I Macchiaioli. L'avventura dell'arte moderna
Dal 19 Novembre 2021 al 05 Giugno 2022
Asti
Luogo: Palazzo Mazzetti
Indirizzo: Corso Vittorio Alfieri 357
Orari: Martedì – domenica 10.00 - 19.00 (la biglietteria chiude un’ora prima). Lunedì chiuso
Curatori: Tiziano Panconi
Prolungata: fino al 5 giugno 2022
Telefono per informazioni: +39 0141 530403
E-Mail info: prenotazioni@fondazioneastimusei.it
Sito ufficiale: http://www.museidiasti.com
Dal 19 novembre 2021 al 1 maggio 2022, Palazzo Mazzetti di Asti apre le sue porte a I Macchiaioli. L’avventura dell’arte moderna: una mostra che, attraverso un corpus di oltre 80 opere, presenta alcuni capolavori dell’arte dell’Ottocento italiano, fra dipinti celebri e opere meno note perchè mai esposte prima, in gran parte provenienti dalle più prestigiose collezioni private europee.
A Palazzo Mazzetti la mostra rappresenta un’occasione unica per scoprire i Macchiaioli, il movimento pittorico più importante dell’avanguardia italiana risorgimentale e il clima sociale che fa da sfondo alla vicenda di questi artisti, oltre ai temi, ai contenuti e ai personaggi di questo rivoluzionario movimento: si potranno ammirare opere quali Mamma con bambino (1866-67) di Silvestro Lega, Tramonto in Maremma (1900-05) di Giovanni Fattori, Bambino al sole (1869) di Giuseppe De Nittis, accanto a Alaide Banti sulla panchina (1870-75) di Cristiano Banti, Una visita al mio studio (1872) di Odoardo Borrani e Signore al pianoforte (1869) di Giovanni Boldini.
In mostra, dunque, anche opere a cavallo tra Ottocento e Novecento che raccontano come le conquiste formali e concettuali dei Macchiaioli furono recepite e sviluppate dalle successive generazioni di pittori.
Opere dai contenuti innovativi per l’epoca che vertono sulla potenza espressiva della luce, che rappresentano la punta di diamante di ricchissime raccolte di grandi mecenati di quel tempo, personaggi di straordinario interesse, accomunati dalla passione per la pittura, imprenditori e uomini d’affari innamorati della bellezza, senza i quali oggi non avremmo potuto ammirare questi capolavori.
Talvolta donate dagli autori stessi e più spesso acquistate per sostenere gli amici pittori in difficili momenti, queste opere - in grado di assecondare il piacere estetico e arricchire le più grandi quadrerie - sono diventate capolavori ricercati anche dai grandi intenditori d’arte dei nostri giorni.
Progettata per mettere a confronto fra loro i capi d’opera della "macchia" (1856-1868) naturalismo toscano (1865-1900), la mostra propone una narrazione visiva dalla nascita all’evolversi e al concludersi dell’esperienza artistica dei Macchiaioli e del loro entourage, dal 1856 fino al ‘900 inoltrato.
La mostra, curata da Tiziano Panconi, è realizzata dalla Fondazione Asti Musei in collaborazione con la Fondazione Cassa di Risparmio di Asti, la Regione Piemonte e il Comune di Asti, gode del contributo della Fondazione Cassa di Risparmio di Torino, è organizzata da Arthemisia, con la collaborazione del Museoarchives Giovanni Boldini Macchiaioli di Pistoia e vede come sponsor Gruppo Banca di Asti.
I Macchiaioli, artisti rivoluzionari
Il fallimento dei moti rivoluzionari del 1831 dette luogo a un’accesa e interminabile discussione sociale e politica sulle strategie sino a quel momento adottate per realizzare l’indipendenza e l’Unità d’Italia, generando un diffuso senso di frustrazione e un prepotente desiderio di rivalsa nella nuova generazione di artisti toscani, che ancor prima di impugnare le armi cominciarono la loro personale rivoluzione con l’arte, ritrovandosi, dal 1855-56, nelle sale del Caffè Michelangiolo di Firenze.
I termini soprattutto artistici di tale atteggiamento fortemente polemico furono avvertiti dai critici coevi, le cui parole tuonarono talvolta implacabili nelle recensioni alle mostre promotrici di Firenze, capitale artistica dei piccoli staterelli italici prima e dell’Italia poi.
