Nicola Verlato. Hostia
Dal 10 Maggio 2014 al 21 Dicembre 2014
Lissone | Milano
Luogo: MAC - Museo d'Arte Contemporanea di Lissone
Indirizzo: viale Padania 6
Orari: mar-mer-ven 15-19, giov 15-23, sab-dom 10-12 / 15-19
Curatori: Alberto Zanchetta
Costo del biglietto: ingresso gratuito
Telefono per informazioni: +39 039 2145174
E-Mail info: museo@comune.lissone.mb.it
Sito ufficiale: http://www.comune.lissone.mb.it
Hostia è un progetto che Nicola Verlato [Verona, 1965] ha realizzato appositamente per il museo di Lissone. L'esposizione, ispirata alla tragica morte (qui trasfigurata in un sacrificio-suicidio) di Pier Paolo Pasolini sulla spiaggia di Ostia, è stata pensata come uno spiegamento - nello spazio e nel tempo - di un grande dipinto che è anche il luogo da cui si origina tutta la mostra. Alla stregua di una pala d'altare, il dipinto rappresenta il corpo di Pasolini mentre attraversa a ritroso la propria vita, passando nell'inferno del mondo fino alla sua infanzia. In primo piano vediamo un imberbe Pasolini seduto sulle ginocchia della madre, intento a scrive i suoi primi versi al cospetto di Petrarca e di Ezra Pound; il primo assiste al miracolo della nascita di un poeta che dona la vita all'arte, il secondo può finalmente riposare dopo aver (invano) rovesciato il senso del mondo affinché la poesia potesse rifiorire.
Disseminati nell'allestimento, alcuni piccoli dipinti rivelano altri aspetti connessi alla narrazione di questo grande dipinto. Sulla parete concava del museo si sviluppa invece un enorme disegno a carboncino, immaginario frammento di un Grande Fregio che immortala scene di violenza evocanti le atmosfere di Salò, con figure ignude che lottano tra loro.
Una scultura a dimensioni reali, che ritrae in modo estremamente realistico Pasolini, è sospesa al centro della sala. La scultura e il fregio introducono lo spettatore nello spazio in cui ha luogo questa rappresentazione; si tratta di un edificio che l'artista ha concepito a guisa di monumento e/o mausoleo. Completa l'esposizione un brano musicale che interpreta in chiave sinfonica i "Canti pisani" letti da Pasolini nella dimora veneziana di Pound.
La mostra di Nicola Verlato si fonda su un'ipotesi che è anche un desiderio: costruire un complesso monumentale a Ostia, luogo della morte di Pasolini. Più che un poeta, un cineasta o uno scrittore, Pasolini è un corpo che vive nella dimensione del mito, in quanto è riuscito a incarnare un destino non solo tragico ma addirittura universale.
Le opere di Verlato narrano della progressiva eliminazione dell'arte dalla vita e dell'immensa disperazione che Pasolini esprime nelle sue ultime opere, associando il mondo a un inferno che ha perso ogni occasione di salvezza, perché ciò che dava senso alle cose (l'arte) è stata eliminata. Alquanto emblematica è la figura di Pound, qui assunta al ruolo di semioforo: per il miglior fabbro la poesia è stata l'approdo per chi ammette il proprio fallimento, "perché se è il poeta che fallisce non è la poesia a fallire". Ebbene, se è l'autore e non la sua opera a capitolare, il naufrago può sempre far ritorno all'isola; in questo senso Pasolini muore nel terreno paludoso di Ostia, laddove ha "inscenato" il proprio martirio con puntigliosa accuratezza, assicurandosi così un posto nell'immaginario dei posteri, giacché l'epoca della modernità non gli avrebbe potuto tributare lo stesso onore. Il Novecento aveva infatti strappato il cuore al poeta lasciandovi un vuoto incolmabile (all'età di sette anni Pasolini iniziò a scrivere composizioni di gusto petrarchesco, folgorato dall'idea che la poesia classica fosse in grado di trasformare il mondo; crescendo giunge però all'amara constatazione che il XX secolo non se ne può far nulla della poesia, perché di Petrarca non c'è più necessità).
