Dal 25 al 27 febbraio al cinema “Tintoretto. Un ribelle a Venezia”
Tintoretto “il furioso”: storia di una rockstar col pennello
Immagine tratta dal film Tintoretto – Un Ribelle a Venezia, Scuola Grande di San Rocco, Venezia | © Sky Italia s.r.l. | Courtesy of Sky Arts Production Hub 2019
Francesca Grego
04/02/2019
Descrivere l’arte di Tintoretto “sarebbe un volere svuotare con picciol’urna il Mare”, scrive il biografo seicentesco Marco Boschini. Eccessivo, audace, ambizioso e visionario, con le sue invenzioni il maestro veneziano ha rivoluzionato la pittura del Rinascimento e narrato storie su storie, personaggi su personaggi in “moltitudini che nessuno riesce a contare - senza mai fermarsi, senza mai ripetersi - nuvole e vortici e fuoco e infinità di terra e mare”, lasciando stupefatti anche visitatori esperti come il vittoriano John Ruskin.
Ma come poté Jacopo Robusti, figlio di un tintore di stoffe, diventare Tintoretto, “il più terribile cervello che mai abbia avuto la pittura” secondo il contemporaneo Giorgio Vasari?
La strada non fu certo agevole. A metterla a fuoco al cinema dal 25 al 27 Febbraio sarà Tintoretto. Un ribelle a Venezia, l’ultimo film evento di Sky Arte distribuito da Nexo Digital, ideato e scritto da Melania Mazzucco e narrato da Stefano Accorsi con la partecipazione straordinaria di Peter Greenaway.
Mentre nel mondo si festeggiano i 500 anni dalla nascita dell’artista, proviamo a seguirlo dalla bottega del padre Giambattista, dove da bambino decorava i muri con i colori per la seta, ai fasti del Palazzo del Doge, emblema della sua Venezia.
Non abbiamo fonti dirette sulla vita di Tintoretto: le notizie più fresche ci arrivano da Carlo Ridolfi, che ne compilò la biografia a partire dai racconti del figlio Domenico. Sappiamo che, vista la propensione del ragazzo per il disegno, il padre lo mandò a bottega dal grande Tiziano. E già a 12 anni Jacopo fece scintille: vuoi per il carattere ribelle, vuoi per il timore di coltivare un pericoloso rivale, il maestro lo fece cacciare dopo solo pochi giorni di apprendistato.
E qui la vicenda si avvolge nel mistero: non si sa in quale bottega ebbe modo di crescere il talento di Tintoretto, che nove anni dopo ritroveremo “maestro nel Campo di San Cassian”, il che vuol dire proprietario di uno studio tutto suo. Su una parete del laboratorio ha scritto “Il disegno di Michel Angelo e ‘l colorito di Tiziano”, una frase che da sola spiega come nella sua pittura pervengano a una sintesi originale due tradizioni: quella veneta, basata su sapienti alchimie di luce e colore, e quella tosco-romana costruita intorno al disegno, alla prospettiva e ai volumi.
Ma ancora più chiara è l’ambizione che divora il giovane artista: per accaparrarsi le commissioni più prestigiose Tintoretto non si farà scrupolo di ricorrere alla concorrenza sleale, al dumping, perfino alla minaccia fisica e alla contraffazione, dipingendo a basso prezzo “alla maniera” di colleghi sulla cresta dell’onda.
Con implacabile energia, temerario talento e un po’ di fortuna riesce a farsi largo nella competitiva Venezia dominata da Tiziano: a 23 anni ottiene di ornare con i quadri delle Metamorfosi di Ovidio la residenza di Vettor Pisani presso San Paterniàn e alcuni anni più tardi registra i primi grandi successi con le imponenti tele della Scuola Grande di San Marco - prima tra tutte il Miracolo dello schiavo - subito ammirate da Pietro Aretino.
