Ettore Ghinassi. Regesto
Dal 12 Giugno 2014 al 25 Luglio 2014
Torino
Luogo: Paolo Tonin Arte Contemporanea
Indirizzo: via San Tommaso 6
Orari: 10.30-13 / 14.30-19; sabato su appuntamento
Telefono per informazioni: +39 011 19710514
E-Mail info: info@toningallery.com
Sito ufficiale: http://www.toningallery.com
La storia di questa installazione - che viene qui ricostruita dopo la sua rovinosa perdita, a 35 anni di distanza, nella galleria di Paolo Tonin, complice avventuroso - ha inizio nel 1977, durante una passeggiata in montagna con Franco Torriani, con la lettura di una pagina del Vasari sulla vita di Leonardo.
La pagina, che riporto per intero, racconta la sbalorditiva vicenda di un tondo, di una "rotella di pino, che Piero da Vinci avrebbe portato al figlio perchè vi dipingesse una sua fantastica invenzione.
" Dicesi che ser Piero da Vinci, essendo alla villa, fu ricercato domesticamente da un suo contadino, il quale, d’un fico da lui tagliato in sul podere, aveva di sua mano fatto una rotella, che a Fiorenza gnene facesse dipignere; il che egli contentissimo fece, sendo molto pratico il villano nel pigliare uccelli e ne le pescagioni, e servendosi grandemente di lui ser Piero a questi esercizii. Laonde, fattala condurre a Firenze, senza altrimenti dire a Lionardo di chi ella si fosse, lo ricercò che egli vi dipignesse suso qualche cosa. Lionardo, arrecatosi un giorno tra le mani questa rotella, veggendola torta, mal lavorata e goffa la dirizzò col fuoco, e datala a un torniatore, di roza e goffa che ella era, la fece ridurre delicata e pari. Et appresso ingessatala et acconciatala a modo suo, cominciò a pensare quello che vi si potesse dipignere su, che avesse a spaventare chi le venisse contra, rappresentando lo effetto stesso che la testa già di Medusa. Portò dunque Lionardo per questo effetto ad una sua stanza, dove non entrava se non egli solo, lucertole, ramarri, grilli, serpe, farfalle, locuste, nottole et altre strane spezie di simili animali: da la moltitudine de’ quali, variamente adattata insieme, cavò uno animalaccio molto orribile e spaventoso, il quale avvelenava con l’alito e faceva l’aria di fuoco. E quello fece uscire d’una pietra scura e spezzata, buffando veleno da la gola aperta, fuoco dagl’occhi e fumo dal naso sì stranamente, che pareva monstruosa et orribile cosa affatto. E penò tanto a farla, che in quella stanza era il morbo degli animali morti troppo crudele, ma non sentito da Lionardo, per il grande amore che portava nell’arte. Finita questa opera, che più non era ricerca, nè dal villano nè dal padre, Lionardo gli disse, che ad ogni sua comodità mandasse per la rotella, che quanto a lui era finita. Andato dunque ser Piero una mattina a la stanza per la rotella e picchiato alla porta, Lionardo gli aperse, dicendo che aspettasse un poco; e ritornatosi nella stanza acconciò la rotella al lume in sul leggio et assettò la finestra, che facesse lume abbacinato, poi lo fece passar dentro a vederla. Ser Piero nel primo aspetto, non pensando alla cosa, subitamente si scosse, non credendo che quella fosse rotella, nè manco dipinto quel figurato che e’ vi vedeva. E tornando col passo a dietro, Lionardo lo tenne, dicendo: “Questa opera serve per quel che ella è fatta. Pigliatela, dunque, e portatela, chè questo è il fine, che dell’opere s’aspetta”.
