Dialoghi tra Fiaba e Mito. Diego Santini e Luigi Santini
Dal 13 Novembre 2021 al 28 Novembre 2021
Olgiate Comasco | Como
Luogo: GALP - Galleria d’arte contemporanea
Indirizzo: Via Tarchini 9
Orari: Lunedì: 15:00 -19:00. Martedì - Sabato: 9:15 - 12:30 | 15:00 - 19:00. Domenica 10:00 - 12:00 | 16:00 - 19:00
Curatori: Alessandra Redaelli
Telefono per informazioni: +39 031 944063
E-Mail info: info@galleria-galp.it
Sito ufficiale: http://www.galleria-galp.it
È un dialogo lieve, quello che si snoda tra le sculture di Luigi Galligani e le tele di Diego Santini. Il che non significa che si tratti di un dialogo leggero. È lieve nei modi, nelle forme composte, nei colori pieni, nelle narrazioni oniriche. Ma quello che vi si racconta è denso e potente. Mai pesante, è vero, ma certamente intenso.
Prendiamo le sirene di Luigi Galligani. Che cosa c’è di più comprensibile e rassicurante di una figura femminile? Che cosa c’è di più appagante di una forma compatta, racchiusa in una curva sinuosa che sembra avvilupparsi su se stessa secondo regole ancestrali, come la conchiglia Nautilus, il cui guscio segue uno sviluppo matematico? Hanno profili perfetti, le sirene di Galligani, nasi dritti, visi che per il loro ovale avrebbero incantato i pittori rinascimentali e corpi le cui curve ci si offrono tonde e accoglienti.
Ci avviciniamo a loro con la tranquilla curiosità che invita alla carezza di quelle superfici tattili, vellutate, terribilmente sensuali. Eppure, quando incrociamo il loro sguardo, qualcosa ci costringe a fermarci, a guardarle di nuovo, a girare loro intorno per scoprire l’arcano meccanismo di quella ipnotica perfezione, a cercare di fissarne le pupille sfuggenti. E anche se l’incanto si è compiuto, se siamo oramai definitivamente sedotti e la nostra mano andrà – fatalmente – a posarsi su quella coda curvilinea o su quel seno, dentro, in fondo, abbiamo percepito il brivido, abbiamo saggiato il pericolo. Esattamente come quando ci avviciniamo a un animale selvatico: affascinati e in allarme al tempo stesso.
Luigi Galligani è un artista di rango, uno di quelli che hanno fatto tesoro degli insegnamenti della tradizione e hanno saputo farla propria rivoluzionandola, trovando la loro voce unica e pura. Una tradizione a cui si è sempre tenuto ben stretto, anche quando frequentava l’Accademia e il mondo dell’arte, intorno a lui, pretendeva la rottura a tutti i costi. “Io sono un neoplatonico”, dice di sé, “non un esistenzialista”. Gli interessa il mondo delle idee e gli interessa come questo si inscriva nel mondo delle forme. Forme che lui vuole compatte, ripulite, perfette, racchiuse in qualcosa che si potrebbe definire “geometria emotiva”.
Dentro le sue sirene e le sue bagnanti c’è l’arte primitiva, con le Pomone sontuose il cui corpo è vaso accogliente e cornucopia, c’è la solida compostezza di Benedetto Antelami, c’è l’arte etrusca, anche, con la sensualità colma di eleganza del Sarcofago degli sposi; ci sono Marino Marini e Arturo Martini, c’è la metafisica delicatezza di Felice Casorati e c’è la granitica monumentalità di Mario Sironi. Eppure nel momento in cui ce le si trova davanti, queste sirene palpitano di contemporaneità.
Galligani ama le sirene, spiega, per quella loro storia così prettamente mediterranea, per il loro essere da sempre parte dell’immaginario mitico di tutti i paesi affacciati sul nostro mare e che da quello hanno tratto il loro sostentamento e le loro leggende. Ma delle sirene ama soprattutto l’incantevole doppiezza, la ferocia celata sotto la seduzione. Per la Roma antica, per la Grecia, per il Medio Oriente e per l’Egitto la figura della sirena è infatti l’archetipo di una femminilità ambigua e inquietante, irresistibile e fatale. L’artista dunque ci seduce con le sue creature marine, con i suoi ibridi tra umano e animale, ma la verità è che prima di tutto ne è stato sedotto lui. Esattamente come Ulisse – che si fa legare all’albero della nave perché il fascino malvagio di quelle creature non lo porti a seguirle fino ad esserne divorato, ma che rifiuta di tapparsi le orecchie perché avido di quel canto misteriosamente insidioso – Galligani decide di mettersi faccia a faccia con queste creature stupende e mostruose, mezza donna e mezzo pesce, mostri marini che hanno alimentato favole e leggende creando uno dei primi e più micidiali archetipi della femme fatale.
