Le Mummie di Roccapelago (XVI-XVIII sec.): vita e morte di una piccola comunità dell'Appennino modenese
Dal 26 Maggio 2013 al 27 Ottobre 2013
Pievepelago | Modena
Luogo: Museo Sulle orme di Obizzo di Montegarullo/ Chiesa della Conversione di San Paolo
Indirizzo: località Roccapelago
Orari: sabato e domenica 10.30-12.30/ 16-19; dal 26 luglio al 1 settembre tutti i giorni 10.30-12.30/ 16-19; settembre e ottobre sabato e domenica 10.30-12/ 15-17
Enti promotori:
- Soprintendenza per i Beni Archeologici dell’Emilia-Romagna
- Laboratorio di Antropologia di Ravenna - Dipartimento di Storie e Metodi per la Conservazione dei Beni Culturali (Università di Bologna)
- Comune di Pievepelago
- Associazione Pro Rocca
Costo del biglietto: ingresso gratuito
Telefono per informazioni: +39 0536 71890/ 329 3814897
E-Mail info: sba-ero@beniculturali.it
Sito ufficiale: http://www.archeobologna.beniculturali.it/mostre/roccapelago_2012.htm
Lo studio dei resti delle mummie di Roccapelago racconta usi, costumi, religiosità, abitudini e malattie di una collettività di contadini di montagna.
La camicia era quella di tutta una vita. Quasi sempre di lino, filata sul posto, rattoppata più volte e dappertutto, perché puoi anche essere povero ma non si deroga alla dignità.
Il vestito no, quello al morto non lo mettevano. Poteva ancora servire. Ai vivi.
Così come le monete, supposto obolo per Caronte: scarsissime. Abbondavano invece i lasciapassare della fede: per quell’ultimo viaggio, che per molti era anche il primo, c’era sempre un rosario, un crocefisso, la medaglietta di un santo, anche a costo di farla in cartone. Né mancavano i gesti di pietas, le amorevoli cure su quei morti troppo spesso “al cielo cari”, visto il gran numero di giovani donne e bambini
Una delle più singolari scoperte archeologiche degli ultimi anni è di nuovo protagonista della mostra “Le Mummie di Roccapelago (XVI-XVIII sec.): vita e morte di una piccola comunità dell'Appennino modenese” allestita fino al 27 ottobre 2013 nel museo e nella Chiesa di Roccapelago, nell’Alto Frignano modenese. Una fossa comune con 281 inumati, di cui circa 60 mummificati, sepolti dalla metà del Cinquecento alla fine del Settecento, che un fortunato mix di ventilazione e clima asciutto ha conservato fino ad oggi, restituendoci i morti di un’intera comunità.
Li avevano trovati nel gennaio 2011 durante i restauri della chiesa. Scoperchiato il soffitto della cripta, era apparsa una piramide di corpi accatastati uno sull’altro, una montagna di ossa, pelle, tendini e capelli ancora avvolti in sacchi-sudari, con camice, calze, cuffie e piccoli oggetti d’uso quotidiano.
Ora una mostra curata da Giorgio Gruppioni e Donato Labate espone 13 di quelle mummie e circa 150 tra i reperti più significativi rinvenuti nello scavo, cercando di raccontare la vita di quell’umile gente, una piccola comunità montana di 40, 50 individui al massimo, uomini e donne in egual misura, vissuti abbarbicati sul loro cocuzzolo, a 1095 metri di altitudine.
