Feliscatus. Muri e Porte
Dal 18 Gennaio 2015 al 25 Gennaio 2015
Tortona | Alessandria
Luogo: 11Dreams Art Gallery
Indirizzo: via Rinarolo 11/c
Orari: tutti i giorni 16-19
Telefono per informazioni: +39 333 6033006
E-Mail info: info@11dreams.it
Sito ufficiale: http://www.11dreams.it
Il muro, i muri. Protegge, catturano.
The wall. Più indietro nel tempo, ma anche più avanti, Thick as a brick; a metà strada, ho visto gente scaldarsi con mattoni resi roventi da stufe di ghisa. “Molti anni dopo…”.
Il rimbalzo delle voci, da muro a muro, da pittura a pittura di Goya, si perse lungo il tragitto; le carambole di suoni e rumori, che colpivano soltanto le pareti della Quinta del Sordo, disertavano le telate ricostruzioni del Prado, le sentivo assenti in quelle sale di un museo paesano e domestico, di passaggio – solo quello, con qualche sosta per l’osservazione più o meno interessata – e scarsamente illuminate.
Il trasferimento delle pitture astratte, o prove colori, già alle pareti e sulla porta dello studio di Reece Mews, fa convivere, su questi muri di carta, l’inconciliabile: Bacon e Rothko.
Muri, muri. Il muro di Aureliano Buendía, allorché ricorda il momento della scoperta del ghiaccio. Tanti muri bianchi e neri, uno per tutti quello del Politecnico, su cui sono incollate le sagome bidimensionali di Guernica, come ranciati pizzini di bacheca d’aprile e giallognoli statini d’esame. Il muro di Berlino nell’anno delle conchiglie, il muro che ridusse alla metà gli spazi espositivi della galleria L’isola, di Bellino, nell’89, l’anno dei tessuti e delle conchiglie; i muri d’ossa calcinate intagliati con blandi fregi e vigorosi graffiti. Un damasco di semitrasparenti tocchi fa da muro a Madame Moitessier, origina in sincopati tratti quello levigato che comprime Marat riverso.
Il muro su cui l’azolo di copertura (quel che ne era rimasto), e una fantasmatica lana di crepe, disegnavano quella strana pecora che da anni, al mattino, sostava salutandomi con la sua stabile postura da monumento equestre, ombreggiata dal profilo dei canali. Chilometri quadri di pittura su muro con storie non vere, fatte apposta per convincere gli analfabeti e plagiare i colti letterati. Il muro di cartongesso di viale Michelangelo, pieno di liceali caricature, fatto a pezzi dopo breve tempo. Muri con mattoni di terra cruda e paglia, di terracotta ferrosa e ossidata. Muri vetusti del castello di Dracula. La scenografia sfondata dalla statua spettro nel Don Giovanni di Mozart-Forman. I muri che avrei dovuto progettare da architetto e quelli che non ho mai realizzato da architetto mancato.
Il muro inesistente al 3 maggio 1808, ancora non presente nel 1814.
Le giunture di malta tra i mattoni hanno, nei pastelli, striature lasciate dall’andamento orizzontale dei segni ben calcati, e diventano cicatrici con tracce di punti di sutura; o, più correttamente, ogni mattone è un dente e ognuno di essi ne contiene tanti altri disposti in due file, superiori e inferiori, serrate, ciascuna delle due a quella del mattone adiacente, da una prova di sofferenza o forza, davanti al mare, nel posto vacante lasciato dalle Isole che, un giorno dei tanti nei quali andavo dove di solito stavano, per constatarne la sobria e rassicurante presenza, non ho più trovato. Erano tornate in mare. Erano andate via.
Muri in prospettiva sul Modulo4 che mi riportava agli anni settanta.
Muri di recinzione con taglienti e policromi vetri rotti in cima.
“Devi sfondare il muro con la testa. Non è difficile sfondarlo perché è fatto di carta sottile. Ma il difficile è non farsi ingannare dal fatto che sulla carta tu sei già raffigurato, somigliantissimo, nell’atto di sfondare il muro. Saresti indotto a dire: ma non lo sfondo già di continuo?” (Franz Kafka).
