Gian Piero Gasparini. In tempore belli
Dal 02 Giugno 2017 al 15 Giugno 2017
Pescara
Luogo: Sala degli Alambicchi – Ex Aurum
Indirizzo: Largo Gardone Riviera
Enti promotori:
- Comune di Pescara - Assessorato alla Cultura
Costo del biglietto: ingresso gratuito
Telefono per informazioni: +39 085 454 9508
Il bello del mio mestiere è la pluralità dei punti di vista. Naturalmente ha anche altri lati positivi, ma direi che quello della moltitudine delle prospettive sia il più importante. Alla base v’è una domanda di non poco conto: l’artista è un artigiano (sebbene un artigiano “di lusso”) o è qualcosa di radicalmente diverso?
In fin del conto persino io, che non faccio l’artista, potrei prendere un tavolo di legno, metterlo in mezzo a un white cube e convincervi che siete al cospetto di un’opera d’arte: anche se il tubo catodico è stato superato dall’Internet, resta sempre valido il mantra di Marshall McLuhan, per cui “il medium è il messaggio”.
Se voi, come il sottoscritto, pensate che il mestiere dell’artista sia “fare cose belle per il popolo”, allora con ogni probabilità siete (anche) dell’idea che non corra una gran distanza fra l’artigiano e l’artista. Bene, se pensate che l’equivalenza artista/artigiano sia un’acquisizione teorica originale e spregiudicata, sappiate che è in realtà vecchia come il cucco: William Morris, della confraternita Art and Crafts, la pensava proprio così. Eravamo nel diciannovesimo secolo ma in realtà la disputa, se vogliamo chiamarla così, intorno al rapporto fra arte e tecnica risale all’antichità e fu in età umanistica che la figura dell’artista si rese autonoma da quella dell’artigiano: allora, capitava che qualche artista legasse il proprio nome (anche) alla produzione di trattati che accostavano l’impresa artistica più a quella scientifica che non a quella strettamente artigianale o tecnica (un esempio su tutti, il trattato De pictura di Leon Battista Alberti).
L’attività artistica non era più intesa come la stessa cosa dell’artigianato e sicuramente si avvicinava parecchio alla scienza quasi “matematizzandosi”. Sarà solo nel Settecento, col letterato Charles Batteux e il suo Le Belle Arti riportate ad unico principio, che si inizierà a parlare, appunto, di “belle arti” (pittura, scultura, musica, danza, poesia) nel senso di una sfera autonoma di queste discipline rispetto all’artigianato e all’impresa scientifica. Da lì nacque e prosperò il concetto di arte come mimesi, cioè come imitazione, perché il principio fondante di tutto ciò che si chiamava “arte” non lo si trovava in altri che nelle parole del maestro di color che sanno, cioè Aristotele: l’arte imita la natura.
Chiaramente, Duchamp e Manzoni erano ancora di là da venire e di acqua ne corse sotto i ponti, dagli Antichi, che ritenevano che la bellezza fosse proporzione fra le parti, alle dispute metafisiche del Settecento fino alle pratiche degli artisti contemporanei che hanno scombinato le carte.
Eppure, in tutto questo bailamme di osservazioni, teorizzazioni, riflessioni, un punto fermo c’è sempre stato: la regola. Lo diceva quel vecchio conservatore di Edmund Burke: per fare qualcosa di bello ci vuole una regola che dipenda direttamente dalle connessioni dei nostri sentimenti con gli oggetti naturali. Contrariamente a quel che si potrebbe pensare, Burke era sicuro della sua assoluta oggettività, perché, da buon romantico, considerava il sentimento come qualcosa di oggettivo al pari di un fenomeno naturale.
Insomma, nel corso del tempo variano sia la nozione di artista che quella di bello. Alla domanda “Cos’è la bellezza?”, Lord Shaftesbury rispose dicendo che si tratta di un-certo-non-so-che (je-ne-sais-quoi per fare i raffinati). Mentre per gli Antichi il bello era sinonimo di proporzione (e quando v’era il rischio che questa venisse a mancare, nell’opera fatta e finita s’interveniva per “raddrizzarla”, si pensi all’Atena di Fidia scolpita in modo intenzionalmente sproporzionato per controbilanciarne l’assottigliamento causato dalla percezione), per i pensatori e gli artisti dell’età rinascimentale il bello era una rappresentazione giusta e perfetta (e qui l’arte si assimilava all’impresa scientifica). A voler essere rigorosi, i fenomeni visuali della trasformazione e della distruzione dell’immagine furono con ogni probabilità partoriti in epoca manieristica, quando gli artisti, nella fattispecie i pittori, iniziarono a sperimentare e a proporre quella “deformazione” che l’arte moderna e contemporanea avrebbero progressivamente massimizzato. Esempio: la scomposizione dell’immagine dei Divisionisti e Puntinisti.