Eccole, allora: la chioma fluttuante come se noi potessimo vederla muoversi dentro l’acqua, oppure compatta come un unico pezzo di materia e nonostante questo all’apparenza soffice, arrendevole; ecco la forma morbida del braccio, a volte teso a chiudere in un abbraccio la coda, fino a creare un cerchio perfetto col corpo, altre volte languidamente appoggiato sul fianco, nella tipica posa della Venere; ecco i seni piccoli e liberi, il ventre morbido, il solco tenero dell’ombelico e poi, improvviso, ecco il guizzo della coda. E’ lì che cominciamo ad avvertire il brivido, perché non sono tanto le squame, qui, a sorprenderci, quanto il fatto che qualche volta l’appendice è profilata da uno spigolo vivo, come una lama. Una coda di murena, dunque. Eppure sarà proprio quello il punto sul quale andrà a cadere la mano, dove andrà ad arrischiarsi la carezza. È il primo avvertimento. Ma poi arriviamo allo sguardo e subito comprendiamo. Perché lo sguardo ci inchioda o sfugge di lato, scarta improvviso o spia oltre la spalla. Oppure bellamente ci ignora, spezzandoci il cuore.
A volte è proprio lì quello che l’artista, con una definizione geniale, ha chiamato lo “sgarro”. Lo sgarro è la chiave, il gioco che fa sì che la forma così apparentemente compatta e inviolabile non lo sia affatto, esattamente come questa donna dalle forme morbide non è una nutrice né una docile fanciulla. Lo sgarro spezza la continuità e ribalta le certezze. E’ la rivoluzione, il bandolo, il senso stesso della fascinazione. Appare improvvisamente e si coglie dapprima come uno spostamento di contenuto, come il colpo di scena della narrazione: lo sguardo micidiale e mortale della femme fatale che porterà la sua vittima alla follia. Ma in realtà è molto di più: è un colpo di scena formale, che magari, in una composizione perfettamente costruita su orizzontali e verticali, deflagra in una diagonale. E lì scatta la trappola. Lì l’incanto diventa implacabile.
Il mare è solo suggerito, nelle sculture di Luigi Galligani, presenza assente ma imprescindibile fino al modo in cui i soggetti ci si presentano: “donne racchiuse in forme pure come quelle dei sassi che l'acqua ha levigato durante il cammino dalla montagna al mare”, come poeticamente le definisce Romano Battaglia. È invece potentemente presente, il mare, nei dipinti di Diego Santini. È un mare attraverso il quale possiamo scorgere impavidi nuotatori intenti a pescare stelle marine per le loro amate, mollemente sdraiate su materassini gonfiabili che galleggiano a pelo d’acqua. Un mare compattato in una lastra di cristallo su cui la schiena della balena si erge come un’architettura avveniristica. Un mare denso e specchiante, oppure trasparentissimo, attraversato da una luce abbagliante e dentro il quale la sagoma del pesce gigante si sdoppia in ipnotici giochi di ombre. E se non è mare, il turchese dilaga comunque, pastoso e vivido, dentro cieli solcati da cetacei volanti o da nuvole che si possono cavalcare come uccelli giganteschi.
Siamo in un altro mondo, qui, un mondo invaso dal colore, “un mondo senza gravità, dove niente è al suo posto e che mi permette di non abbandonare il mio lato bambino”, così definisce il proprio lavoro Diego Santini. Una dichiarazione che è già manifesto di un procedere libero, senza vincoli, senza obiettivi precostituiti, ma piuttosto con lo spirito delle libere associazioni, del flusso di coscienza, lasciando che sia uno sfondo a decidere che cosa ci sarà dipinto sopra o che sia un personaggio – un goffo pescatore in canottiera, un ragazzetto aggrappato a una Vespa – a tracciare la direzione della storia e a farla germinare intorno a sé. Forse è proprio questa la chiave del piacere che si prova davanti al lavoro di questo artista: il senso di libertà sfrenata che abbiamo praticato soltanto nei sogni – o nell’infanzia – e che per questo ci apparenta un po’ tutti, ci è famigliare.