Per molti è un pittore stravagante, autore di “capricciose invenzioni e strani ghiribizzi senza disegno” (Vasari). Per tutti è “il Furioso” per il carattere impetuoso e il tratto drammatico che ne contraddistingue i dipinti. Ma a farsi strada attraverso il suo pennello è una lingua nuova, che anticipa il gran teatro del Barocco: azzardi compositivi e prospettici (la famosa “scorciatura”), inebrianti effetti di luce, un uso sofisticato del colore steso in rapide pennellate danno sfogo a un sentimento prorompente su tele di incredibile potenza narrativa. Quattro secoli più tardi Jean-Paul Sartre parlerà di Tintoretto come del “primo cineasta della storia”.
Jacopo reinventa le storie sacre in innumerevoli opere per le chiese veneziane, ma non disdegna soggetti profani e sensuali, come Marte e Venere sorpresi da Vulcano. E usa i ritratti per agganciare committenti facoltosi, facendosi aiutare dai figli Domenico e Marietta, quest’ultima artista di rinomato talento. I suoi sono ritratti sobri e tuttavia penetranti, lontani dalla teatralità delle composizioni religiose e mitologiche.
Nascono dal genio ma anche da un’ingegnosa organizzazione del lavoro che concorre alla leggendaria “prestezza” del maestro: per ridurre al massimo i tempi di posa, Tintoretto esegue rapidi studi dal vero da rielaborare per il dipinto finale e da riutilizzare in futuro. Nello studio il modello trova già la tela pronta, con il caratteristico fondo scuro, e la figura abbozzata. Per le rifiniture e i panneggi delle vesti, invece, si useranno manichini collocati in appositi “teatrini” di cartone, illuminati da candele posizionate in punti strategici.
Ma l’apice della fama per Tintoretto arriva con i cicli della Scuola Grande di San Rocco: un autentico poema figurato realizzato in tre riprese e composto da circa 50 immensi teleri che narrano le storie del Santo, la Passione di Cristo ed episodi tratti dalla Bibbia. Bruciante è l’invidia di Tiziano, che ha tentato di interporsi tra le mire del collega e i piani della confraternita responsabile del progetto. Seppur “tra scalpore e malcontenti”, il Tintor ottiene l’incarico desiderato fin dagli albori della sua carriera presentando al concorso, invece dei consueti disegni preparatori, un dipinto già bell’e fatto perché “quello era il suo modo di disegnare”.
Nemmeno la peste, che si porta via Tiziano con il figlio Orazio, riesce ad allontanarlo dalla Scuola Grande di San Rocco e dalla Serenissima, con cui l’artista intrattiene da sempre un rapporto ambivalente, ma fortissimo.
“Tintoretto è Venezia anche se non dipinge Venezia”, scriverà Sartre. E così in una laguna cupa e spettrale, tra i cadaveri che giacciono lungo i canali, il Tintor completerà quella che può essere definita un’opera totale, quando neppure Michelangelo con la Cappella Sistina poteva vantarsi di aver firmato ogni dipinto all’interno di un edificio.
Ma nemmeno questo riuscirà a placarlo. Fino a tarda età lavorerà ancora a grandi progetti, dai teleri per il coro della Madonna dell’Orto a San Giorgio Maggiore, dai cartoni per i mosaici di San Marco alle decorazioni per la Libreria Sansoviniana e per il Palazzo Ducale, devastato da un incendio all’indomani della peste.
Morto l’antico rivale, a dargli filo da torcere è rimasto Paolo Caliari, noto come il Veronese: più giovane di dieci anni e di buon carattere, in laguna ha bruciato le tappe anche grazie alla protezione di Tiziano, affermandosi come interprete di quei valori umanistici, di quei fermenti intellettuali e civili che in piena Controriforma fanno ancora di Venezia la società più libera e culturalmente avanzata della penisola.
Nonostante il declino delle rotte mediterranee e le sconfitte contro i turchi e la Lega di Cambrai, la Serenissima continua a investire nell’arte: in città c’è dunque spazio per due big del pennello che si sfideranno fino alla morte. Una competizione destinata a proseguire nei secoli per vedere collezionisti e musei di tutto il mondo contendersi le tele con cui tre maestri assoluti (se includiamo anche Tiziano) si sono dati battaglia interpretando a proprio modo i medesimi temi: dalla Cena in Emmaus a voluttuose bellezze allo specchio, che si tratti di Venere o della scena biblica di Susanna e i vecchioni.
