Giuseppe Scala. Noli me tangere
Dal 17 Marzo 2013 al 30 Marzo 2013
Siracusa
Luogo: Galleria Civica d'Arte Contemporanea Montevergini
Indirizzo: via S. Lucia alla Badia 1
Orari: da martedì a domenica 10-13/ 16-20
Telefono per informazioni: +39 0931 24902
E-Mail info: officemontevergini@libero.it
Sito ufficiale: http://www.comune.siracusa.it
E’ sempre complesso e affascinante l’approccio al mondo di Giuseppe Scala. Le discussioni con l’artista e la sua evoluzione negli anni mi permettono continue digressioni estetologi che possono essere di un certo interesse per gli amanti dell’arte. Quando iniziai ad occuparmi della complessa produzione di Giuseppe Scala mi colpì l’idea di una struttura energetica e dinamica invisibile ma percettibile, anzi in grado di toccare il fondo emotivo del flusso del nostro abitare – ad esempio, come nel caso di William Morris – mi colpì profondamente, anche perché da poco, tramite la rivalutazione o francamente la vera e propria riscoperta del futurismo si era potuta affermare e teorizzare l’“arte povera”, i cui autori in modi diversi inseguivano proprio il concetto di energia in ogni sua possibile variante (dalle leggi di Mario Merz, a quella psichico-formativa dell’alterità grazie allo “specchio” in Michelangelo Pistoletto, alla metafora degli elementi primi della vita – terra, acqua, fuoco, aria – metaforizzati nel gas di Kounellis, nel mare all’anilina di Pascali, nella pittura spray a mascherine di Schifano eccetera).
Lo stesso William Morris aveva raggiunto il suo scopo di strutturare e formare la emotività del committente sfuggendo «l’equivoco patetico », che il suo maestro John Ruskin aveva inventato per definire l’attribuzione di espressività (espressione percepita) nella natura. Solo all’uomo e al comportamento umano, era convinto Ruskin, spetterebbe l’espressione intesa come «dare l’impulso». Rudolph Arnheim insomma proponeva un concetto per definire la tristezza del salice piangente come «invenzione dell’empatia, dell’antropomorfismo, dell’animismo primitivo» (Arte e percezione visiva, 200418, p. 367): siamo già nel capitolo arnheimiano dedicato alla Espressione. Le prime critiche sui percorsi di Giuseppe Scala ero convinto anzi mi ero auto convinto del prevalere di dettami concettuali. Voglio dire che dimostravo la raffinata dominante della concettualità sulla visualità, utilizzando gli strumenti arnheimiani della ermeneutica ottico visuale e percettiva, che intimamente mi pareva restrittiva.
Infatti dobbiamo considerare che tutto quanto dell’arte contemporanea era stato fatto dopo l’impressionismo era qualcosa di non limitato alla pura visione, ma anzi orientato tutto al processo dinamico della mente e della psiche. Ma per rileggere Giuseppe Scala nella sua evoluzione tutto questo non bastava e bisognava sforzarsi di parlare di dematerialization of the art object tenendo anche conto di tecniche virtuose e forme ricercate.
Era un bel problema baloccarsi nel rapporto significante/ significato, diniego di qualsiasi parentela estrinseca tra l’apparenza percepita e l’espressione trasmessa. Giuseppe Scala è un artista con il cuore e la mente oltre l’ostacolo in una dimensione estetica personalissima e resistente alle mode che non si colloca in nessuno dei luoghi comuni dell’arte. La teoria della sopravvenienza estetica è l’unico modo che abbiamo per giustificare l’originalità e l’unità organica delle opere d’arte da un lato e la particolarità dei giudizi dall’altro.
Per quanto riguarda il primo aspetto, ha perfettamente ragione Levinson nel sostenere che il presunto deficit esplicativo della teoria della sopravvenienza è poca cosa se paragonato al ben più grave problema che le teorie riduzioniste o condition-governists devono affrontare, ovvero il loro non essere in grado di giustificare la particolare attrattiva che le proprietà estetiche suscitano in noi proprio in virtù della differenza ontologica rispetto alle proprietà non estetiche . Inoltre la teoria della sopravvenienza non fa che riconoscere l’esistenza di una ineliminabile componente di soggettività nei giudizi estetici; soggettività che è dovuta al fatto che la percezione delle proprietà estetiche è di percezione ampia, ovvero non limitata ai cinque sensi ma implicante la messa in gioco a vario livello delle nostre capacità sensibili, affettive, percettive e intellettive.