Alla domanda, inevitabile, se scriva racconti, la risposta negativa dell’artista lascia spiazzati. Perché la sua pittura è a tutti gli effetti una narrazione. Ogni opera racconta storie, apre incognite e ci chiede di sviluppare le vicende nella nostra immaginazione per portarle a conclusione. E dunque la verità ci appare evidente. Certo che Diego Santini scrive storie: lo fa con il pennello.
Anche qui, esattamente come nella scultura di Galligani, la lettura approfondita del soggetto apre porte nascoste e colpi di scena, perché sotto la gioia vibrante e la spensieratezza, la nota malinconica sottopelle appare evidente, come una specie di retrogusto amaro che non ci abbandona la lingua. Sotto quei cieli e dentro quei mari di un turchese fondo, vellutato, abbagliante, sostanziato di una luce trasparente che confonde i contorni e che blocca la scena in un’ora del giorno che non esiste, forse, sulla terra, ma che fa parte di una realtà fatata oltre il nostro mondo, la scena che si svolge ci strappa un sorriso e una lacrima allo stesso tempo. Per quell’uomo solitario che rema in un mare calmo soltanto in apparenza, ma minacciato da una tempesta incombente, nel tentativo di raggiungere un rosso cuore pulsante oramai quasi completamente sotto il pelo dell’acqua; mentre noi non sappiamo se ce la farà, realizzando il suo sogno d’amore, o se dovrà assistere impotente al naufragio. Per la bambina in bilico sul profilo affilato della luna, impegnata nell’arduo – forse impossibile – compito di raggiungere il compagno di giochi. Per il bambino che usando vecchie scatole di cartone si traveste da astronauta, e per quel suo sguardo malinconico lanciato verso un cielo che rappresenta per lui forse una fuga da un presente che non vuole accettare. O per i due innamorati, pericolosamente abbarbicati a due betulle sugli orli opposti di un burrone.
Ci sarà l’happy ending, forse. Ma forse no. Mentre quella luna bassa, incombente, a volte raggiungibile, amichevole come una palla gigante, a volte quasi minacciosa, rappresenta la doppia anima del reale, il bivio, lo spazio del sogno e della possibilità. E a volte non basta l’ironia dei titoli a scacciare il velo palpabile di malinconia.
I personaggi di Diego Santini nuotano in gamme di azzurri che ricordano il Giotto della Cappella degli Scrovegni e delle Storie di San Francesco d’Assisi, è vero, ma nella deformazione, negli equilibri impossibili, nelle situazioni improbabili e nelle atmosfere surreali si ritrovano tracce della pittura di Salvador Dalí e di René Magritte; una cavalcata nell’arte del passato senza limiti e senza regole, rielaborata e ripensata attraverso una sensibilità squisitamente contemporanea, filtrata dalla televisione, dalla fiction, dal cinema, dalla pubblicità e dai più sofisticati maestri dell’animazione fino a creare un mix irresistibile.
E poi c’è la tecnica, particolare, giocata sul doppio binario dell’acrilico e dell’olio. Ad acrilico Diego Santini prepara infatti il fondo, in gesti veloci, ripassando a volte col pennello asciutto per dare all’insieme quell’effetto soffice e vellutato capace di regalare alla narrazione la sua atmosfera fatata. Ad olio completa i soggetti, inventa i contrappunti di rosso che accendono la storia e le danno ritmo, profila lune vicinissime, tangibili come pezzi di formaggio o al contrario sostanziate di una luce fluorescente che sembra capace di scottarci le dita, intesse nel dettaglio il mantello degli animali o l’erba del prato, in primo piano; erba che a volte appare soffice come ovatta, impalpabile come l’immagine che resta, al risveglio, di un sogno di cui abbiamo perso i contorni, ma di cui ci rimane addosso una struggente nostalgia.
quel luogo e quel momento. In quei casi so di aver fatto bene la mia parte, fornendo metodi, materiali e tempistiche adatte.
Una delle ultime belle esperienze è stata l’incontro con Somebody Teatro delle Diversità, una realtà bresciana con cui ho collaborato recentemente. Insieme abbiamo organizzato un workshop di collage e sono stati parte integrante della mia ultima mostra, un’anteprima di un’esposizione più ampia che avrà luogo a metà novembre all’interno della rassegna Giornate FuoriNorma.