Pasolini aveva definito il cinema come «la poesia delle cose stesse», enunciazione che dobbiamo associare alla definitiva perdita di fiducia nella poesia, la quale viene sacrificata a favore di un'aderenza alla realtà. In tale disbrigo/declivio, l'ultimo passo da compiere è trasformare la vita in arte, ed è proprio in questo senso che può essere spiegata la morte di Pasolini, quel martirio autoinflitto che il poeta ha orchestrato per anni e poi portato al suo ineluttabile compimento. La "scena" dell'esecuzione di Pier Paolo Pasolini è disseminata di simboli che il poeta aveva preconizzato nella propria opera, dettagli che ci appaiono nella loro flagrante evidenza soltanto in questa prospettiva - di presa di coscienza - offertaci da Verlato.
Disseminati nell'allestimento, alcuni piccoli dipinti rivelano altri aspetti connessi alla narrazione di questo grande dipinto. Sulla parete concava del museo si sviluppa invece un enorme disegno a carboncino, immaginario frammento di un Grande Fregio che immortala scene di violenza evocanti le atmosfere di Salò, con figure ignude che lottano tra loro.
Una scultura a dimensioni reali, che ritrae in modo estremamente realistico Pasolini, è sospesa al centro della sala. La scultura e il fregio introducono lo spettatore nello spazio in cui ha luogo questa rappresentazione; si tratta di un edificio che l'artista ha concepito a guisa di monumento e/o mausoleo. Completa l'esposizione un brano musicale che interpreta in chiave sinfonica i "Canti pisani" letti da Pasolini nella dimora veneziana di Pound.
La mostra di Nicola Verlato si fonda su un'ipotesi che è anche un desiderio: costruire un complesso monumentale a Ostia, luogo della morte di Pasolini. Più che un poeta, un cineasta o uno scrittore, Pasolini è un corpo che vive nella dimensione del mito, in quanto è riuscito a incarnare un destino non solo tragico ma addirittura universale.
Le opere di Verlato narrano della progressiva eliminazione dell'arte dalla vita e dell'immensa disperazione che Pasolini esprime nelle sue ultime opere, associando il mondo a un inferno che ha perso ogni occasione di salvezza, perché ciò che dava senso alle cose (l'arte) è stata eliminata. Alquanto emblematica è la figura di Pound, qui assunta al ruolo di semioforo: per il miglior fabbro la poesia è stata l'approdo per chi ammette il proprio fallimento, "perché se è il poeta che fallisce non è la poesia a fallire". Ebbene, se è l'autore e non la sua opera a capitolare, il naufrago può sempre far ritorno all'isola; in questo senso Pasolini muore nel terreno paludoso di Ostia, laddove ha "inscenato" il proprio martirio con puntigliosa accuratezza, assicurandosi così un posto nell'immaginario dei posteri, giacché l'epoca della modernità non gli avrebbe potuto tributare lo stesso onore. Il Novecento aveva infatti strappato il cuore al poeta lasciandovi un vuoto incolmabile (all'età di sette anni Pasolini iniziò a scrivere composizioni di gusto petrarchesco, folgorato dall'idea che la poesia classica fosse in grado di trasformare il mondo; crescendo giunge però all'amara constatazione che il XX secolo non se ne può far nulla della poesia, perché di Petrarca non c'è più necessità).
Pasolini aveva definito il cinema come «la poesia delle cose stesse», enunciazione che dobbiamo associare alla definitiva perdita di fiducia nella poesia, la quale viene sacrificata a favore di un'aderenza alla realtà. In tale disbrigo/declivio, l'ultimo passo da compiere è trasformare la vita in arte, ed è proprio in questo senso che può essere spiegata la morte di Pasolini, quel martirio autoinflitto che il poeta ha orchestrato per anni e poi portato al suo ineluttabile compimento. La "scena" dell'esecuzione di Pier Paolo Pasolini è disseminata di simboli che il poeta aveva preconizzato nella propria opera, dettagli che ci appaiono nella loro flagrante evidenza soltanto in questa prospettiva - di presa di coscienza - offertaci da Verlato.
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