Ryuichi Sakamoto: Coda - la nostra recensione
L'arte di Ryuichi Sakamoto
courtesy © 2017 "Ryuichi Sakamoto: Coda"
Piero Muscarà
04/09/2017
Venezia - “Se non lo fai tu, lo farà Ennio”. Quando Bernardo Bertolucci telefonò a Ryuichi Sakamoto gli diede un ultimatum. Tre giorni di tempo per riscrivere la colonna sonora de Il tè nel deserto. Una missione impossibile, ma un destino a cui l’artista giapponese non poté sottrarsi.
La natura stessa della colonna sonora di un film, le istruzioni del regista, sono il limite, il perimetro, il playground entro cui muoversi. E la chiave per trovare la velocità in un uomo che pare votato alla lentezza di chi ama l’osservazione, la contemplazione.
E’ forse questo uno degli aneddoti che meglio descrive il destino di un grande artista del nostro tempo, Ryuichi Sakamoto nel lungometraggio diretto da Stephen Nomura Schible presentato fuori concorso a Venezia alla 74. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica e intitolato Ryuichi Sakamoto: Coda.
Considerato tra i pionieri della fusione tra la musica orientale e il sound elettronico occidentale, Ryuichi Sakamoto vanta una vastissima e assai varia discografia - oltre 70 titoli nei generi più disparati, dal pop alla bossa nova, dalla neoclassica all’elettronica.
Golden boy dell’elettro-pop giapponese che travolse i palcoscenici californiani con i suoi Yellow Music Orchestra alla fine degli anni ’70 e celebrato compositore di colonne cinematografiche indimenticabili come Furyo (Merry Christmas Mr. Lawrence, 1983, di Nagisa Ōshima), L’ultimo imperatore (The Last Emperor, 1987, di Bernardo Bertolucci), Il tè nel deserto (The Sheltering Sky, 1990, di Bernardo Bertolucci) o il più recente Revenant – Redivivo, 2015, di Alejandro González Iñárritu , Sakamoto vanta una lunga e prolifica carriera nel mondo della musica e delle arti. Quarant’anni di grande successo.
Ma Ryuichi Sakamoto: Coda non è un film che celebra la straordinaria carriera del compositore, artista, musicista e attore giapponese più conosciuto al mondo.
E’ un viaggio intimo che parte da Fukushima, con una lunga sequenza di immagini girate a mano, incerte, mosse. Frammenti interrotti, eppure così significativi. E quel pianoforte a coda, sommerso dallo tsunami che tutto ha devastato, eppure per miracolo si è salvato intatto alla tragedia. Uno strumento scordato – o per dirla con le parole di Sakamoto – che tende a riaccordarsi alla natura e quindi ad essere suono disturbante come le scene radioattive che si presentano irreali davanti agli occhi dello spettatore in questa lunga sequenza iniziale.
E poi la scoperta che il prolifico artista giapponese fa della malattia - inconcepibile, inimmaginabile, oscura. E la riemersione dagli inferi, grazie alla musica e a quel metodo - che poi è la capacità di stupirsi nell’ascoltare i suoni che animano il mondo di Ryuichi Sakamoto.
E’ tutta qui la storia di questo film documentario. Una parabola che vede l’artista incarnare i mali e le distopie del mondo - Fukushima ma anche l’11 settembre - anche nel proprio corpo. Film inquieto come le immagini solitarie che ne descrivono i ritmi di una intima quotidianità e il suo pubblico mettersi in gioco intorno e per le cause politiche in cui crede e di cui i media giapponesi e mondiali parlano a malavoglia.
E l’armonia. Chiave di guarigione per Sakamoto - che incredulo della propria mortalità - sa di poter trovare solo grazie alla musica.
Non messa in scena, fiera delle vanità. Ma ricerca, come un cacciatore che viaggia - dal Giappone a New York, dall’Africa all’Antartico - con i suoi strumenti per trovare quel suono originario, armonico, che meglio può esprimere l’anima di un pianeta e della natura che questo artista così unico e sensibile percepisce chiaramente.