Stupore, meraviglia, forse terrore di ser Piero. Risposta laconica e perentoria di Leonardo. Ammirazione del Vasari per l'artista prodigioso che contende a Dio la sua potenza e alla Natura le sue generazioni, che non si accontenta di imitarla, ma la indaga , la trasforma, la plasma a suo piacimento, intuisce ovunque la bellezza, anche nel mostruoso e nell'orrifico, e la suscita. In questa leggenda, pur con il suo carico di feroce titanismo in nuce, c'è già tutto l'avvenire secolare dell'arte.
Ma soprattutto, sotterranea, c'è, della bellezza, una concezione nuova che certo a Vasari era diventata famigliare, dopo Michelangelo e i grandi splenetici e melanconici del primo movimento anticlassico; dopo aver visto le celestiali pitture di un tetro misantropo, e i suoi indimenticabili azzurri-indaco e rossi brucianti e ustioni al calor bianco e dolcezze di incarnati da non accontentarsi degli occhi; le sulfuree invenzioni di Beccafumi; le crudeltà beffarde di Rosso Fiorentino: che la bellezza non pende dal lembo di alcun canone, di alcuna norma, è irriducibile alla sua stessa "Idea".Ma soprattutto, sotterranea, c'è, della bellezza, una concezione nuova che certo a Vasari era diventata famigliare, dopo Michelangelo e i grandi splenetici e melanconici del primo movimento anticlassico; dopo aver visto le celestiali pitture di un tetro misantropo, e i suoi indimenticabili azzurri-indaco e rossi brucianti e ustioni al calor bianco e dolcezze di incarnati da non accontentarsi degli occhi; le sulfuree invenzioni di Beccafumi; le crudeltà beffarde di Rosso Fiorentino: che la bellezza non pende dal lembo di alcun canone, di alcuna norma, è irriducibile alla sua stessa "Idea".
Lo aveva già scoperto l'inventore della prospettiva e autore del più corrosivo testo dell'Umanesimo: "Momus". Leon Battista Alberti, verso la fine del "De re aedificatoria", dichiara il proprio scacco. Ha tentato di catturare la bellezza con la rete dei principi vitruviani - la "disposizione", il "numero", la "varietà", l, "euritmia", la "proporzione" - ma deve cedere a una conclusione inattesa: la bellezza è "un certo che in più", un supplemento, una eccedenza che non si può misurare. Per definirla usa un termine ciceroniano quasi intraducibile: "concinnitas". Interna necessità, leggiadria, grazia senza concetto. Alone iridato intorno a una conchiglia che si avvolge nella sua madreperla.
Non si dà, accade.
E' l'irruzione di questo sovrappiù inafferrabile - non lo si può scomporre, ricostruire in un sistema di tratti, restituire all'ordine della significazione ( significazione di cosa?) - che ammutilisce e incanta. Esonero del commento. Fascinazione del drago di Leonardo, di tutti i draghi che popolano la nostra fantasia millenaria.
Irriducibile immanenza assoluta della bellezza errante. Unità indivisibile della sensazione pura. " ... nessun trucco retorico...sfida del poeta ( e del pittore ) alle regole aristoteliche della struttura."
Due anni dopo la lettura del passo vasariano, alla galleria "Unde" di Torino, un piccolo drago verde, meno impaurito degli spettatori, attratti e insieme respinti dalla sua leggiadria, saltellava con andatura selvatica su un pavimento in prospettiva a losanghe bicolori come la sua lunga coda. Sotto un fascio di luce la spoglia di una muta: due minuscole ali lucenti prese a prestito dalla prima macchina per volare di Leonardo.
Realizzato sul modello borrominiano di Sant'Ivo alla Sapienza, il pavimento , di preziosa carta fiorentina, ne tradiva, per la costruzione prospettica accidentale, l'impianto centralizzato, convergente sull'asse della lanterna. L' "animale fantastico" il suo virtuale punto di fuga vagante.
Nella ricostruzione attuale, la sua presenza viva è sostituita, per rispetto della coscienza animalista, da una scultura di cera, progettata con Raffaele Mondazzi, amico paziente, ed eseguita da lui con riconosciuta maestria.
