Andreas Schön. Tribun
Dal 06 Febbraio 2014 al 08 Marzo 2014
Roma
Luogo: Franz Paludetto
Indirizzo: via degli Ausoni 18
Orari: su appuntamento
Telefono per informazioni: +39 06 88921486
E-Mail info: roma@franzpaludetto.com
Sito ufficiale: http://www.franzpaludetto.com/site/
Con questa mostra personale di Andreas Schön la galleria franzpaludetto di Roma inaugura una stagione dedicata ad una ricognizione sull’arte contemporanea tedesca. Un primo appuntamento al quale seguiranno per tutto il 2014 un ciclo di mostre di artisti attivi sulla scena internazionale che nel tempo hanno avuto un rapporto personale con l’Italia e con Franz Paludetto e il Castello di Rivara in particolare.
Andreas Schön è uno degli artisti più significativi della stagione post concettuale che a partire dalla metà degli anni ‘80 ha visto il ritorno potente della pittura come mezzo principale di espressione.
Vive e lavora a Düsseldorf ma nasce nel 1955 a Kassel, si forma all’Accademia di Belle Arti di Münster e poi alla Düsseldorf Art Academy con Gerhard Richter, di cui in seguito diventa assistente fino al 1987, quando inizia ad esporre le sue opere.
Il suo rapporto con la cultura italiana è testimoniato dalle sue stesse parole: ‘fino ai 30 anni ho voluto essere un pittore moderno prima di tutto, ma quando ho poi a Padova ho visto gli affreschi di Giotto, ho capito che lì dentro c’era già tutto, dal Rinascimento alla Minimal Art…’ Una relazione profonda quindi che nel tempo ha prodotto numerosi viaggi, cicli di opere, soggiorni di studio e di ricerca, e anche diverse mostre personali e collettive a partire dalla prima nel 1997 al Castello di Rivara.
La sua pittura apparve subito come una scelta al limite del rivoluzionario in un periodo dominato da un sentimento selvaggio e iconoclasta. Una maestria tecnica sorprendente ma senza alcun compiacimento, radicalmente centrata sul risultato mentale, su quello che l’immagine è capace di creare, alla ricerca di un rapporto profondo con lo spettatore che non è mai soggetto passivo, ma parte in causa di un processo che tende a rimettere in circolo significati provenienti da mondi e tempi lontanissimi.
I suoi paesaggi appaiono soprattutto come porzioni di mondo dove la presenza umana non è mai esplicita ma sempre visibile sottilmente, nella forma delle cose, nello sfumare dei colori, nel punto di vista mai banale.
Non si tratta di paesaggi convenzionali, ma di composizioni giocate su un sottile equilibrio di colore, una vibrazione complessiva capace di aprire una finestra su una visione nascosta, il cuore del quadro, che non e’ mai pura seduzione, semplice gioco elegante, ma sempre rimando a qualcosa di altro, spesso invisibile, dimenticato.
Sono immagini che avvolgono con lentezza, evocano memorie nascoste, rendono percepibile un patrimonio ormai non più disponibile nella sua nudità ma reperibile unicamente come risultato di un processo di accumulo durato secoli.
Non è un lavoro rivolto al passato, non c’è nessun compiacimento in queste opere, nessuna nostalgia, memoria qui è la questione della nostra origine, ricerca di una narrazione in grado di ricollegare quel che è stato con il nostro particolare punto di vista attuale, con al centro sempre il problema della identità personale e del ruolo della pittura in generale.
Sono opere che intrecciano diversi motivi in una singola immagine, che è sempre astratta, letteralmente “tirata fuori” dal serbatoio della memoria. Una composizione che parte dai principi classici per poi allontanarsi in diverse direzioni, in una combinazione di sfumature sottili, secondo una idea sublime della pittura.
Ma nelle immagini di Schön non c’è nulla del paesaggio eroico, non succede nulla, non c’è descrizione, narrazione di eventi, non rappresenta un momento del guardare, ma una visione che parte da una reale percezione per diventare ricostruzione mentale attraverso diversi piani e diversi tempi storici.
Ogni immagine è come un campo di battaglia, un racconto della “condition humaine” senza finzione, senza alcuna consolazione.
Una sorta di archivio dell’umanità che Schön riproduce il più oggettivamente possibile ma senza alcun riferimento all’immagine fotografica. Qui si tratta di grande pittura, di composizione, ritmo, eleganza formale portata alle estreme conseguenze.
Un’idea di pittura non classica, ma consapevole della propria storia, una esperienza fisica, visiva prima di tutto, ma dal punto di vista del rettile, senza nessun compiacimento sensuale, senza aderire mai ad un unico punto di vista privilegiato. Queste opere sono immagini in cui nuotare senza limiti fisici o temporali, secondo un’idea di esperienza autentica dello stare al mondo.
Il ciclo di opere in mostra oggi nasce nel 1989 con una prima serie di acquerelli, dove gli agnelli di peluche con le loro “orecchie a parrucca’ si collegavano imprevedibilmente con una idea della rivoluzione francese.
Agnellini come eroi e martiri della rivoluzione, con coccarde blu, bianche e rosse, diventarono poi una serie di quadri ad olio sul tela intitolati agli eroi di quella stagione rivoluzionaria: Danton, Saint Just, Capet, Cloots.
Ma l’agnello non è solo l’immagine graziosa e paradossale di un momento storico, la sua innocenza diventa insolenza quando ci si accorge che queste opere vivono all’incrocio di molti significati, l’agnello di peluche è anche immagine dell’agnus dei, dell’ecclesia triumphans, nell’amorevole cura con cui sono dipinti assumono una forte carica simbolica capace di ribaltare una immagine familiare in un potente simbolo senza tempo.