La mostra intitolata INSIDE vedrà protagoniste le “Solitudini” una serie di sculture nate da una riflessione sui tempi che stiamo vivendo e si propone di creare un dialogo aperto tra le opere e gli spazi di Bunkervik, rifugio antiaereo collocato nel cuore della città e oggi polo per l’arte contemporanea del Comune di Brescia. All’interno di questo luogo profondamente evocativo il percorso espositivo guiderà fruitore in un viaggio introspettivo, avvalendosi di contaminazioni di diversa natura, come le ambientazioni sonore di Ground Arti Elettroniche e le azioni teatrali di Somebody Teatro.
Prendiamo le sirene di Luigi Galligani. Che cosa c’è di più comprensibile e rassicurante di una figura femminile? Che cosa c’è di più appagante di una forma compatta, racchiusa in una curva sinuosa che sembra avvilupparsi su se stessa secondo regole ancestrali, come la conchiglia Nautilus, il cui guscio segue uno sviluppo matematico? Hanno profili perfetti, le sirene di Galligani, nasi dritti, visi che per il loro ovale avrebbero incantato i pittori rinascimentali e corpi le cui curve ci si offrono tonde e accoglienti.
Ci avviciniamo a loro con la tranquilla curiosità che invita alla carezza di quelle superfici tattili, vellutate, terribilmente sensuali. Eppure, quando incrociamo il loro sguardo, qualcosa ci costringe a fermarci, a guardarle di nuovo, a girare loro intorno per scoprire l’arcano meccanismo di quella ipnotica perfezione, a cercare di fissarne le pupille sfuggenti. E anche se l’incanto si è compiuto, se siamo oramai definitivamente sedotti e la nostra mano andrà – fatalmente – a posarsi su quella coda curvilinea o su quel seno, dentro, in fondo, abbiamo percepito il brivido, abbiamo saggiato il pericolo. Esattamente come quando ci avviciniamo a un animale selvatico: affascinati e in allarme al tempo stesso.
Luigi Galligani è un artista di rango, uno di quelli che hanno fatto tesoro degli insegnamenti della tradizione e hanno saputo farla propria rivoluzionandola, trovando la loro voce unica e pura. Una tradizione a cui si è sempre tenuto ben stretto, anche quando frequentava l’Accademia e il mondo dell’arte, intorno a lui, pretendeva la rottura a tutti i costi. “Io sono un neoplatonico”, dice di sé, “non un esistenzialista”. Gli interessa il mondo delle idee e gli interessa come questo si inscriva nel mondo delle forme. Forme che lui vuole compatte, ripulite, perfette, racchiuse in qualcosa che si potrebbe definire “geometria emotiva”.
Dentro le sue sirene e le sue bagnanti c’è l’arte primitiva, con le Pomone sontuose il cui corpo è vaso accogliente e cornucopia, c’è la solida compostezza di Benedetto Antelami, c’è l’arte etrusca, anche, con la sensualità colma di eleganza del Sarcofago degli sposi; ci sono Marino Marini e Arturo Martini, c’è la metafisica delicatezza di Felice Casorati e c’è la granitica monumentalità di Mario Sironi. Eppure nel momento in cui ce le si trova davanti, queste sirene palpitano di contemporaneità.
Galligani ama le sirene, spiega, per quella loro storia così prettamente mediterranea, per il loro essere da sempre parte dell’immaginario mitico di tutti i paesi affacciati sul nostro mare e che da quello hanno tratto il loro sostentamento e le loro leggende. Ma delle sirene ama soprattutto l’incantevole doppiezza, la ferocia celata sotto la seduzione. Per la Roma antica, per la Grecia, per il Medio Oriente e per l’Egitto la figura della sirena è infatti l’archetipo di una femminilità ambigua e inquietante, irresistibile e fatale. L’artista dunque ci seduce con le sue creature marine, con i suoi ibridi tra umano e animale, ma la verità è che prima di tutto ne è stato sedotto lui. Esattamente come Ulisse – che si fa legare all’albero della nave perché il fascino malvagio di quelle creature non lo porti a seguirle fino ad esserne divorato, ma che rifiuta di tapparsi le orecchie perché avido di quel canto misteriosamente insidioso – Galligani decide di mettersi faccia a faccia con queste creature stupende e mostruose, mezza donna e mezzo pesce, mostri marini che hanno alimentato favole e leggende creando uno dei primi e più micidiali archetipi della femme fatale.
