Acqua Minerale Martesana Apostolo
Dal 15 Aprile 2016 al 30 Aprile 2016
Milano
Luogo: City Art
Indirizzo: via Dolomiti 11
Orari: da mercoledì a sabato 15.30-19
Curatori: Pino Diecidue
Telefono per informazioni: +39 335 7689814
E-Mail info: info@cityart.it
Sito ufficiale: http://www.cityart.it/
In un’epoca in cui l’etico non ha più cittadinanza e il soggetto vive la propria frammentazione, l’emergenza ecologica e la crisi dei saperi hanno reso cruciali il ritorno e la riflessione relativa all’arte che si interroga sul proprio senso e posto nel mondo, e anzitutto sul suo essere “un’arte ‘spostata’” (Patella) che significa decentrata, dislocata, differente, che si dà là dove nessuno l’attende.
Veniamo, infatti, da una lunga, triste stagione, caratterizzata dalla dispersione dei valori così che ci siamo trovati a vivere in un “impoverimento”, in cui arte e cultura si sono svuotate non solo nel sogno della bellezza, ma nel grottesco in tutte le sue forme. E viviamo nella consapevolezza di una svolta del “mondo che siamo”, un mondo giunto a vivere la disperazione dell’assenza della speranza.
Può accadere allora che il gesto dell’arte si relazioni con la vita per ritrovare la parte più nascosta dell’io e l’invisibile delle cose. E si dia un gesto dell’arte che è un lasciarsi sentire o estimità, secondo il neologismo di Lacan, che declina insieme estraneità e intimità e un sentire insieme dal dentro e dal di fuori, che richiama il perturbante, che in Freud, e poi in Lacan e Derrida, è la faccia spaesante e inospitale in cui si rovescia il familiare, così che nell’arte si mantenga il momento e la suspence del negativo.
E’ anche per questo che è difficile scegliere da quale universo di senso approcciare le installazioni di Apostolo e i mondi che esse convocano. Così guardando l’installazione “Acqua minerale Martesana” di 80 bottiglie mi si affaccia immediatamente l’affascinante e popolatissimo mondo dei packaging di tutto ciò che è liquido – acque, vini, liquori, profumi, detersivi, ecc. – di cui il design inventa le forme e ne fa interfacce di comunicazione moltiplicate dalle scritte e disegni delle etichette in modo che possano prendere ad essere e si offrano al nostro sguardo e uso, colonizzando e colorando i nostri vissuti e mondi esperienziali sulle tavole, nelle toilette, nei media, lungo le facciate stesse delle metropoli.
E se ci si sofferma anche solo sull’universo dei packaging delle acque pure e sorgive e delle mitologie ad esse connesse, potremmo osservare che di vetro e non di PET o di plastica sono le allungate bottiglie dall’elegante profilo scelte per contenere e dare forma all’acqua minerale Martesana. Per la sua trasparenza il vetro filtra la sorgente luminosa naturale dando l’impressione di entrare in un ambiente surreale, “acquatico”, a metà strada tra sogno e realtà. L’etichetta, disegnata a matita sul retro, delle bottiglie ha al centro la mappa di Milano e il tracciato del canale della Martesana, il Naviglio piccolo come si dice a Milano, un tempo città delle acque e dei canali navigabili, ora per lo più interrati e inquinati. A sinistra l’esame microbiologico elenca gli indici di contaminazione e il malessere che l’avvelenamento delle acque produrrebbe se fosse assunta quindi se ne vieta l’assunzione.