La prima grande polemica pubblica ebbe luogo quando, il 23 maggio 1857, il direttore della Promotrice fiorentina, Augusto Casamorata, comunicò a Telemaco Signorini la mancata accettazione da parte della Commissione Artistica della Società Promotrice dei due dipinti Casa Goldoni e Ponte delle Pazienze a Venezia, accusati di accentuazioni chiaroscurali eccessive, rigettando di fatto i tipi stilistici peculiari della ‘macchia’ e accendendo un dibattito critico destinato a suscitare una eco nazionale, poi fondamento della fortuna critica riscossa dai Macchiaioli sino a oggi.
Nel 1861, Abbati, Altamura, Bechi e D’Ancona, insieme ad altri, contestarono pubblicamente il Giurì dell’Esposizione Nazionale di Firenze, rifiutando la prestigiosissima medaglia d’oro conferita a Vito D’Ancona, disconoscendo la professionalità dell’organo giudicante, considerato retrogrado e inadeguato al ruolo.
Questi pittori ‘belligeranti’, cui nel 1862 fu assegnato il nomignolo di Macchiaioli da un anonimo redattore della “Gazzetta del Popolo”, davano conto del tenore dei loro bollenti spiriti reazionari, alzando il tono della discussione e infiammando il clima di torpore intellettuale della Toscana granducale, anche attraverso gesta eclatanti come questa, che sensibilizzarono e stimolarono il dibattito critico.
La loro congenita inclinazione a preferire alla rarefazione dell’immagine la tenuta formale del disegno, la piena assimilazione del costruttivismo luministico macchiaiolo, composto sull’assioma luce-ombra, la convergenza, in Toscana, di soggettività tanto diverse fra loro, provenienti da ogni parte d’Italia, i viaggi d’erudizione compiuti da Parigi a Firenze e viceversa, portarono poi, dalla prima metà degli anni Sessanta alla precoce messa in opera di un linguaggio verista che evolse, man mano fino alla fine del secolo, in senso naturalista.
Sezione 1 – Il passaggio dal bozzetto al quadro di storia, alla “macchia”, attraverso l’osservazione del paesaggio
Intorno alla metà del XIX secolo la pittura di storia rappresentava l’identità nazionale, attraverso la memoria delle grandi gesta e dei personaggi del passato. Questo genere fu aggiornato dai Macchiaioli attraverso uno stile più vibrante di impronta “impressionistica”.
“...il guadagno facile e la facile rinomanza non dovevano essere l’obiettivo di un’arte nobile e onesta e che vi era più onestà e nobiltà a farsi coll’arte interpreti della vita contemporanea che rappresentare un passato storico con paludamenti accademici e con viete tradizioni scolastiche [...]. Nel 1859, tornato che fui dalla campagna di Lombardia, vidi accettati dalla Promotrice sette miei quadri di soggetti militari e sei venduti. Dipinse il D’Ancona in quel tempo una tela di quattro figure quasi al vero, rappresentandoci il Dante che incontra Beatrice accompagnata da due compagne, il fondo era l’Arno ai Tiratoi, laddove fu demolita una porta pittorica allo scalo del fiume, l’ora era il tramonto. Questo suo lavoro riuscì importante per le qualità che hanno sempre distinta la sua pittura, era sobrio d’intonazione, era largo e grandioso di esecuzione, e tutte le mezze figure al vero fatte prima o dopo da lui con tanta predilezione, ebbero tutte queste qualità di larghezza...”. Telemaco Signorini
Sezione 2 – Il chiaroscuro violento, l’intimismo della Scuola di Piagentina, la luce abbagliante di La Spezia
La cifra espressiva originalissima e le qualità innovative dei Macchiaioli risiedono nella capacità di slegarsi dallo svolgimento complessivo del racconto, analizzato per frammenti e soltanto dal punto di vista strettamente estetico-poetico. Brevi spaccati di paesaggio costituiscono le tessere e le molecole vitali del grande mosaico della natura, passati sotto la lente di ingrandimento dell’artista, che ne rileva la costruzione luministica più intima: “il chiaroscuro” che messo a nudo ed espoliato di ogni dettaglio accessorio, restituisce in tutta la sua primitiva eloquenza il carattere estetico e il senso più genuino e profondo del soggetto rappresentato. Un’ampia serie di luminosissime tavolette di piccole dimensioni dipinte en plein air costituiscono le prove più emblematiche del lessico empirico macchiaiolo, affermatosi quale baluardo avanguardistico dell’arte