialmente recente, della seconda metà del XVIII secolo, ciò potrebbe rimettere in discussione, almeno parzialmente, il giudizio corrente che implica un valore strettamente artistico, ma solo modernamente conferito a tanti secoli, precedenti, di produzione artistica di impronta religiosa e mitico-storica.
Mi limiterei qui a suggerire un parallelo – ma quanto distante e sorprendente! – tra il complesso riuso della mitologia classica – sostanzialmente greca, (ma in età neoclassica, ad esempio, anche egizia) – ampiamente praticato in età rinascimentale (con significativi capitoli dedicati a risvolti misterici, pitagorici ed esoterici) e un’opera, in particolare, della collezione Brezzo. Mi riferisco alla Statua di Nommo, realizzata da un “artista” della popolazione Dogon, in Mali: essa rinvia esplicitamente alle conoscenze astronomiche di quel popolo, dal momento che i Nommo sono la raffigurazione di esseri, mezzo uomo e mezzo pesce, discesi sulla terra da Sirio per apportare conoscenze e civiltà; la figura del Nommo, tra l’altro, è diffusa anche nel Ghana, come sirena e nel Mali e nel Ruanda, come pesce.
Pesci e sirene? Simboli presenti anche nella tradizione sapienziale e figurativa medio ed estremo orientale più antica e che ricompaiono, ripresi in occidente a partire dall’età paleocristiana e in tutto il medioevo. Sarà un caso!? Che abbia una qualche relazione con le straordinarie accelerazioni culturali indotte nella società umana dalla rivoluzione di età neolitica? Non mancano le ipotesi in merito.
Paolo Nesta
È questa la volta della pittrice Silvana Alasia, che nei mesi scorsi si è misurata con le suggestioni provenienti dalla splendida collezione di “opere d’arte” africana, che Ettore Brezzo è andato raccogliendo pazientemente e attentamente nel corso di decennali ricerche.
Ora, Silvana Alasia ce ne offre, attraverso una selezione di dipinti intensamente partecipati, la sua interpretazione, in chiave strettamente artistica.
Perché questo è il punto, il nodo intorno a cui ruota la mostra. Infatti, da una parte e anzi, volutamente mescolate ai quadri, negli spazi di Arte per Voi stanno le “opere d’arte” africana (e le virgolette si rendono necessarie e diremo perché) e, dall’altra, concettualmente, i dipinti di Silvana, che, pur in tutta la loro specificità e valenza, non possono che collocarsi e richiamarsi - con grande responsabilità dell’artista, ammirevolmente assolta - ad una impegnativa tradizione di esperienze figurative che la cultura occidentale ha appreso a dedicare a quel mondo (come, per altro all’esotismo nel tardo Ottocento), almeno fin dall’inizio del secolo scorso.
Quelle africane provengono per lo più dalla Costa d’Avorio, dallo Zambia, da diverse regioni del Congo, dal Camerun, dal Mali e dal Ruanda, dal Gabon e dai popoli della Nigeria, ma anche del Benin e del Togo; la loro natura di maschere, feticci, marionette, immagini di dee e figure di antenati denuncia, prima di tutto, il loro indissolubile legame con la volontà di tradurre in immagini il sostrato mitico di cui sono espressione concreta (la statua congolese della dea creatrice Ebotita, ad esempio, oppure la figura di antenato Ekpu, del popolo Oron, nel sud-est della Nigeria) e di essere funzionali a disparate funzioni rituali specifiche.
Non nascono, cioè, con le finalità estetiche proprie dell’arte moderna e soprattutto contemporanea, tipica del mondo occidentale; ma già, in questo caso, vale la pena annotare qualche perplessità; infatti, se è vero che la disciplina del bello, l’estetica, è creazione, anche per noi, sostanzialmente recente, della seconda metà del XVIII secolo, ciò potrebbe rimettere in discussione, almeno parzialmente, il giudizio corrente che implica un valore strettamente artistico, ma solo modernamente conferito a tanti secoli, precedenti, di produzione artistica di impronta religiosa e mitico-storica.
Mi limiterei qui a suggerire un parallelo – ma quanto distante e sorprendente! – tra il complesso riuso della mitologia classica – sostanzialmente greca, (ma in età neoclassica, ad esempio, anche egizia) – ampiamente praticato in età rinascimentale (con significativi capitoli dedicati a risvolti misterici, pitagorici ed esoterici) e un’opera, in particolare, della collezione Brezzo. Mi riferisco alla Statua di Nommo, realizzata da un “artista” della popolazione Dogon, in Mali: essa rinvia esplicitamente alle conoscenze astronomiche di quel popolo, dal momento che i Nommo sono la raffigurazione di esseri, mezzo uomo e mezzo pesce, discesi sulla terra da Sirio per apportare conoscenze e civiltà; la figura del Nommo, tra l’altro, è diffusa anche nel Ghana, come sirena e nel Mali e nel Ruanda, come pesce.
Pesci e sirene? Simboli presenti anche nella tradizione sapienziale e figurativa medio ed estremo orientale più antica e che ricompaiono, ripresi in occidente a partire dall’età paleocristiana e in tutto il medioevo. Sarà un caso!? Che abbia una qualche relazione con le straordinarie accelerazioni culturali indotte nella società umana dalla rivoluzione di età neolitica? Non mancano le ipotesi in merito.
Paolo Nesta
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