Così che l’installazione “Acqua minerale Martesana” di Apostolo ci appare come il punto d’arrivo o ulteriore dislocazione della fascinazione per le superfici riflettenti che lo ha portato ad operare, dar forma o iscrivere le sue opere in specchi e vetri, nelle superfici dell’acciaio e nel plexiglas e, mi verrebbe da dire, a voler disegnare sull’acqua. Sono, infatti, tutti luoghi in cui si riflette o emergono le immagini e i frammenti delle cose e di noi stessi. In cui, come diceva Merleau-Ponty, siamo esseri guardati nello specchio del mondo. E sono tutti materiali e linguaggi in cui lo sguardo si trasferisce e passa nell’immagine e in cui le cose, straniate dalle immagini e dalle duplicazioni e inversioni dei significati delle parole scritte che accompagnano ogni sua opera-azione come dichiarazione di autore, non sono quelle che sembrano. E ciò vale anzitutto per il soggetto, come ci mostra Lacan nel modello chiastico dell’incrocio degli sguardi con l’incrocio di due triangoli o piramidi visive, nell’intreccio tra sguardi e visione e nello stadio dello specchio con cui mette in scena i meccanismi dell’assunzione della propria immagine come io ideale o miraggio.
Inoltre se in prima lettura emerge la paradossalità dell’opera e azione di Apostolo che capovolge il senso dell’acqua minerale per definizione pura e di fonte – e ciò è tanto più surreale se si pensa che l’Italia è uno dei maggiori produttori e consumatori di acque minerali – questo è solo il primo aspetto o livello di lettura. L’acqua impura non solo diviene il simbolo del male, ma per l’inconscio è una simbolizzazione attiva e la sostanza stessa del male.
Anche in questa nuova installazione Apostolo torna, infatti, a riflettere e a farci riflettere sul malessere, o mal’essere e esser’male come recita una sua precedente installazione, e dunque sul lato oscuro e latente delle cose e della vita e di noi stessi, tessendo con i suoi disegni una rete sottile di diffrazioni, come su un teatro espanso e risonante, a quinte multiple, in cui si rivela lo «scollamento» della realtà.
Così l’immagine ci ritorna addosso quale espressione del nostro sguardo. E contemporaneamente lo sguardo si distacca da noi diventando immagine che fluttua liberamente nel mondo. E del resto, l’immagine, l’eidolon, ha tre accezioni concomitanti: immagine del sogno (onar), apparizione suscitata da un dio (phasma), fantasma di un defunto (psyche). E’ dunque il doppio o l’ombra. E i fantasmi a loro volta sono i rappresentanti dell’inconscio, le trame immaginarie o le rappresentazioni in cui si fissano le pulsioni. Sono messe in scena del desiderio che si presenta tramite i suoi rappresentanti.
Mi vengono allora in mente le macchine celibi, fabbricatrici di sogni in una lingua senza terra e senza corpo, a partire da La Mariée mise à nu di Duchamp e da Les jours et les nuits di Jarry, in cui si iscrive l’abbraccio con il proprio doppio, per dire l’impossibilità della comunicazione, di cui il linguaggio e l’immagine sono insieme promessa e fantasma. Non ci resta altro che amare la lingua delle parole e delle immagini che si sostituisce alla comunicazione e si anima in un gioco che segue un logica, quella celibe, che infrange la relazione tra i termini e i suoi contenuti, tra il detto e il dire, tra ciò che appare e quello che esso significa. Ciò che conta è il processo di trasformazione, la macchina o il dispositivo che ci dà accesso alla moltiplicazione delle trasformazioni.
Appaiono così sul retro di ogni bottiglia, che diviene quindi unica, nei disegni originali a grafite nera fatti oltre che dall’artista dal figlio Mattia, gli spostamento dell’asse dell’immaginario. Le figure trapassano nel figurale che mantiene la propria opacità e eccede il linguaggio. L’ordine del discorso viene dis-ordinato e si contaminano presente e passato, il figlio e il sé bambino, perché il figurale fa valere non ciò che si vede ma ciò che fa vedere, uno spazio della compresenza in cui i fantasmi dell’inconscio e dell’eros coabitano con i cuori che sono bastoncini di zucchero e sguardo incantato del sé bambino.
Eleonora Fiorani
Inaugurazione: venerdì 15 aprile ore 18
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