occidentale del decennio ’56-’66, quando questo gruppo di artisti indipendenti coniò una nuova cifra espressiva, cogliendo con spontanea immediatezza il timbro distintivo e strutturale (ma già all’epoca a Firenze si parlava di “impressione”) delle forme. Nella seconda metà degli anni Sessanta, la cosiddetta Scuola di Piagentina era «...Un luogo di campagna “umile e modesta”, come la ricorda Signorini, pianeggiante con orti, frutteti e ancora poche case; le colline celebri di Fiesole, San Miniato e Arcetri si scorgono solo in lontananza. Qui appena fuori dalle mura, uscendo da Porta alla Croce, [...] abitavano contadini occupati nella coltivazione degli ortaggi, e poche famiglie borghesi, non aristocratiche, che vivevano in villette, casali, assai diverse dalle dimore di campagna signorili...», nelle quali si respirava un clima di protezione e accogliente familiarità. Quasi in parallelo con l’esperienza di Castiglioncello, ricapitolazione sintetica della luce e della vitalità cromatica della “macchia”, a Piagentina le forzature chiaroscurali venivano sorprendentemente meno, aprendosi a tonalità più tenui, di pacato intimismo, recuperando in questo ufficio l’amore per l’interno di gusto borghese, di estrazione olandese o comunque nordeuropea, ma soprattutto ispirato alla vita reale, al convivio quieto della gente comune non sempre considerata nei momenti di maggiore responsabilità civile o di specificità sociale.
Sezione 3 – La poesia della natura. Il verismo e l’eleganza, fra esterni e interni
Le mostre promotrici di Firenze, maggior centro nazionale per l’arte dell’epoca, aperte nel 1845 e frequentate da un pubblico numerosissimo, erano una occasione irripetibile per la propagazione della pittura nella società civile e, attraverso l’autonomia di scelta e il libero mercato, decretavano l’oggettivo successo e la diffusione delle opere di un artista o di un indirizzo creativo specifico, contrapponendo così il gusto fortemente condizionato delle committenze pubbliche, prevalentemente ipotecate a prudenti citazioni dal passato dei pittori istituzionali, colme di educativo sentimentalismo nazionalista, ai generi nuovi del bozzetto storico e della pittura dal vero, di gusto rurale, alto borghese o di genere. Sebbene in questo nuovo contesto, non mancassero, né in Italia né in Francia, le fratture e le incomprensioni fra le frange realiste più avanguardiste, per definizione sempre avanti al gusto comune, e la platea delle esposizioni, impreparata a cogliere le novità dell’ultima ora, questo fu tuttavia il terreno su cui si produsse il costante progresso dell’arte toscana, che avanzò prima cercando di dissipare le pedanti consuetudini narrative accademiche imprimendo una svolta luministica ed essenzialista, poi recuperandone i caratteri, addolciti e naturalizzati, di circostanziato e morbito descrittivismo.
Sezione 4 – Il naturalismo, fra natura e paesaggio urbano
Secondo i precetti della filosofia naturalista, l’arte doveva sforzarsi di compiere una trascrizione del dato reale quanto più possibile oggettiva, effettuando quel necessario processo di analisi e di verifica, che era stato fino a quel momento appannaggio esclusivo della scienza. Gli artisti toscani di questa nuova età, non potendo più procedere per ulteriori sottrazioni descrittive – percorso la cui parabola ascendente è testimoniata da dipinti degli anni Sessanta come Tetti al sole di Sernesi o Il muro bianco di Cabianca o, soltanto per citare un’altra opera fondamentale, La rotonda dei Bagni Palmieri di Fattori – recuperavano quelle connotazioni narrative che qualificarono tutta l’arte del periodo. Come era avvenuto nella pittura regionale del passato, da Giotto a Leonardo in avanti e risentendo evidentemente di una tradizione così radicata nel retaggio culturale collettivo, i progressi del pensiero contemporaneo erano stati ricondotti alla limpida immediatezza delle austere forme chiuse, dove l’eccellenza del disegno imprimeva le cadenze a piombo degli abiti semplici delle contadine, ora assunte a vere e proprie icone della plurisecolare civiltà rurale e stagliate, come ne La vendemmiatrice di Faldi, nel controluce della rifrazione crepuscolare quale proiezione prospettica dell’idioma universale della natura.