Eccole, allora: la chioma fluttuante come se noi potessimo vederla muoversi dentro l’acqua, oppure compatta come un unico pezzo di materia e nonostante questo all’apparenza soffice, arrendevole; ecco la forma morbida del braccio, a volte teso a chiudere in un abbraccio la coda, fino a creare un cerchio perfetto col corpo, altre volte languidamente appoggiato sul fianco, nella tipica posa della Venere; ecco i seni piccoli e liberi, il ventre morbido, il solco tenero dell’ombelico e poi, improvviso, ecco il guizzo della coda. E’ lì che cominciamo ad avvertire il brivido, perché non sono tanto le squame, qui, a sorprenderci, quanto il fatto che qualche volta l’appendice è profilata da uno spigolo vivo, come una lama. Una coda di murena, dunque. Eppure sarà proprio quello il punto sul quale andrà a cadere la mano, dove andrà ad arrischiarsi la carezza. È il primo avvertimento. Ma poi arriviamo allo sguardo e subito comprendiamo. Perché lo sguardo ci inchioda o sfugge di lato, scarta improvviso o spia oltre la spalla. Oppure bellamente ci ignora, spezzandoci il cuore.
A volte è proprio lì quello che l’artista, con una definizione geniale, ha chiamato lo “sgarro”. Lo sgarro è la chiave, il gioco che fa sì che la forma così apparentemente compatta e inviolabile non lo sia affatto, esattamente come questa donna dalle forme morbide non è una nutrice né una docile fanciulla. Lo sgarro spezza la continuità e ribalta le certezze. E’ la rivoluzione, il bandolo, il senso stesso della fascinazione. Appare improvvisamente e si coglie dapprima come uno spostamento di contenuto, come il colpo di scena della narrazione: lo sguardo micidiale e mortale della femme fatale che porterà la sua vittima alla follia. Ma in realtà è molto di più: è un colpo di scena formale, che magari, in una composizione perfettamente costruita su orizzontali e verticali, deflagra in una diagonale. E lì scatta la trappola. Lì l’incanto diventa implacabile.
Il mare è solo suggerito, nelle sculture di Luigi Galligani, presenza assente ma imprescindibile fino al modo in cui i soggetti ci si presentano: “donne racchiuse in forme pure come quelle dei sassi che l'acqua ha levigato durante il cammino dalla montagna al mare”, come poeticamente le definisce Romano Battaglia. È invece potentemente presente, il mare, nei dipinti di Diego Santini. È un mare attraverso il quale possiamo scorgere impavidi nuotatori intenti a pescare stelle marine per le loro amate, mollemente sdraiate su materassini gonfiabili che galleggiano a pelo d’acqua. Un mare compattato in una lastra di cristallo su cui la schiena della balena si erge come un’architettura avveniristica. Un mare denso e specchiante, oppure trasparentissimo, attraversato da una luce abbagliante e dentro il quale la sagoma del pesce gigante si sdoppia in ipnotici giochi di ombre. E se non è mare, il turchese dilaga comunque, pastoso e vivido, dentro cieli solcati da cetacei volanti o da nuvole che si possono cavalcare come uccelli giganteschi.
Siamo in un altro mondo, qui, un mondo invaso dal colore, “un mondo senza gravità, dove niente è al suo posto e che mi permette di non abbandonare il mio lato bambino”, così definisce il proprio lavoro Diego Santini. Una dichiarazione che è già manifesto di un procedere libero, senza vincoli, senza obiettivi precostituiti, ma piuttosto con lo spirito delle libere associazioni, del flusso di coscienza, lasciando che sia uno sfondo a decidere che cosa ci sarà dipinto sopra o che sia un personaggio – un goffo pescatore in canottiera, un ragazzetto aggrappato a una Vespa – a tracciare la direzione della storia e a farla germinare intorno a sé. Forse è proprio questa la chiave del piacere che si prova davanti al lavoro di questo artista: il senso di libertà sfrenata che abbiamo praticato soltanto nei sogni – o nell’infanzia – e che per questo ci apparenta un po’ tutti, ci è famigliare.
Alla domanda, inevitabile, se scriva racconti, la risposta negativa dell’artista lascia spiazzati. Perché la sua pittura è a tutti gli effetti una narrazione. Ogni opera racconta storie, apre incognite e ci chiede di sviluppare le vicende nella nostra immaginazione per portarle a conclusione. E dunque la verità ci appare evidente. Certo che Diego Santini scrive storie: lo fa con il pennello.
