Dieter Kopp. Tradizione e libertà
Dal 10 Maggio 2023 al 30 Luglio 2023
Roma
Luogo: Palazzo delle Esposizioni
Indirizzo: Via Nazionale 194
Orari: da martedì a domenica 10-20. Lunedì chiuso. L'ingresso è consentito fino a un'ora prima della chiusura
Curatori: Giorgio Agamben
Enti promotori:
- Assessorato alla Cultura di Roma Capitale
- Azienda Speciale Palaexpo
Costo del biglietto: intero € 12.50, ridotto € 10, 7-18 anni € 6. Gratuito bambini fino a 6 anni, disabile e accompagnatore, invalido e accompagnatore
Sito ufficiale: http://www.palazzoesposizioni.it
Il Palazzo delle Esposizioni rende omaggio al pittore Dieter Kopp con una mostra che ne ripercorre gli oltre cinquanta anni di attività, curata da uno dei maggior filosofi del nostro tempo, Giorgio Agamben. La mostra DIETER KOPP. Tradizione e libertà, in programma dal 10 maggio al 30 luglio 2023, è promossa dall’ Assessorato alla Cultura di Roma Capitale e dall’Azienda Speciale Palaexpo, prodotta e organizzata dall’Azienda Speciale Palaexpo.
L’esposizione si avvale di un prestigioso comitato scientifico composto da Giorgio Agamben, Jean Clair, Monica Ferrando, Luisa Laureati Briganti, Gabriella Pace, Bill Sherman.
Tedesco di nascita, Kopp (Prien am Chiemsee, Baviera 1939 – Ardea 2022) si trasferì a Roma nel 1966, legandosi profondamente alla sua città d’elezione, al punto che Agamben, tra i pittori che ha conosciuto, lui solo considera veramente romano. Per definire la pittura di Dieter Kopp, Jean Clair coniò il neologismo “adsenza”, evocando uno stato di sospensione, a metà strada tra assenza e presenza. Una pittura che Giorgio Agamben, amico dell’artista sin dagli anni del suo arrivo a Roma, vide riposta in un gesto allo stesso tempo perentorio e sfumato.
La mostra allestita al primo piano del Palazzo delle Esposizioni presenta una selezione di circa cinquanta opere – olii, in prevalenza, su tela o su tavola, ma anche disegni realizzati con tecniche diverse soprattutto pastelli – attraverso le quali ripercorrere tutti i principali soggetti che l’artista ha esplorato con la sua pittura. Lungo il percorso espositivo si potranno ammirare i paesaggi di Paros (anni Settanta); le nature morte (Grandi cipolle, 1975-1976); Villa Balestra e altre vedute di Roma realizzate nell’arco di periodi diversi (da Villa Balestra, 1984 a Lungotevere e San Carlo al Corso, 1998 ca. e Pantheon, 2007); gli interni (Riflessi, 1977, Cortile al mattino, 1980-1981); Notre- Dame (1983-1984); i nudi (dipinti di grandi dimensioni, disegni e acquarelli degli anni Settanta e Ottanta) e la ciotola di ceramica unica presenza sul piano quadrettato della tovaglia (anni Novanta e Duemila).
La mostra è accompagnata da un catalogo a cura di Giorgio Agamben, con testi del curatore, di Jean Clair e di Dieter Kopp, edizioni Quodlibet, Macerata.
Testo introduttivo alla mostra di Giorgio Agamben
Se è vero che ogni opera d’arte contiene un indice temporale che la rimanda al presente, questa mostra segna certamente per l’opera di Dieter Kopp l’ora indifferibile della sua leggibilità. “Modesta, pallida, sfumata, a tratti indefinita” ha scritto della sua pittura Jean Clair “col tempo si precisa, si fa valere, prende colore e risplende. Non scade, non arretra, persiste e s’impone con una maestosa presenza”. È difficile definire più puntualmente l’avventura folgorante di questo pittore venuto dalla Baviera, che si è scoperto romano e a Roma, in cui ha abitato fino alla morte, ha dipinto la maggior parte delle sue opere – con l’eccezione del soggiorno in Grecia, che coincide con gli allucinati paesaggi quasi senza cielo dipinti a Paros.
Un filo segreto unisce questi paesaggi ai grandi nudi romani degli anni Ottanta, quasi i due poli di un’opera in cui tradizione e libertà – com’ è stato detto di un pittore a lui vicino, Balthus – si uniscono felicemente. Come Balthus, Dieter Kopp ha ostinatamente praticato il nudo e il paesaggio e come lui si è servito di tutte le tecniche, dall’olio all’acquarello, dal pastello alla matita. Il paragone è tuttavia fuorviante, perché diverso è il modo con cui i due pittori si misurano con l’inespresso che, come ha scritto John Rewald dei disegni di Balthus, definisce il segreto di ogni artista. Mentre in Balthus il mistero è intenzionalmente evocato in una sorta di perversa e ironica iniziazione, in Kopp esso è esibito per così dire in piena luce, senza compiacimento né sarcasmo. Né poteva essere altrimenti per un pittore convinto che “nell’arte l’unico tempo che esiste è l’assenza di tempo” e che “l’arte non è una copia della realtà, ma la realtà stessa”.