Questo ciclo di opere, esposto per la prima volta nel 1995 nella galleria torinese di Franz Paludetto, viene oggi nuovamente riunito nella “galleria/vetrina” di Roma, ricreando l’atmosfera di una sorta di manifestazione muta, tribuni che ripropongono le loro dichiarazioni bellicose in un maniera sorprendente e a tratti anche ironica.
Andreas Schön è uno degli artisti più significativi della stagione post concettuale che a partire dalla metà degli anni ‘80 ha visto il ritorno potente della pittura come mezzo principale di espressione.
Vive e lavora a Düsseldorf ma nasce nel 1955 a Kassel, si forma all’Accademia di Belle Arti di Münster e poi alla Düsseldorf Art Academy con Gerhard Richter, di cui in seguito diventa assistente fino al 1987, quando inizia ad esporre le sue opere.
Il suo rapporto con la cultura italiana è testimoniato dalle sue stesse parole: ‘fino ai 30 anni ho voluto essere un pittore moderno prima di tutto, ma quando ho poi a Padova ho visto gli affreschi di Giotto, ho capito che lì dentro c’era già tutto, dal Rinascimento alla Minimal Art…’ Una relazione profonda quindi che nel tempo ha prodotto numerosi viaggi, cicli di opere, soggiorni di studio e di ricerca, e anche diverse mostre personali e collettive a partire dalla prima nel 1997 al Castello di Rivara.
La sua pittura apparve subito come una scelta al limite del rivoluzionario in un periodo dominato da un sentimento selvaggio e iconoclasta. Una maestria tecnica sorprendente ma senza alcun compiacimento, radicalmente centrata sul risultato mentale, su quello che l’immagine è capace di creare, alla ricerca di un rapporto profondo con lo spettatore che non è mai soggetto passivo, ma parte in causa di un processo che tende a rimettere in circolo significati provenienti da mondi e tempi lontanissimi.
I suoi paesaggi appaiono soprattutto come porzioni di mondo dove la presenza umana non è mai esplicita ma sempre visibile sottilmente, nella forma delle cose, nello sfumare dei colori, nel punto di vista mai banale.
Non si tratta di paesaggi convenzionali, ma di composizioni giocate su un sottile equilibrio di colore, una vibrazione complessiva capace di aprire una finestra su una visione nascosta, il cuore del quadro, che non e’ mai pura seduzione, semplice gioco elegante, ma sempre rimando a qualcosa di altro, spesso invisibile, dimenticato.
Sono immagini che avvolgono con lentezza, evocano memorie nascoste, rendono percepibile un patrimonio ormai non più disponibile nella sua nudità ma reperibile unicamente come risultato di un processo di accumulo durato secoli.
Non è un lavoro rivolto al passato, non c’è nessun compiacimento in queste opere, nessuna nostalgia, memoria qui è la questione della nostra origine, ricerca di una narrazione in grado di ricollegare quel che è stato con il nostro particolare punto di vista attuale, con al centro sempre il problema della identità personale e del ruolo della pittura in generale.
Sono opere che intrecciano diversi motivi in una singola immagine, che è sempre astratta, letteralmente “tirata fuori” dal serbatoio della memoria. Una composizione che parte dai principi classici per poi allontanarsi in diverse direzioni, in una combinazione di sfumature sottili, secondo una idea sublime della pittura.
Ma nelle immagini di Schön non c’è nulla del paesaggio eroico, non succede nulla, non c’è descrizione, narrazione di eventi, non rappresenta un momento del guardare, ma una visione che parte da una reale percezione per diventare ricostruzione mentale attraverso diversi piani e diversi tempi storici.
Ogni immagine è come un campo di battaglia, un racconto della “condition humaine” senza finzione, senza alcuna consolazione.
Una sorta di archivio dell’umanità che Schön riproduce il più oggettivamente possibile ma senza alcun riferimento all’immagine fotografica. Qui si tratta di grande pittura, di composizione, ritmo, eleganza formale portata alle estreme conseguenze.
Un’idea di pittura non classica, ma consapevole della propria storia, una esperienza fisica, visiva prima di tutto, ma dal punto di vista del rettile, senza nessun compiacimento sensuale, senza aderire mai ad un unico punto di vista privilegiato. Queste opere sono immagini in cui nuotare senza limiti fisici o temporali, secondo un’idea di esperienza autentica dello stare al mondo.
Il ciclo di opere in mostra oggi nasce nel 1989 con una prima serie di acquerelli, dove gli agnelli di peluche con le loro “orecchie a parrucca’ si collegavano imprevedibilmente con una idea della rivoluzione francese.
Agnellini come eroi e martiri della rivoluzione, con coccarde blu, bianche e rosse, diventarono poi una serie di quadri ad olio sul tela intitolati agli eroi di quella stagione rivoluzionaria: Danton, Saint Just, Capet, Cloots.
Ma l’agnello non è solo l’immagine graziosa e paradossale di un momento storico, la sua innocenza diventa insolenza quando ci si accorge che queste opere vivono all’incrocio di molti significati, l’agnello di peluche è anche immagine dell’agnus dei, dell’ecclesia triumphans, nell’amorevole cura con cui sono dipinti assumono una forte carica simbolica capace di ribaltare una immagine familiare in un potente simbolo senza tempo.
Questo ciclo di opere, esposto per la prima volta nel 1995 nella galleria torinese di Franz Paludetto, viene oggi nuovamente riunito nella “galleria/vetrina” di Roma, ricreando l’atmosfera di una sorta di manifestazione muta, tribuni che ripropongono le loro dichiarazioni bellicose in un maniera sorprendente e a tratti anche ironica.
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