Sezione 5 – Quiete e religiosa osservazione del Creato
Una profonda inquietudine pervade la percezione leghiana, ipotecata a una descrittività breve, solcata dalle cadenze malinconiche di quelle valli desolate e di quelle «...gabbrigiane [...], una razza di donne fiere [...] che portano in capo delle ceste enormi di mercanzia. Arse dal sole, disseccate dalla fatica...». Proprio come ai tempi di Piagentina, seppure con prescrizioni apparentemente opposte, le sillabazioni della sintassi leghiana vertono ancora su una spiccata perspicuità statuaria che, nei ripetuti assoli del ritratto, ricompone la complessa modulazione drammatica quale trascrizione di una esistenza infelice, ora più vicina all’aspro substrato courbettiano.
Sulla scorta delle ricognizioni visive condotte lungo il corso di tutta la sua carriera, Signorini - certamente con maggiore libertà per i declivi disabitati delle Cinque Terre, dell’Elba, di Pietramala o di Settignano, lì potendo, da sopra, facilmente dislocare il suo punto di vista gettato a volo d’uccello, spingendolo in alto o in basso, modificando sia perpendicolarmente che trasversalmente l’angolo prospettico – commisurava questa conoscenza quanto mai lucida dello spazio a una scatola ottica rigida, chiusa architettonicamente su tre lati.
Quando con diminuzioni tonali, quando con accentuazioni cromatiche piene e compatte, Cannicci rispondeva ancora alle prescrizioni quasi sottaciute del Purismo, in cui Martelli individuava «...un artista che dalla realtà moderna risale alle virtù dei preraffaelleschi [...] non per sforzo di imitazione ma per pura affinità di sentimenti...».
Sezione 6 – Fin de Siècle. Gli anni della maturità
Gli artisti della avanguardia toscana avviarono un’opera di modificazione dei principi e dei riferimenti culturali autoctoni che avevano animato la ben nota riforma macchiaiola; i pittori aderenti a questo speciale filone naturalista, forti degli altissimi contenuti qualitativi delle loro prerogative stilistiche, si confrontarono nella ricerca, non più esasperata dai violenti contrasti luminosi né dalle abbreviazioni formali neo-quattrocentesche della prima ora, con le innovazioni prodotte in ambito europeo dal Realisme e dal contemporaneo Impressionismo. Avvertirono la emotività letteraria dei romanzi sperimentali di Zola e Verga e l’aleggiare della nuova sensibilità naturalista, formando una vera e propria scuola di pensiero che andava plasmando una cifra stilistica del tutto originale e immediatamente riconoscibile, poggiata sulla severa tenuta formale del disegno e sulla puntuale ripresa dal vero dei valori luministici del soggetto, solitamente a sfondo naturalistico o sociale, attinente alla contemporaneità, alla vita in campagna o della media borghesia.
A Palazzo Mazzetti la mostra rappresenta un’occasione unica per scoprire i Macchiaioli, il movimento pittorico più importante dell’avanguardia italiana risorgimentale e il clima sociale che fa da sfondo alla vicenda di questi artisti, oltre ai temi, ai contenuti e ai personaggi di questo rivoluzionario movimento: si potranno ammirare opere quali Mamma con bambino (1866-67) di Silvestro Lega, Tramonto in Maremma (1900-05) di Giovanni Fattori, Bambino al sole (1869) di Giuseppe De Nittis, accanto a Alaide Banti sulla panchina (1870-75) di Cristiano Banti, Una visita al mio studio (1872) di Odoardo Borrani e Signore al pianoforte (1869) di Giovanni Boldini.
In mostra, dunque, anche opere a cavallo tra Ottocento e Novecento che raccontano come le conquiste formali e concettuali dei Macchiaioli furono recepite e sviluppate dalle successive generazioni di pittori.
Opere dai contenuti innovativi per l’epoca che vertono sulla potenza espressiva della luce, che rappresentano la punta di diamante di ricchissime raccolte di grandi mecenati di quel tempo, personaggi di straordinario interesse, accomunati dalla passione per la pittura, imprenditori e uomini d’affari innamorati della bellezza, senza i quali oggi non avremmo potuto ammirare questi capolavori.
Talvolta donate dagli autori stessi e più spesso acquistate per sostenere gli amici pittori in difficili momenti, queste opere - in grado di assecondare il piacere estetico e arricchire le più grandi quadrerie - sono diventate capolavori ricercati anche dai grandi intenditori d’arte dei nostri giorni.