Anche qui, esattamente come nella scultura di Galligani, la lettura approfondita del soggetto apre porte nascoste e colpi di scena, perché sotto la gioia vibrante e la spensieratezza, la nota malinconica sottopelle appare evidente, come una specie di retrogusto amaro che non ci abbandona la lingua. Sotto quei cieli e dentro quei mari di un turchese fondo, vellutato, abbagliante, sostanziato di una luce trasparente che confonde i contorni e che blocca la scena in un’ora del giorno che non esiste, forse, sulla terra, ma che fa parte di una realtà fatata oltre il nostro mondo, la scena che si svolge ci strappa un sorriso e una lacrima allo stesso tempo. Per quell’uomo solitario che rema in un mare calmo soltanto in apparenza, ma minacciato da una tempesta incombente, nel tentativo di raggiungere un rosso cuore pulsante oramai quasi completamente sotto il pelo dell’acqua; mentre noi non sappiamo se ce la farà, realizzando il suo sogno d’amore, o se dovrà assistere impotente al naufragio. Per la bambina in bilico sul profilo affilato della luna, impegnata nell’arduo – forse impossibile – compito di raggiungere il compagno di giochi. Per il bambino che usando vecchie scatole di cartone si traveste da astronauta, e per quel suo sguardo malinconico lanciato verso un cielo che rappresenta per lui forse una fuga da un presente che non vuole accettare. O per i due innamorati, pericolosamente abbarbicati a due betulle sugli orli opposti di un burrone.
Ci sarà l’happy ending, forse. Ma forse no. Mentre quella luna bassa, incombente, a volte raggiungibile, amichevole come una palla gigante, a volte quasi minacciosa, rappresenta la doppia anima del reale, il bivio, lo spazio del sogno e della possibilità. E a volte non basta l’ironia dei titoli a scacciare il velo palpabile di malinconia.
I personaggi di Diego Santini nuotano in gamme di azzurri che ricordano il Giotto della Cappella degli Scrovegni e delle Storie di San Francesco d’Assisi, è vero, ma nella deformazione, negli equilibri impossibili, nelle situazioni improbabili e nelle atmosfere surreali si ritrovano tracce della pittura di Salvador Dalí e di René Magritte; una cavalcata nell’arte del passato senza limiti e senza regole, rielaborata e ripensata attraverso una sensibilità squisitamente contemporanea, filtrata dalla televisione, dalla fiction, dal cinema, dalla pubblicità e dai più sofisticati maestri dell’animazione fino a creare un mix irresistibile.
E poi c’è la tecnica, particolare, giocata sul doppio binario dell’acrilico e dell’olio. Ad acrilico Diego Santini prepara infatti il fondo, in gesti veloci, ripassando a volte col pennello asciutto per dare all’insieme quell’effetto soffice e vellutato capace di regalare alla narrazione la sua atmosfera fatata. Ad olio completa i soggetti, inventa i contrappunti di rosso che accendono la storia e le danno ritmo, profila lune vicinissime, tangibili come pezzi di formaggio o al contrario sostanziate di una luce fluorescente che sembra capace di scottarci le dita, intesse nel dettaglio il mantello degli animali o l’erba del prato, in primo piano; erba che a volte appare soffice come ovatta, impalpabile come l’immagine che resta, al risveglio, di un sogno di cui abbiamo perso i contorni, ma di cui ci rimane addosso una struggente nostalgia.
quel luogo e quel momento. In quei casi so di aver fatto bene la mia parte, fornendo metodi, materiali e tempistiche adatte.
Una delle ultime belle esperienze è stata l’incontro con Somebody Teatro delle Diversità, una realtà bresciana con cui ho collaborato recentemente. Insieme abbiamo organizzato un workshop di collage e sono stati parte integrante della mia ultima mostra, un’anteprima di un’esposizione più ampia che avrà luogo a metà novembre all’interno della rassegna Giornate FuoriNorma.
La mostra intitolata INSIDE vedrà protagoniste le “Solitudini” una serie di sculture nate da una riflessione sui tempi che stiamo vivendo e si propone di creare un dialogo aperto tra le opere e gli spazi di Bunkervik, rifugio antiaereo collocato nel cuore della città e oggi polo per l’arte contemporanea del Comune di Brescia. All’interno di questo luogo profondamente evocativo il percorso espositivo guiderà fruitore in un viaggio introspettivo, avvalendosi di contaminazioni di diversa natura, come le ambientazioni sonore di Ground Arti Elettroniche e le azioni teatrali di Somebody Teatro.
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