E se nel secolo successivo a mettere a frutto l’eredità di Tintoretto sarà il Barocco di Pieter Paul Rubens, El Greco e Diego Velàsquez, più tardi il Furioso troverà ferventi ammiratori in Édouard Manet e Paul Cézanne. Per arrivare a David Bowie, che nel 1987 ne acquistò una pala d’altare - L’annunciazione del martirio a Santa Caterina d’Alessandria - e non volle più separarsene. Oltre alla qualità artistica dell’opera, ad attrarre il Duca Bianco era stata una caratteristica unica del Tintor: quella di aver “costruito la sua carriera come una proto-rockstar”.
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La strada non fu certo agevole. A metterla a fuoco al cinema dal 25 al 27 Febbraio sarà Tintoretto. Un ribelle a Venezia, l’ultimo film evento di Sky Arte distribuito da Nexo Digital, ideato e scritto da Melania Mazzucco e narrato da Stefano Accorsi con la partecipazione straordinaria di Peter Greenaway.
Mentre nel mondo si festeggiano i 500 anni dalla nascita dell’artista, proviamo a seguirlo dalla bottega del padre Giambattista, dove da bambino decorava i muri con i colori per la seta, ai fasti del Palazzo del Doge, emblema della sua Venezia.
Non abbiamo fonti dirette sulla vita di Tintoretto: le notizie più fresche ci arrivano da Carlo Ridolfi, che ne compilò la biografia a partire dai racconti del figlio Domenico. Sappiamo che, vista la propensione del ragazzo per il disegno, il padre lo mandò a bottega dal grande Tiziano. E già a 12 anni Jacopo fece scintille: vuoi per il carattere ribelle, vuoi per il timore di coltivare un pericoloso rivale, il maestro lo fece cacciare dopo solo pochi giorni di apprendistato.
E qui la vicenda si avvolge nel mistero: non si sa in quale bottega ebbe modo di crescere il talento di Tintoretto, che nove anni dopo ritroveremo “maestro nel Campo di San Cassian”, il che vuol dire proprietario di uno studio tutto suo. Su una parete del laboratorio ha scritto “Il disegno di Michel Angelo e ‘l colorito di Tiziano”, una frase che da sola spiega come nella sua pittura pervengano a una sintesi originale due tradizioni: quella veneta, basata su sapienti alchimie di luce e colore, e quella tosco-romana costruita intorno al disegno, alla prospettiva e ai volumi.
Ma ancora più chiara è l’ambizione che divora il giovane artista: per accaparrarsi le commissioni più prestigiose Tintoretto non si farà scrupolo di ricorrere alla concorrenza sleale, al dumping, perfino alla minaccia fisica e alla contraffazione, dipingendo a basso prezzo “alla maniera” di colleghi sulla cresta dell’onda.
Con implacabile energia, temerario talento e un po’ di fortuna riesce a farsi largo nella competitiva Venezia dominata da Tiziano: a 23 anni ottiene di ornare con i quadri delle Metamorfosi di Ovidio la residenza di Vettor Pisani presso San Paterniàn e alcuni anni più tardi registra i primi grandi successi con le imponenti tele della Scuola Grande di San Marco - prima tra tutte il Miracolo dello schiavo - subito ammirate da Pietro Aretino.
Per molti è un pittore stravagante, autore di “capricciose invenzioni e strani ghiribizzi senza disegno” (Vasari). Per tutti è “il Furioso” per il carattere impetuoso e il tratto drammatico che ne contraddistingue i dipinti. Ma a farsi strada attraverso il suo pennello è una lingua nuova, che anticipa il gran teatro del Barocco: azzardi compositivi e prospettici (la famosa “scorciatura”), inebrianti effetti di luce, un uso sofisticato del colore steso in rapide pennellate danno sfogo a un sentimento prorompente su tele di incredibile potenza narrativa. Quattro secoli più tardi Jean-Paul Sartre parlerà di Tintoretto come del “primo cineasta della storia”.