Progettata per mettere a confronto fra loro i capi d’opera della "macchia" (1856-1868) naturalismo toscano (1865-1900), la mostra propone una narrazione visiva dalla nascita all’evolversi e al concludersi dell’esperienza artistica dei Macchiaioli e del loro entourage, dal 1856 fino al ‘900 inoltrato.
La mostra, curata da Tiziano Panconi, è realizzata dalla Fondazione Asti Musei in collaborazione con la Fondazione Cassa di Risparmio di Asti, la Regione Piemonte e il Comune di Asti, gode del contributo della Fondazione Cassa di Risparmio di Torino, è organizzata da Arthemisia, con la collaborazione del Museoarchives Giovanni Boldini Macchiaioli di Pistoia e vede come sponsor Gruppo Banca di Asti.
I Macchiaioli, artisti rivoluzionari
Il fallimento dei moti rivoluzionari del 1831 dette luogo a un’accesa e interminabile discussione sociale e politica sulle strategie sino a quel momento adottate per realizzare l’indipendenza e l’Unità d’Italia, generando un diffuso senso di frustrazione e un prepotente desiderio di rivalsa nella nuova generazione di artisti toscani, che ancor prima di impugnare le armi cominciarono la loro personale rivoluzione con l’arte, ritrovandosi, dal 1855-56, nelle sale del Caffè Michelangiolo di Firenze.
I termini soprattutto artistici di tale atteggiamento fortemente polemico furono avvertiti dai critici coevi, le cui parole tuonarono talvolta implacabili nelle recensioni alle mostre promotrici di Firenze, capitale artistica dei piccoli staterelli italici prima e dell’Italia poi.
La prima grande polemica pubblica ebbe luogo quando, il 23 maggio 1857, il direttore della Promotrice fiorentina, Augusto Casamorata, comunicò a Telemaco Signorini la mancata accettazione da parte della Commissione Artistica della Società Promotrice dei due dipinti Casa Goldoni e Ponte delle Pazienze a Venezia, accusati di accentuazioni chiaroscurali eccessive, rigettando di fatto i tipi stilistici peculiari della ‘macchia’ e accendendo un dibattito critico destinato a suscitare una eco nazionale, poi fondamento della fortuna critica riscossa dai Macchiaioli sino a oggi.
Nel 1861, Abbati, Altamura, Bechi e D’Ancona, insieme ad altri, contestarono pubblicamente il Giurì dell’Esposizione Nazionale di Firenze, rifiutando la prestigiosissima medaglia d’oro conferita a Vito D’Ancona, disconoscendo la professionalità dell’organo giudicante, considerato retrogrado e inadeguato al ruolo.
Questi pittori ‘belligeranti’, cui nel 1862 fu assegnato il nomignolo di Macchiaioli da un anonimo redattore della “Gazzetta del Popolo”, davano conto del tenore dei loro bollenti spiriti reazionari, alzando il tono della discussione e infiammando il clima di torpore intellettuale della Toscana granducale, anche attraverso gesta eclatanti come questa, che sensibilizzarono e stimolarono il dibattito critico.
La loro congenita inclinazione a preferire alla rarefazione dell’immagine la tenuta formale del disegno, la piena assimilazione del costruttivismo luministico macchiaiolo, composto sull’assioma luce-ombra, la convergenza, in Toscana, di soggettività tanto diverse fra loro, provenienti da ogni parte d’Italia, i viaggi d’erudizione compiuti da Parigi a Firenze e viceversa, portarono poi, dalla prima metà degli anni Sessanta alla precoce messa in opera di un linguaggio verista che evolse, man mano fino alla fine del secolo, in senso naturalista.
Sezione 1 – Il passaggio dal bozzetto al quadro di storia, alla “macchia”, attraverso l’osservazione del paesaggio
Intorno alla metà del XIX secolo la pittura di storia rappresentava l’identità nazionale, attraverso la memoria delle grandi gesta e dei personaggi del passato. Questo genere fu aggiornato dai Macchiaioli attraverso uno stile più vibrante di impronta “impressionistica”.