Non dipingo né disegno fintantoché non trovo colori e forme corrispondenti a ciò che sono nel momento in cui, per necessità, piacere o noia mi accingo a farlo.
Quadri in cerca di chiodi, chiodi in cerca di muri. Quando la terra trema i muri crollano, con essi i quadri, i mattoni dipinti e chi dipinto è sui muri di mattoni di carta.
Ho avuto modo di soddisfare, in questi pastelli, con naturalezza, senza inciampi formali, il desiderio mai sopito di astrazione, disegnando, su fogli di 25 x 19 centimetri, parti di case: muri e porte. L’abitazione, l’idea di struttura, edificio, calcolata costruzione, in un modo o nell’altro, ha accompagnato la pittura che negli anni ho fatto, influendo fortemente in alcuni cicli di lavori. Forse, uno dei motivi di questa scelta è da individuare in un fatto che si verificò quando ero appena nato. Un pezzo di soffitto, staccatosi, cadde a pochi centimetri dalla mia testa; sono ancora qui, dopo sessant’anni, per quel pelo di distanza che impedì lo schiacciamento della mia fresca fresca e implume zucca. Ci sono due porte. La prima porta ha un’anta, sufficiente per entrare, la seconda ne ha due, necessarie per uscire. I muri sono costituiti da pietre, tufo giallo, tufo bianco, detriti tenuti insieme da malta, la stessa che tiene una parte dei muri di pietre, tufi e mattoni. Il resto è a secco.
Ancora muri. Quelli che, a e con ragione, sono stati abbattuti a Parigi per avere quella città ottocentesca che non si può fare a meno di amare.
E le porte, chiuse mi sovvengono; e tali rimangono. Periodicamente, queste, si presentavano come non desiderati nodi di svolta, ponendo una fine senza appello e un nuovo, ineluttabile inizio. Porte sbarrate, mute, al di là delle quali, il vocio e l’allegria che un tempo vi trovavano dimora, sentivo lentamente cadere come vischiosa pasta lungo le pareti. Colature picee che, d’altra parte, mantenevano intatto, anche dopo decenni, quell’odore inebriante, caldo e bituminoso, di cui l’aria d’estate era impregnata quando, finalmente, venivano livellate e coperte le mal sopportate pietre cuticcchie, così da avere la possibilità, nel suolo liscio, di giocare a pallone e tranquillamente andare in bicicletta.
Feliscatus
The wall. Più indietro nel tempo, ma anche più avanti, Thick as a brick; a metà strada, ho visto gente scaldarsi con mattoni resi roventi da stufe di ghisa. “Molti anni dopo…”.
Il rimbalzo delle voci, da muro a muro, da pittura a pittura di Goya, si perse lungo il tragitto; le carambole di suoni e rumori, che colpivano soltanto le pareti della Quinta del Sordo, disertavano le telate ricostruzioni del Prado, le sentivo assenti in quelle sale di un museo paesano e domestico, di passaggio – solo quello, con qualche sosta per l’osservazione più o meno interessata – e scarsamente illuminate.
Il trasferimento delle pitture astratte, o prove colori, già alle pareti e sulla porta dello studio di Reece Mews, fa convivere, su questi muri di carta, l’inconciliabile: Bacon e Rothko.
Muri, muri. Il muro di Aureliano Buendía, allorché ricorda il momento della scoperta del ghiaccio. Tanti muri bianchi e neri, uno per tutti quello del Politecnico, su cui sono incollate le sagome bidimensionali di Guernica, come ranciati pizzini di bacheca d’aprile e giallognoli statini d’esame. Il muro di Berlino nell’anno delle conchiglie, il muro che ridusse alla metà gli spazi espositivi della galleria L’isola, di Bellino, nell’89, l’anno dei tessuti e delle conchiglie; i muri d’ossa calcinate intagliati con blandi fregi e vigorosi graffiti. Un damasco di semitrasparenti tocchi fa da muro a Madame Moitessier, origina in sincopati tratti quello levigato che comprime Marat riverso.