Nel nuovo pavimento un errore imprevisto, lasciato sopravvivere, ha prodotto in alcune zone una dislocazione delle losanghe nella sequenza alternata dei due colori, scompaginando l'ordine previsto, aprendo varchi a un disordine fecondo generato dal caso, lasciandosi contaminare dalla natura ibrida e polimorfa del drago.
Ettore Ghinassi – Regesto -
La pagina, che riporto per intero, racconta la sbalorditiva vicenda di un tondo, di una "rotella di pino, che Piero da Vinci avrebbe portato al figlio perchè vi dipingesse una sua fantastica invenzione.
" Dicesi che ser Piero da Vinci, essendo alla villa, fu ricercato domesticamente da un suo contadino, il quale, d’un fico da lui tagliato in sul podere, aveva di sua mano fatto una rotella, che a Fiorenza gnene facesse dipignere; il che egli contentissimo fece, sendo molto pratico il villano nel pigliare uccelli e ne le pescagioni, e servendosi grandemente di lui ser Piero a questi esercizii. Laonde, fattala condurre a Firenze, senza altrimenti dire a Lionardo di chi ella si fosse, lo ricercò che egli vi dipignesse suso qualche cosa. Lionardo, arrecatosi un giorno tra le mani questa rotella, veggendola torta, mal lavorata e goffa la dirizzò col fuoco, e datala a un torniatore, di roza e goffa che ella era, la fece ridurre delicata e pari. Et appresso ingessatala et acconciatala a modo suo, cominciò a pensare quello che vi si potesse dipignere su, che avesse a spaventare chi le venisse contra, rappresentando lo effetto stesso che la testa già di Medusa. Portò dunque Lionardo per questo effetto ad una sua stanza, dove non entrava se non egli solo, lucertole, ramarri, grilli, serpe, farfalle, locuste, nottole et altre strane spezie di simili animali: da la moltitudine de’ quali, variamente adattata insieme, cavò uno animalaccio molto orribile e spaventoso, il quale avvelenava con l’alito e faceva l’aria di fuoco. E quello fece uscire d’una pietra scura e spezzata, buffando veleno da la gola aperta, fuoco dagl’occhi e fumo dal naso sì stranamente, che pareva monstruosa et orribile cosa affatto. E penò tanto a farla, che in quella stanza era il morbo degli animali morti troppo crudele, ma non sentito da Lionardo, per il grande amore che portava nell’arte. Finita questa opera, che più non era ricerca, nè dal villano nè dal padre, Lionardo gli disse, che ad ogni sua comodità mandasse per la rotella, che quanto a lui era finita. Andato dunque ser Piero una mattina a la stanza per la rotella e picchiato alla porta, Lionardo gli aperse, dicendo che aspettasse un poco; e ritornatosi nella stanza acconciò la rotella al lume in sul leggio et assettò la finestra, che facesse lume abbacinato, poi lo fece passar dentro a vederla. Ser Piero nel primo aspetto, non pensando alla cosa, subitamente si scosse, non credendo che quella fosse rotella, nè manco dipinto quel figurato che e’ vi vedeva. E tornando col passo a dietro, Lionardo lo tenne, dicendo: “Questa opera serve per quel che ella è fatta. Pigliatela, dunque, e portatela, chè questo è il fine, che dell’opere s’aspetta”.
Stupore, meraviglia, forse terrore di ser Piero. Risposta laconica e perentoria di Leonardo. Ammirazione del Vasari per l'artista prodigioso che contende a Dio la sua potenza e alla Natura le sue generazioni, che non si accontenta di imitarla, ma la indaga , la trasforma, la plasma a suo piacimento, intuisce ovunque la bellezza, anche nel mostruoso e nell'orrifico, e la suscita. In questa leggenda, pur con il suo carico di feroce titanismo in nuce, c'è già tutto l'avvenire secolare dell'arte.