“...il guadagno facile e la facile rinomanza non dovevano essere l’obiettivo di un’arte nobile e onesta e che vi era più onestà e nobiltà a farsi coll’arte interpreti della vita contemporanea che rappresentare un passato storico con paludamenti accademici e con viete tradizioni scolastiche [...]. Nel 1859, tornato che fui dalla campagna di Lombardia, vidi accettati dalla Promotrice sette miei quadri di soggetti militari e sei venduti. Dipinse il D’Ancona in quel tempo una tela di quattro figure quasi al vero, rappresentandoci il Dante che incontra Beatrice accompagnata da due compagne, il fondo era l’Arno ai Tiratoi, laddove fu demolita una porta pittorica allo scalo del fiume, l’ora era il tramonto. Questo suo lavoro riuscì importante per le qualità che hanno sempre distinta la sua pittura, era sobrio d’intonazione, era largo e grandioso di esecuzione, e tutte le mezze figure al vero fatte prima o dopo da lui con tanta predilezione, ebbero tutte queste qualità di larghezza...”. Telemaco Signorini
Sezione 2 – Il chiaroscuro violento, l’intimismo della Scuola di Piagentina, la luce abbagliante di La Spezia
La cifra espressiva originalissima e le qualità innovative dei Macchiaioli risiedono nella capacità di slegarsi dallo svolgimento complessivo del racconto, analizzato per frammenti e soltanto dal punto di vista strettamente estetico-poetico. Brevi spaccati di paesaggio costituiscono le tessere e le molecole vitali del grande mosaico della natura, passati sotto la lente di ingrandimento dell’artista, che ne rileva la costruzione luministica più intima: “il chiaroscuro” che messo a nudo ed espoliato di ogni dettaglio accessorio, restituisce in tutta la sua primitiva eloquenza il carattere estetico e il senso più genuino e profondo del soggetto rappresentato. Un’ampia serie di luminosissime tavolette di piccole dimensioni dipinte en plein air costituiscono le prove più emblematiche del lessico empirico macchiaiolo, affermatosi quale baluardo avanguardistico dell’arte occidentale del decennio ’56-’66, quando questo gruppo di artisti indipendenti coniò una nuova cifra espressiva, cogliendo con spontanea immediatezza il timbro distintivo e strutturale (ma già all’epoca a Firenze si parlava di “impressione”) delle forme. Nella seconda metà degli anni Sessanta, la cosiddetta Scuola di Piagentina era «...Un luogo di campagna “umile e modesta”, come la ricorda Signorini, pianeggiante con orti, frutteti e ancora poche case; le colline celebri di Fiesole, San Miniato e Arcetri si scorgono solo in lontananza. Qui appena fuori dalle mura, uscendo da Porta alla Croce, [...] abitavano contadini occupati nella coltivazione degli ortaggi, e poche famiglie borghesi, non aristocratiche, che vivevano in villette, casali, assai diverse dalle dimore di campagna signorili...», nelle quali si respirava un clima di protezione e accogliente familiarità. Quasi in parallelo con l’esperienza di Castiglioncello, ricapitolazione sintetica della luce e della vitalità cromatica della “macchia”, a Piagentina le forzature chiaroscurali venivano sorprendentemente meno, aprendosi a tonalità più tenui, di pacato intimismo, recuperando in questo ufficio l’amore per l’interno di gusto borghese, di estrazione olandese o comunque nordeuropea, ma soprattutto ispirato alla vita reale, al convivio quieto della gente comune non sempre considerata nei momenti di maggiore responsabilità civile o di specificità sociale.
Sezione 3 – La poesia della natura. Il verismo e l’eleganza, fra esterni e interni
Le mostre promotrici di Firenze, maggior centro nazionale per l’arte dell’epoca, aperte nel 1845 e frequentate da un pubblico numerosissimo, erano una occasione irripetibile per la propagazione della pittura nella società civile e, attraverso l’autonomia di scelta e il libero mercato, decretavano l’oggettivo successo e la diffusione delle opere di un artista o di un indirizzo creativo specifico, contrapponendo così il gusto fortemente condizionato delle committenze pubbliche, prevalentemente ipotecate a prudenti citazioni dal passato dei pittori istituzionali, colme di educativo sentimentalismo nazionalista, ai generi nuovi del bozzetto storico e della pittura dal vero, di gusto rurale, alto borghese o di genere. Sebbene in questo nuovo contesto, non mancassero, né in Italia né in Francia, le fratture e le incomprensioni fra le frange realiste più avanguardiste, per definizione sempre avanti al gusto comune, e la platea delle esposizioni, impreparata a cogliere le novità dell’ultima ora, questo fu tuttavia il terreno su cui si produsse il costante progresso dell’arte toscana, che avanzò prima cercando di dissipare le pedanti consuetudini narrative accademiche imprimendo una svolta luministica ed essenzialista, poi recuperandone i caratteri, addolciti e naturalizzati, di circostanziato e morbito descrittivismo.