Poussin – un artista che Kopp sentiva vicino – visitava un giorno a Roma le rovine in compagnia di uno straniero desideroso di riportare con sé in patria qualche raro pezzo di antichità. Improvvisamente il pittore si china, raccoglie in mezzo all’erba un pugno di terra e di sassi e dice al suo compagno: “Portate questo nel vostro museo, questa è l’antica Roma”. Non solo dei paesaggi dipinti da Dieter a Paros, solo terra, sassi e ciuffi d’erba, ma di tutta la sua pittura si potrebbe dire lo stesso: questa è l’antica Grecia, questa è la realtà. E come Poussin Kopp avrebbe potuto dire della propria pittura: je n’ai rien négligé, non ho trascurato nulla. Di qui la sua attualità, in un momento in cui i pittori cercano faticosamente e ostinatamente di ritrovare il luogo che hanno smarrito fra la mente e le cose, fra l’occhio e la realtà, fra il concetto e la mano. Autobiografia
Da Dieter Kopp, Dichiarazione. 30 dipinti e un testo, stampato in proprio dall’autore, Roma s. d. [1981].
Sono nato nel 1939 nell'Alta Baviera. Ho frequentato le scuole fino a quindici anni, quando, per completa incapacità d'applicarmi, o forse per stupidità profonda, sono stato costretto ad andarmene via.
Dopo tre anni di apprendistato come mosaicista e un anno all'Accademia di Belle Arti di Monaco ho abbandonato la Germania nel '58 senza farvi quasi mai ritorno. Nell'anno di Accademia mi resi conto che dell'insegnamento si erano oramai impossessati gli stessi principi contro i quali l'arte moderna aveva avuto il suo inizio.
Senza smettere di amare i maestri dell'Ottocento e del Novecento mi sono rivolto a quelle espressioni per le quali «il comune senso corrente» non provava alcun interesse.
Ho vissuto a Parigi e ho frequentato assiduamente i musei, i luoghi sicuramente più meravigliosi che ci siano sulla terra.
Ho dipinto quadri nebulosi che solo pian piano andavano acquistando parvenze concrete. L'ultima tela cominciata prima di lasciare la Francia e terminata poi a Firenze, è una sorta di concerto campestre che, anche se assomigliava a Tiziano e Giorgione, non aveva, naturalmente, nessuna delle loro qualità. Nel suo aspetto ridicolmente ingenuo mi fa ora pensare alle allegorie delle stagioni che Cézanne aveva dipinto nella sua adolescenza. Essendomi reso conto della incapacità di dar forma alla mia visione, abbandonai il dipingere e mi misi a disegnare, come si suol dire, dal vero. Coincide con la venuta a Roma il principio di una nuova maniera e il piccolo albero di pino, è il primo risultato.
L’esposizione si avvale di un prestigioso comitato scientifico composto da Giorgio Agamben, Jean Clair, Monica Ferrando, Luisa Laureati Briganti, Gabriella Pace, Bill Sherman.
Tedesco di nascita, Kopp (Prien am Chiemsee, Baviera 1939 – Ardea 2022) si trasferì a Roma nel 1966, legandosi profondamente alla sua città d’elezione, al punto che Agamben, tra i pittori che ha conosciuto, lui solo considera veramente romano. Per definire la pittura di Dieter Kopp, Jean Clair coniò il neologismo “adsenza”, evocando uno stato di sospensione, a metà strada tra assenza e presenza. Una pittura che Giorgio Agamben, amico dell’artista sin dagli anni del suo arrivo a Roma, vide riposta in un gesto allo stesso tempo perentorio e sfumato.
La mostra allestita al primo piano del Palazzo delle Esposizioni presenta una selezione di circa cinquanta opere – olii, in prevalenza, su tela o su tavola, ma anche disegni realizzati con tecniche diverse soprattutto pastelli – attraverso le quali ripercorrere tutti i principali soggetti che l’artista ha esplorato con la sua pittura. Lungo il percorso espositivo si potranno ammirare i paesaggi di Paros (anni Settanta); le nature morte (Grandi cipolle, 1975-1976); Villa Balestra e altre vedute di Roma realizzate nell’arco di periodi diversi (da Villa Balestra, 1984 a Lungotevere e San Carlo al Corso, 1998 ca. e Pantheon, 2007); gli interni (Riflessi, 1977, Cortile al mattino, 1980-1981); Notre- Dame (1983-1984); i nudi (dipinti di grandi dimensioni, disegni e acquarelli degli anni Settanta e Ottanta) e la ciotola di ceramica unica presenza sul piano quadrettato della tovaglia (anni Novanta e Duemila).