Il muro su cui l’azolo di copertura (quel che ne era rimasto), e una fantasmatica lana di crepe, disegnavano quella strana pecora che da anni, al mattino, sostava salutandomi con la sua stabile postura da monumento equestre, ombreggiata dal profilo dei canali. Chilometri quadri di pittura su muro con storie non vere, fatte apposta per convincere gli analfabeti e plagiare i colti letterati. Il muro di cartongesso di viale Michelangelo, pieno di liceali caricature, fatto a pezzi dopo breve tempo. Muri con mattoni di terra cruda e paglia, di terracotta ferrosa e ossidata. Muri vetusti del castello di Dracula. La scenografia sfondata dalla statua spettro nel Don Giovanni di Mozart-Forman. I muri che avrei dovuto progettare da architetto e quelli che non ho mai realizzato da architetto mancato.
Il muro inesistente al 3 maggio 1808, ancora non presente nel 1814.
Le giunture di malta tra i mattoni hanno, nei pastelli, striature lasciate dall’andamento orizzontale dei segni ben calcati, e diventano cicatrici con tracce di punti di sutura; o, più correttamente, ogni mattone è un dente e ognuno di essi ne contiene tanti altri disposti in due file, superiori e inferiori, serrate, ciascuna delle due a quella del mattone adiacente, da una prova di sofferenza o forza, davanti al mare, nel posto vacante lasciato dalle Isole che, un giorno dei tanti nei quali andavo dove di solito stavano, per constatarne la sobria e rassicurante presenza, non ho più trovato. Erano tornate in mare. Erano andate via.
Muri in prospettiva sul Modulo4 che mi riportava agli anni settanta.
Muri di recinzione con taglienti e policromi vetri rotti in cima.
“Devi sfondare il muro con la testa. Non è difficile sfondarlo perché è fatto di carta sottile. Ma il difficile è non farsi ingannare dal fatto che sulla carta tu sei già raffigurato, somigliantissimo, nell’atto di sfondare il muro. Saresti indotto a dire: ma non lo sfondo già di continuo?” (Franz Kafka).
Non dipingo né disegno fintantoché non trovo colori e forme corrispondenti a ciò che sono nel momento in cui, per necessità, piacere o noia mi accingo a farlo.
Quadri in cerca di chiodi, chiodi in cerca di muri. Quando la terra trema i muri crollano, con essi i quadri, i mattoni dipinti e chi dipinto è sui muri di mattoni di carta.
Ho avuto modo di soddisfare, in questi pastelli, con naturalezza, senza inciampi formali, il desiderio mai sopito di astrazione, disegnando, su fogli di 25 x 19 centimetri, parti di case: muri e porte. L’abitazione, l’idea di struttura, edificio, calcolata costruzione, in un modo o nell’altro, ha accompagnato la pittura che negli anni ho fatto, influendo fortemente in alcuni cicli di lavori. Forse, uno dei motivi di questa scelta è da individuare in un fatto che si verificò quando ero appena nato. Un pezzo di soffitto, staccatosi, cadde a pochi centimetri dalla mia testa; sono ancora qui, dopo sessant’anni, per quel pelo di distanza che impedì lo schiacciamento della mia fresca fresca e implume zucca. Ci sono due porte. La prima porta ha un’anta, sufficiente per entrare, la seconda ne ha due, necessarie per uscire. I muri sono costituiti da pietre, tufo giallo, tufo bianco, detriti tenuti insieme da malta, la stessa che tiene una parte dei muri di pietre, tufi e mattoni. Il resto è a secco.
Ancora muri. Quelli che, a e con ragione, sono stati abbattuti a Parigi per avere quella città ottocentesca che non si può fare a meno di amare.
E le porte, chiuse mi sovvengono; e tali rimangono. Periodicamente, queste, si presentavano come non desiderati nodi di svolta, ponendo una fine senza appello e un nuovo, ineluttabile inizio. Porte sbarrate, mute, al di là delle quali, il vocio e l’allegria che un tempo vi trovavano dimora, sentivo lentamente cadere come vischiosa pasta lungo le pareti. Colature picee che, d’altra parte, mantenevano intatto, anche dopo decenni, quell’odore inebriante, caldo e bituminoso, di cui l’aria d’estate era impregnata quando, finalmente, venivano livellate e coperte le mal sopportate pietre cuticcchie, così da avere la possibilità, nel suolo liscio, di giocare a pallone e tranquillamente andare in bicicletta.
Feliscatus
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