Studiando i loro resti, esperti di tessuti e devozione religiosa, archeologi, antropologi e genetisti stanno ricostruendo la loro vita, scoprendo le abitudini dei contadini, le vesti intime, i modi di sepoltura, la dieta e le carenze alimentari, le malattie, i traumi e i tentativi di cura
Per una volta la storia accantona i potenti e dà volto e voce a tante creature passate anonime nel dramma della vita
L’analisi degli indumenti è di per sé eccezionale: secondo Thessy Schoenholzer Nichols, che ha esaminato i tessuti, di solito si studiano gli abiti di personaggi di alto rango, se non di veri e propri regnanti, è raro poterlo fare con le vesti dei contadini di 3-5 secoli fa, incluse quelle di un bambino. Le mummie di Roccapelago consentono non solo di studiare i tipi di fibre, tessuti, fogge, cuciture e decorazioni utilizzati dalla povera gente ma di poterlo fare su indumenti in fibra vegetale (canapa e lino) che sono sempre i primi a deteriorarsi. L’abbigliamento comune è composto principalmente da una camicia e un sudario, quasi sempre di lino, e un paio di calze, esclusivamente di lana; rara la presenza di tessuti di pregio, come la seta ed il velluto, usati solo per due cuffie. Calze, camicie e sudari sono realizzati con materie prime locali, filate e tessute sul posto. Le camicie erano usate per molti anni, forse per tutta la vita adulta: lo denunciano le tante riparazioni con toppe anche sovrapposte che le ricoprono in ogni parte, dallo scollo all’orlo. La miseria non impediva comunque alle contadine di aggiungere dettagli vezzosi come piccoli ricami o merletti a fuselli realizzati in casa.
Le informazioni più struggenti vengono dalle cure applicate alle salme, amorevolmente preparate dai propri cari prima dell’inumazione. I capelli delle donne erano acconciati con trecce e chignon o raccolti in cuffie, le mani intrecciate in atto di preghiera o adagiate sull’addome, i polsi e le caviglie legati per mantenerli uniti, i menti fasciati per evitare che la bocca si spalancasse. Come nei giorni di festa, le si adornava con anelli, orecchini, collane o bracciali, gioielli semplici, in linea con il tenore di vita della comunità, mai in metallo prezioso. Estremamente toccante il recupero di una fede ancora calzata a eterno simbolo dell’amore di una vita. Tantissime le medaglie votive, riposte tra le pieghe degli abiti o in appositi sacchetti: tra le iconografie ricorrenti l’effige di Sant’Emidio, protettore dai terremoti, la Vergine dei sette dolori, rappresentata con sette spade conficcate nel cuore, e la Madonna di Loreto, riprodotta anche su un pezzo di stoffa. Singolare il ritrovamento di una rara lettera di rivelazione che accompagnava la salma di Maria Ori, una sorta di contratto con Dio che “garantiva” protezione e grazie in cambio di preghiere.
Un dado da gioco trovato tra i corpi rimanda a serate di svago in piacevole compagnia ma in generale, secondo gli antropologi, la vita degli abitanti di Roccapelago era durissima. Lo attestano le fratture e le patologie all’anca e alla colonna vertebrale che raccontano di trasporti di carichi pesanti su terreni ripidi e impervi, lo dicono i traumi, muti testimoni di scontri violenti se non mortali. Tra le donne diffusa l’osteoporosi (forse per le tante gravidanze e i lunghi allattamenti) mentre in tutti è evidente l’usura e la perdita dei denti, legata al consumo di alimenti (segale, crusca, castagne, noci) poco adatti a preservare la dentatura. Altissima la mortalità delle giovani donne (falcidiate dai parti) e degli infanti dal primo anno di vita fino ai 6/7 anni; chi però varcava i vent’anni, soprattutto se uomo, poteva anche arrivare a un’età abbastanza avanzata per l’epoca, come attestano le numerose sepolture senili
“Questa mostra –sottolinea il soprintendente Filippo Maria Gambari- è un primo passo verso la ricostruzione della storia antropologica e bioculturale della piccola comunità che viveva in questa località e per lo studio dei processi microevolutivi delle popolazioni umane e del loro rapporto con l’ambiente e le risorse.
Per fare ciò, la Soprintendenza per i Beni Archeologici dell’Emilia-Romagna e il Laboratorio di Antropologia del Dipartimento di Storie e Metodi per la Conservazione dei Beni Culturali dell’Università di Bologna (sede di Ravenna) hanno messo a punto un approccio pluridisciplinare che coniuga gli aspetti archeologici, antropologici e storici con un'attenta valutazione delle esigenze di esposizione e conservazione di reperti altamente deperibili quali i resti umani e i corredi tessili. Questo importante ritrovamento offre anche la possibilità di intraprendere innovative indagini genetiche di grande interesse biologico e medico-patologico (già in corso di programmazione). La valorizzazione di questo straordinario rinvenimento si avvarrà delle più moderne tecnologie digitali a cominciare dalla ricostruzione 3D delle sepolture più significative e dalla creazione virtuale di interventi di restauro e modelli di mummie, per offrire al pubblico, sotto forma di "narrazione storica", la storia di questo straordinario ritrovamento.