La mostra è accompagnata da un catalogo a cura di Giorgio Agamben, con testi del curatore, di Jean Clair e di Dieter Kopp, edizioni Quodlibet, Macerata.
Testo introduttivo alla mostra di Giorgio Agamben
Se è vero che ogni opera d’arte contiene un indice temporale che la rimanda al presente, questa mostra segna certamente per l’opera di Dieter Kopp l’ora indifferibile della sua leggibilità. “Modesta, pallida, sfumata, a tratti indefinita” ha scritto della sua pittura Jean Clair “col tempo si precisa, si fa valere, prende colore e risplende. Non scade, non arretra, persiste e s’impone con una maestosa presenza”. È difficile definire più puntualmente l’avventura folgorante di questo pittore venuto dalla Baviera, che si è scoperto romano e a Roma, in cui ha abitato fino alla morte, ha dipinto la maggior parte delle sue opere – con l’eccezione del soggiorno in Grecia, che coincide con gli allucinati paesaggi quasi senza cielo dipinti a Paros.
Un filo segreto unisce questi paesaggi ai grandi nudi romani degli anni Ottanta, quasi i due poli di un’opera in cui tradizione e libertà – com’ è stato detto di un pittore a lui vicino, Balthus – si uniscono felicemente. Come Balthus, Dieter Kopp ha ostinatamente praticato il nudo e il paesaggio e come lui si è servito di tutte le tecniche, dall’olio all’acquarello, dal pastello alla matita. Il paragone è tuttavia fuorviante, perché diverso è il modo con cui i due pittori si misurano con l’inespresso che, come ha scritto John Rewald dei disegni di Balthus, definisce il segreto di ogni artista. Mentre in Balthus il mistero è intenzionalmente evocato in una sorta di perversa e ironica iniziazione, in Kopp esso è esibito per così dire in piena luce, senza compiacimento né sarcasmo. Né poteva essere altrimenti per un pittore convinto che “nell’arte l’unico tempo che esiste è l’assenza di tempo” e che “l’arte non è una copia della realtà, ma la realtà stessa”.
Poussin – un artista che Kopp sentiva vicino – visitava un giorno a Roma le rovine in compagnia di uno straniero desideroso di riportare con sé in patria qualche raro pezzo di antichità. Improvvisamente il pittore si china, raccoglie in mezzo all’erba un pugno di terra e di sassi e dice al suo compagno: “Portate questo nel vostro museo, questa è l’antica Roma”. Non solo dei paesaggi dipinti da Dieter a Paros, solo terra, sassi e ciuffi d’erba, ma di tutta la sua pittura si potrebbe dire lo stesso: questa è l’antica Grecia, questa è la realtà. E come Poussin Kopp avrebbe potuto dire della propria pittura: je n’ai rien négligé, non ho trascurato nulla. Di qui la sua attualità, in un momento in cui i pittori cercano faticosamente e ostinatamente di ritrovare il luogo che hanno smarrito fra la mente e le cose, fra l’occhio e la realtà, fra il concetto e la mano. Autobiografia
Da Dieter Kopp, Dichiarazione. 30 dipinti e un testo, stampato in proprio dall’autore, Roma s. d. [1981].
Sono nato nel 1939 nell'Alta Baviera. Ho frequentato le scuole fino a quindici anni, quando, per completa incapacità d'applicarmi, o forse per stupidità profonda, sono stato costretto ad andarmene via.
Dopo tre anni di apprendistato come mosaicista e un anno all'Accademia di Belle Arti di Monaco ho abbandonato la Germania nel '58 senza farvi quasi mai ritorno. Nell'anno di Accademia mi resi conto che dell'insegnamento si erano oramai impossessati gli stessi principi contro i quali l'arte moderna aveva avuto il suo inizio.
Senza smettere di amare i maestri dell'Ottocento e del Novecento mi sono rivolto a quelle espressioni per le quali «il comune senso corrente» non provava alcun interesse.
Ho vissuto a Parigi e ho frequentato assiduamente i musei, i luoghi sicuramente più meravigliosi che ci siano sulla terra.
Ho dipinto quadri nebulosi che solo pian piano andavano acquistando parvenze concrete. L'ultima tela cominciata prima di lasciare la Francia e terminata poi a Firenze, è una sorta di concerto campestre che, anche se assomigliava a Tiziano e Giorgione, non aveva, naturalmente, nessuna delle loro qualità. Nel suo aspetto ridicolmente ingenuo mi fa ora pensare alle allegorie delle stagioni che Cézanne aveva dipinto nella sua adolescenza. Essendomi reso conto della incapacità di dar forma alla mia visione, abbandonai il dipingere e mi misi a disegnare, come si suol dire, dal vero. Coincide con la venuta a Roma il principio di una nuova maniera e il piccolo albero di pino, è il primo risultato.
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