Eppure, come diceva Bernardo di Chartres, noi siamo nani cresciuti sulle spalle dei giganti ed è per questo che spesso la buona arte contemporanea non misconosce il proprio debito nei loro confronti: l’ultima produzione di Gian Piero Gasparini è tributaria di Leonardo da Vinci e guarda alle recondite armonie che legano l’arte, somma technè, all’osservazione scientifica e all’indagine matematica e geometrica. LDV -questo il nome del progetto, dove le tre lettere sono l’acronimo di Leonardo da Vinci- è un omaggio ai grandi che fecero la storia (dell’arte), fra i quali troviamo non solo il “genio universale”, ma anche coloro che intesero l’arte come qualcosa di vicino alla ricerca scientifica.
LDV consta di una serie di ritratti realizzati dai sommi -Pollaiolo, Antonello da Messina, Raffaello…, reinterpretati non solo alla luce della contemporaneità, ma anche con un occhio di riguardo ai collegamenti speculativi, scientifici, matematici e geometrici con l’arte visuale. Innanzitutto sono evidenti i tributi in LDV a Leigh Bowery e Chuck Close, che non sono ancora dei classici ma lo potrebbero diventare: il primo un performer considerato fino a non troppo tempo fa alla stregua di un outsider per il suo gusto trasformista, l’altro assurto all’apice della fama per la precisione “sezionatoria” di monumentali ritratti che-sembrano-foto-ma-non-lo-sono. Dunque in via preliminare, a livello di impatto percettivo e intellettuale, se da un lato le sezioni quadrangolari di LDV ci fanno riandare col pensiero alle “quadrettature” di Chuck Close che enfatizzano le porzioni di “territorio epidermico” con la nitidezza verofunzionale di ogni dettaglio del soggetto raffigurato, dall’altro le sezioni sferiche e colorate che mappano i ritratti di LDV rappresentano (anche) un tributo a certi esiti dell’opera trasformiste di Leigh Bowery. Ma del resto per Gian Piero Gasparini, che da sempre adotta il linguaggio della tela strappata, cruda, decolorata e fatta a brandelli, la frammentazione mosaicata dell’immagine non è altro che una derivazione del mezzo mediatico (questa è ormai l’epoca dei pixel e della frammentazione dell’immagine), allo stesso modo in cui i puntinisti ragionavano sulla scomposizione del dato figurale, con la differenza che Gasparini interviene sulla superficie per mezzo di sezioni quadrangolari “vandalizzando” il ritratto. In tutto ciò non fa altro che reinterpretare il Rinascimento: non erano forse spesso e volentieri i volti dell’epoca circoscritti in ovali ed ellissi? Ma qui sta il punto (in tutti i sensi): infatti, leggendo LDV come una porzione per immagini della storia dell’arte, proprio i “puntini” con cui Bowery adornava e trasformava il proprio corpo rappresentano un po’ l’elemento simbolico di connessione col pointillisme e il divisionismo storici, vale a dire con quell’evoluzione delle forme che, a partire dalla “artigianalità” degli Antichi prima e dalla “scientificità” del Rinascimento poi, passò per gli esiti de-costruttivi e de-formanti del Manierismo toccando lo zenith in ambito contemporaneo (un esempio su tutti: i ritratti Bacon).
Il filo conduttore è, come sempre nella storia non solo dell’arte ma anche in quella del pensiero sull’arte, la bellezza (do you remember Lord Shaftesbury?), un sentimento per noi ideale come quello rinascimentale, con la differenza che la nostra venere botticelliana è coram populo Maria Elena Boschi: cambiano le dispute metafisiche sulla bellezza e sull’arte, ma non la loro ricerca nei secoli. In questi giorni (siamo nell’estate del 2016) è balzato agli onori della cronaca un disegno di Mannelli raffigurante una Maria Elena un po’ impudica. Un brutto disegno (Mannelli sa fare di meglio). Ma io spero di vedere, prima o poi, questa Venere rinascimentale della contemporaneità ritratta da Gianpiero Gasparini come solo lui sa fare, mappando la superficie tissurale di questa icona di bellezza odierna con sezioni sferiche colorate e inserimenti figurali in pieno stile LDV.
Orari di apertura: tutti i giorni 9:00-13:00 / 15:00-19:30
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