La mostra è promossa da Soprintendenza per i Beni Archeologici dell’Emilia-Romagna, Laboratorio di Antropologia di Ravenna - Dipartimento di Storie e Metodi per la Conservazione dei Beni Culturali (Università di Bologna), Comune di Pievepelago e Associazione Pro Rocca in collaborazione con Accademia "lo Scoltenna", Comunità Montana del Frignano, Istituto per i Beni Artistici, Culturali e Naturali della Regione Emilia-Romagna, Musei Civici di Modena, Fondazione Centro Conservazione e Restauro "La Venaria Reale", Parrocchia di Roccapelago, Provincia di Modena e Ufficio Diocesano per i Beni Culturali Ecclesiastici, con il sostegno della Fondazione Cassa di Risparmio di Modena e il contributo dell’IBC Emilia-Romagna, dell’Agenzia Onoranze Funebri Gianni Gibellini di Modena e del CNA di Modena
La Chiesa della Conversione di San Paolo Apostolo, a Roccapelago, sorge su uno sperone roccioso elevato, con una sola via d’accesso, che fu sfruttato tra il 1370 e il 1400 per insediarvi una fortezza presidiata da Obizzo da Montegarullo, uno dei più potenti signori del Frignano, che alla fine del XIV secolo si ribellò al dominio agli Estensi.
Sul finire del Cinquecento, quando ormai il complesso militare era in disuso, una parte della rocca fu riadattata per realizzare una chiesa parrocchiale che raggiunse la massima giurisdizione territoriale nel XVII secolo.
Dal 2008 al 2011, il complesso è stato oggetto di un importante lavoro di restauro architettonico. I lavori sono stati preceduti da controlli archeologici condotti sul campo dall’archeologa Barbara Vernia e dagli antropologi Vania Milani e Mirko Taversari, sotto la direzione scientifica degli archeologi Donato Labate, Luigi Malnati e Luca Mercuri della Soprintendenza per i Beni Archeologici dell’Emilia-Romagna.
Oltre al recupero di due vani del castello medievale e di sette tombe con sepolture multiple, gli scavi archeologici hanno indagato un ambiente voltato interrato che in origine era pertinente alla rocca ma che dopo la costruzione della chiesa fu trasformato prima in cripta cimiteriale (con sepoltura nel sottosuolo) e poi in fossa comune (con deposizioni multiple sopraterra). Questa fossa è stata probabilmente chiusa alla metà dell’Ottocento, sigillando per sempre una miniera di informazioni sulla piccola comunità di Roccapelago.
L’ambiente ha restituito complessivamente circa 281 sepolture fra infanti, bambini e adulti, molti dei quali mummificati naturalmente grazie al microclima creatosi all’interno della cripta, favorito da due aperture sulla parete est.
Il ritrovamento di questi resti umani è di enorme interesse scientifico. Mummie di questo genere forniscono molte informazioni sulle vicende umane di individui vissuti nel passato, consentendo spesso di ricostruirne l’aspetto somatico, il sesso, l’età di morte, fino all’identità genetica attraverso l’esame del DNA estratto dai resti.
Lo studio degli scheletri dà indicazioni sulla dieta, altri fattori riconducibili a malattie, stati carenziali, attività fisica svolta o eventi traumatici che hanno colpito il soggetto nel corso della sua esistenza. Le prime osservazioni sui materiali osteoarcheologici di Roccapelago hanno fornito dati di grande interesse, anche in riferimento alle particolari condizioni ambientali, di vita, sussistenza e isolamento geografico in cui è vissuta per secoli questa piccola comunità
Si aprono quindi straordinarie possibilità di studio per archeologi e scienziati che stanno lentamente ricostruendo vita, attività e cause di morte di un’intera comunità tra il XVI e il XVIII secolo.
Al termine degli studi, alcuni resti mummificati resteranno esposti nel luogo del rinvenimento (dunque nella cripta della chiesa) mentre la maggior parte delle salme troverà degna sepoltura nel cimitero di Roccapelago.
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