Ma soprattutto, sotterranea, c'è, della bellezza, una concezione nuova che certo a Vasari era diventata famigliare, dopo Michelangelo e i grandi splenetici e melanconici del primo movimento anticlassico; dopo aver visto le celestiali pitture di un tetro misantropo, e i suoi indimenticabili azzurri-indaco e rossi brucianti e ustioni al calor bianco e dolcezze di incarnati da non accontentarsi degli occhi; le sulfuree invenzioni di Beccafumi; le crudeltà beffarde di Rosso Fiorentino: che la bellezza non pende dal lembo di alcun canone, di alcuna norma, è irriducibile alla sua stessa "Idea".Ma soprattutto, sotterranea, c'è, della bellezza, una concezione nuova che certo a Vasari era diventata famigliare, dopo Michelangelo e i grandi splenetici e melanconici del primo movimento anticlassico; dopo aver visto le celestiali pitture di un tetro misantropo, e i suoi indimenticabili azzurri-indaco e rossi brucianti e ustioni al calor bianco e dolcezze di incarnati da non accontentarsi degli occhi; le sulfuree invenzioni di Beccafumi; le crudeltà beffarde di Rosso Fiorentino: che la bellezza non pende dal lembo di alcun canone, di alcuna norma, è irriducibile alla sua stessa "Idea".
Lo aveva già scoperto l'inventore della prospettiva e autore del più corrosivo testo dell'Umanesimo: "Momus". Leon Battista Alberti, verso la fine del "De re aedificatoria", dichiara il proprio scacco. Ha tentato di catturare la bellezza con la rete dei principi vitruviani - la "disposizione", il "numero", la "varietà", l, "euritmia", la "proporzione" - ma deve cedere a una conclusione inattesa: la bellezza è "un certo che in più", un supplemento, una eccedenza che non si può misurare. Per definirla usa un termine ciceroniano quasi intraducibile: "concinnitas". Interna necessità, leggiadria, grazia senza concetto. Alone iridato intorno a una conchiglia che si avvolge nella sua madreperla.
Non si dà, accade.
E' l'irruzione di questo sovrappiù inafferrabile - non lo si può scomporre, ricostruire in un sistema di tratti, restituire all'ordine della significazione ( significazione di cosa?) - che ammutilisce e incanta. Esonero del commento. Fascinazione del drago di Leonardo, di tutti i draghi che popolano la nostra fantasia millenaria.
Irriducibile immanenza assoluta della bellezza errante. Unità indivisibile della sensazione pura. " ... nessun trucco retorico...sfida del poeta ( e del pittore ) alle regole aristoteliche della struttura."
Due anni dopo la lettura del passo vasariano, alla galleria "Unde" di Torino, un piccolo drago verde, meno impaurito degli spettatori, attratti e insieme respinti dalla sua leggiadria, saltellava con andatura selvatica su un pavimento in prospettiva a losanghe bicolori come la sua lunga coda. Sotto un fascio di luce la spoglia di una muta: due minuscole ali lucenti prese a prestito dalla prima macchina per volare di Leonardo.
Realizzato sul modello borrominiano di Sant'Ivo alla Sapienza, il pavimento , di preziosa carta fiorentina, ne tradiva, per la costruzione prospettica accidentale, l'impianto centralizzato, convergente sull'asse della lanterna. L' "animale fantastico" il suo virtuale punto di fuga vagante.
Nella ricostruzione attuale, la sua presenza viva è sostituita, per rispetto della coscienza animalista, da una scultura di cera, progettata con Raffaele Mondazzi, amico paziente, ed eseguita da lui con riconosciuta maestria.
Nel nuovo pavimento un errore imprevisto, lasciato sopravvivere, ha prodotto in alcune zone una dislocazione delle losanghe nella sequenza alternata dei due colori, scompaginando l'ordine previsto, aprendo varchi a un disordine fecondo generato dal caso, lasciandosi contaminare dalla natura ibrida e polimorfa del drago.
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