Jacopo reinventa le storie sacre in innumerevoli opere per le chiese veneziane, ma non disdegna soggetti profani e sensuali, come Marte e Venere sorpresi da Vulcano. E usa i ritratti per agganciare committenti facoltosi, facendosi aiutare dai figli Domenico e Marietta, quest’ultima artista di rinomato talento. I suoi sono ritratti sobri e tuttavia penetranti, lontani dalla teatralità delle composizioni religiose e mitologiche.
Nascono dal genio ma anche da un’ingegnosa organizzazione del lavoro che concorre alla leggendaria “prestezza” del maestro: per ridurre al massimo i tempi di posa, Tintoretto esegue rapidi studi dal vero da rielaborare per il dipinto finale e da riutilizzare in futuro. Nello studio il modello trova già la tela pronta, con il caratteristico fondo scuro, e la figura abbozzata. Per le rifiniture e i panneggi delle vesti, invece, si useranno manichini collocati in appositi “teatrini” di cartone, illuminati da candele posizionate in punti strategici.
Ma l’apice della fama per Tintoretto arriva con i cicli della Scuola Grande di San Rocco: un autentico poema figurato realizzato in tre riprese e composto da circa 50 immensi teleri che narrano le storie del Santo, la Passione di Cristo ed episodi tratti dalla Bibbia. Bruciante è l’invidia di Tiziano, che ha tentato di interporsi tra le mire del collega e i piani della confraternita responsabile del progetto. Seppur “tra scalpore e malcontenti”, il Tintor ottiene l’incarico desiderato fin dagli albori della sua carriera presentando al concorso, invece dei consueti disegni preparatori, un dipinto già bell’e fatto perché “quello era il suo modo di disegnare”.
Nemmeno la peste, che si porta via Tiziano con il figlio Orazio, riesce ad allontanarlo dalla Scuola Grande di San Rocco e dalla Serenissima, con cui l’artista intrattiene da sempre un rapporto ambivalente, ma fortissimo.
“Tintoretto è Venezia anche se non dipinge Venezia”, scriverà Sartre. E così in una laguna cupa e spettrale, tra i cadaveri che giacciono lungo i canali, il Tintor completerà quella che può essere definita un’opera totale, quando neppure Michelangelo con la Cappella Sistina poteva vantarsi di aver firmato ogni dipinto all’interno di un edificio.
Ma nemmeno questo riuscirà a placarlo. Fino a tarda età lavorerà ancora a grandi progetti, dai teleri per il coro della Madonna dell’Orto a San Giorgio Maggiore, dai cartoni per i mosaici di San Marco alle decorazioni per la Libreria Sansoviniana e per il Palazzo Ducale, devastato da un incendio all’indomani della peste.
Morto l’antico rivale, a dargli filo da torcere è rimasto Paolo Caliari, noto come il Veronese: più giovane di dieci anni e di buon carattere, in laguna ha bruciato le tappe anche grazie alla protezione di Tiziano, affermandosi come interprete di quei valori umanistici, di quei fermenti intellettuali e civili che in piena Controriforma fanno ancora di Venezia la società più libera e culturalmente avanzata della penisola.
Nonostante il declino delle rotte mediterranee e le sconfitte contro i turchi e la Lega di Cambrai, la Serenissima continua a investire nell’arte: in città c’è dunque spazio per due big del pennello che si sfideranno fino alla morte. Una competizione destinata a proseguire nei secoli per vedere collezionisti e musei di tutto il mondo contendersi le tele con cui tre maestri assoluti (se includiamo anche Tiziano) si sono dati battaglia interpretando a proprio modo i medesimi temi: dalla Cena in Emmaus a voluttuose bellezze allo specchio, che si tratti di Venere o della scena biblica di Susanna e i vecchioni.
E se nel secolo successivo a mettere a frutto l’eredità di Tintoretto sarà il Barocco di Pieter Paul Rubens, El Greco e Diego Velàsquez, più tardi il Furioso troverà ferventi ammiratori in Édouard Manet e Paul Cézanne. Per arrivare a David Bowie, che nel 1987 ne acquistò una pala d’altare - L’annunciazione del martirio a Santa Caterina d’Alessandria - e non volle più separarsene. Oltre alla qualità artistica dell’opera, ad attrarre il Duca Bianco era stata una caratteristica unica del Tintor: quella di aver “costruito la sua carriera come una proto-rockstar”.
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