Sezione 4 – Il naturalismo, fra natura e paesaggio urbano
Secondo i precetti della filosofia naturalista, l’arte doveva sforzarsi di compiere una trascrizione del dato reale quanto più possibile oggettiva, effettuando quel necessario processo di analisi e di verifica, che era stato fino a quel momento appannaggio esclusivo della scienza. Gli artisti toscani di questa nuova età, non potendo più procedere per ulteriori sottrazioni descrittive – percorso la cui parabola ascendente è testimoniata da dipinti degli anni Sessanta come Tetti al sole di Sernesi o Il muro bianco di Cabianca o, soltanto per citare un’altra opera fondamentale, La rotonda dei Bagni Palmieri di Fattori – recuperavano quelle connotazioni narrative che qualificarono tutta l’arte del periodo. Come era avvenuto nella pittura regionale del passato, da Giotto a Leonardo in avanti e risentendo evidentemente di una tradizione così radicata nel retaggio culturale collettivo, i progressi del pensiero contemporaneo erano stati ricondotti alla limpida immediatezza delle austere forme chiuse, dove l’eccellenza del disegno imprimeva le cadenze a piombo degli abiti semplici delle contadine, ora assunte a vere e proprie icone della plurisecolare civiltà rurale e stagliate, come ne La vendemmiatrice di Faldi, nel controluce della rifrazione crepuscolare quale proiezione prospettica dell’idioma universale della natura.
Sezione 5 – Quiete e religiosa osservazione del Creato
Una profonda inquietudine pervade la percezione leghiana, ipotecata a una descrittività breve, solcata dalle cadenze malinconiche di quelle valli desolate e di quelle «...gabbrigiane [...], una razza di donne fiere [...] che portano in capo delle ceste enormi di mercanzia. Arse dal sole, disseccate dalla fatica...». Proprio come ai tempi di Piagentina, seppure con prescrizioni apparentemente opposte, le sillabazioni della sintassi leghiana vertono ancora su una spiccata perspicuità statuaria che, nei ripetuti assoli del ritratto, ricompone la complessa modulazione drammatica quale trascrizione di una esistenza infelice, ora più vicina all’aspro substrato courbettiano.
Sulla scorta delle ricognizioni visive condotte lungo il corso di tutta la sua carriera, Signorini - certamente con maggiore libertà per i declivi disabitati delle Cinque Terre, dell’Elba, di Pietramala o di Settignano, lì potendo, da sopra, facilmente dislocare il suo punto di vista gettato a volo d’uccello, spingendolo in alto o in basso, modificando sia perpendicolarmente che trasversalmente l’angolo prospettico – commisurava questa conoscenza quanto mai lucida dello spazio a una scatola ottica rigida, chiusa architettonicamente su tre lati.
Quando con diminuzioni tonali, quando con accentuazioni cromatiche piene e compatte, Cannicci rispondeva ancora alle prescrizioni quasi sottaciute del Purismo, in cui Martelli individuava «...un artista che dalla realtà moderna risale alle virtù dei preraffaelleschi [...] non per sforzo di imitazione ma per pura affinità di sentimenti...».
Sezione 6 – Fin de Siècle. Gli anni della maturità
Gli artisti della avanguardia toscana avviarono un’opera di modificazione dei principi e dei riferimenti culturali autoctoni che avevano animato la ben nota riforma macchiaiola; i pittori aderenti a questo speciale filone naturalista, forti degli altissimi contenuti qualitativi delle loro prerogative stilistiche, si confrontarono nella ricerca, non più esasperata dai violenti contrasti luminosi né dalle abbreviazioni formali neo-quattrocentesche della prima ora, con le innovazioni prodotte in ambito europeo dal Realisme e dal contemporaneo Impressionismo. Avvertirono la emotività letteraria dei romanzi sperimentali di Zola e Verga e l’aleggiare della nuova sensibilità naturalista, formando una vera e propria scuola di pensiero che andava plasmando una cifra stilistica del tutto originale e immediatamente riconoscibile, poggiata sulla severa tenuta formale del disegno e sulla puntuale ripresa dal vero dei valori luministici del soggetto, solitamente a sfondo naturalistico o sociale, attinente alla contemporaneità, alla vita in campagna o della media borghesia.
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