L’interazione tra tali facoltà è ovviamente assai più variabile e meno prevedibile della semplice percezione fenomenica ragion per cui Levinson, nel descrivere i principi che regolano la relazione di sopravvenienza, parla di principi fenomenico-estetici, e non semplicemente fenomenico-percettivi. Ciò non vuol dire peraltro che gli attributi estetici siano entità non reali, effimere o chimeriche: sin da bambini impariamo ad usarli in maniera del tutto naturale e acquisiamo gradualmente familiarità con essi. Inoltre la storia dell’arte ci dimostra che esistono oggetti sul cui carattere estetico non vi sono dubbi.
Giuseppe Scala si pone dunque come avanguardia nell’epoca della frammentazione, come collante tra tradizione e innovazione nell’età della dissoluzione, come portatore di idee nel momento della crisi senza sbocchi. Le sue ultime acquisizioni lo collocano in una strada autonoma ricca ovviamente di difficoltà ma portatrice di un’ermeneutica fondamentale e fondante per il terzo millennio.
Lo stesso William Morris aveva raggiunto il suo scopo di strutturare e formare la emotività del committente sfuggendo «l’equivoco patetico », che il suo maestro John Ruskin aveva inventato per definire l’attribuzione di espressività (espressione percepita) nella natura. Solo all’uomo e al comportamento umano, era convinto Ruskin, spetterebbe l’espressione intesa come «dare l’impulso». Rudolph Arnheim insomma proponeva un concetto per definire la tristezza del salice piangente come «invenzione dell’empatia, dell’antropomorfismo, dell’animismo primitivo» (Arte e percezione visiva, 200418, p. 367): siamo già nel capitolo arnheimiano dedicato alla Espressione. Le prime critiche sui percorsi di Giuseppe Scala ero convinto anzi mi ero auto convinto del prevalere di dettami concettuali. Voglio dire che dimostravo la raffinata dominante della concettualità sulla visualità, utilizzando gli strumenti arnheimiani della ermeneutica ottico visuale e percettiva, che intimamente mi pareva restrittiva.
Infatti dobbiamo considerare che tutto quanto dell’arte contemporanea era stato fatto dopo l’impressionismo era qualcosa di non limitato alla pura visione, ma anzi orientato tutto al processo dinamico della mente e della psiche. Ma per rileggere Giuseppe Scala nella sua evoluzione tutto questo non bastava e bisognava sforzarsi di parlare di dematerialization of the art object tenendo anche conto di tecniche virtuose e forme ricercate.
Era un bel problema baloccarsi nel rapporto significante/ significato, diniego di qualsiasi parentela estrinseca tra l’apparenza percepita e l’espressione trasmessa. Giuseppe Scala è un artista con il cuore e la mente oltre l’ostacolo in una dimensione estetica personalissima e resistente alle mode che non si colloca in nessuno dei luoghi comuni dell’arte. La teoria della sopravvenienza estetica è l’unico modo che abbiamo per giustificare l’originalità e l’unità organica delle opere d’arte da un lato e la particolarità dei giudizi dall’altro.
Per quanto riguarda il primo aspetto, ha perfettamente ragione Levinson nel sostenere che il presunto deficit esplicativo della teoria della sopravvenienza è poca cosa se paragonato al ben più grave problema che le teorie riduzioniste o condition-governists devono affrontare, ovvero il loro non essere in grado di giustificare la particolare attrattiva che le proprietà estetiche suscitano in noi proprio in virtù della differenza ontologica rispetto alle proprietà non estetiche . Inoltre la teoria della sopravvenienza non fa che riconoscere l’esistenza di una ineliminabile componente di soggettività nei giudizi estetici; soggettività che è dovuta al fatto che la percezione delle proprietà estetiche è di percezione ampia, ovvero non limitata ai cinque sensi ma implicante la messa in gioco a vario livello delle nostre capacità sensibili, affettive, percettive e intellettive.
L’interazione tra tali facoltà è ovviamente assai più variabile e meno prevedibile della semplice percezione fenomenica ragion per cui Levinson, nel descrivere i principi che regolano la relazione di sopravvenienza, parla di principi fenomenico-estetici, e non semplicemente fenomenico-percettivi. Ciò non vuol dire peraltro che gli attributi estetici siano entità non reali, effimere o chimeriche: sin da bambini impariamo ad usarli in maniera del tutto naturale e acquisiamo gradualmente familiarità con essi. Inoltre la storia dell’arte ci dimostra che esistono oggetti sul cui carattere estetico non vi sono dubbi.
Giuseppe Scala si pone dunque come avanguardia nell’epoca della frammentazione, come collante tra tradizione e innovazione nell’età della dissoluzione, come portatore di idee nel momento della crisi senza sbocchi. Le sue ultime acquisizioni lo collocano in una strada autonoma ricca ovviamente di difficoltà ma portatrice di un’ermeneutica fondamentale e fondante per il terzo millennio.
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