E poi Sakamoto con i suoi strumenti, worn out tools, non tecnologie. Che sia un sofisticato registratore da immergere nelle acque primordiali di un ghiacciaio che si scioglie o un secchio di plastica calato in testa per amplificare il ticchettio della pioggia in un pomeriggio newyorkese è poco importante.
Il genio musicale appare sullo schermo un uomo solitario, semplice nella sua ricerca di perfezione. E così il film di Stephen Nomura Schible consegna al cinema un dietro le quinte inconsueto, un ritratto spiazzante di un grande artista così semplice, così umano.
La natura stessa della colonna sonora di un film, le istruzioni del regista, sono il limite, il perimetro, il playground entro cui muoversi. E la chiave per trovare la velocità in un uomo che pare votato alla lentezza di chi ama l’osservazione, la contemplazione.
E’ forse questo uno degli aneddoti che meglio descrive il destino di un grande artista del nostro tempo, Ryuichi Sakamoto nel lungometraggio diretto da Stephen Nomura Schible presentato fuori concorso a Venezia alla 74. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica e intitolato Ryuichi Sakamoto: Coda.
Considerato tra i pionieri della fusione tra la musica orientale e il sound elettronico occidentale, Ryuichi Sakamoto vanta una vastissima e assai varia discografia - oltre 70 titoli nei generi più disparati, dal pop alla bossa nova, dalla neoclassica all’elettronica.
Golden boy dell’elettro-pop giapponese che travolse i palcoscenici californiani con i suoi Yellow Music Orchestra alla fine degli anni ’70 e celebrato compositore di colonne cinematografiche indimenticabili come Furyo (Merry Christmas Mr. Lawrence, 1983, di Nagisa Ōshima), L’ultimo imperatore (The Last Emperor, 1987, di Bernardo Bertolucci), Il tè nel deserto (The Sheltering Sky, 1990, di Bernardo Bertolucci) o il più recente Revenant – Redivivo, 2015, di Alejandro González Iñárritu , Sakamoto vanta una lunga e prolifica carriera nel mondo della musica e delle arti. Quarant’anni di grande successo.
Ma Ryuichi Sakamoto: Coda non è un film che celebra la straordinaria carriera del compositore, artista, musicista e attore giapponese più conosciuto al mondo.
E’ un viaggio intimo che parte da Fukushima, con una lunga sequenza di immagini girate a mano, incerte, mosse. Frammenti interrotti, eppure così significativi. E quel pianoforte a coda, sommerso dallo tsunami che tutto ha devastato, eppure per miracolo si è salvato intatto alla tragedia. Uno strumento scordato – o per dirla con le parole di Sakamoto – che tende a riaccordarsi alla natura e quindi ad essere suono disturbante come le scene radioattive che si presentano irreali davanti agli occhi dello spettatore in questa lunga sequenza iniziale.
E poi la scoperta che il prolifico artista giapponese fa della malattia - inconcepibile, inimmaginabile, oscura. E la riemersione dagli inferi, grazie alla musica e a quel metodo - che poi è la capacità di stupirsi nell’ascoltare i suoni che animano il mondo di Ryuichi Sakamoto.
E’ tutta qui la storia di questo film documentario. Una parabola che vede l’artista incarnare i mali e le distopie del mondo - Fukushima ma anche l’11 settembre - anche nel proprio corpo. Film inquieto come le immagini solitarie che ne descrivono i ritmi di una intima quotidianità e il suo pubblico mettersi in gioco intorno e per le cause politiche in cui crede e di cui i media giapponesi e mondiali parlano a malavoglia.
E l’armonia. Chiave di guarigione per Sakamoto - che incredulo della propria mortalità - sa di poter trovare solo grazie alla musica.
Non messa in scena, fiera delle vanità. Ma ricerca, come un cacciatore che viaggia - dal Giappone a New York, dall’Africa all’Antartico - con i suoi strumenti per trovare quel suono originario, armonico, che meglio può esprimere l’anima di un pianeta e della natura che questo artista così unico e sensibile percepisce chiaramente.
E poi Sakamoto con i suoi strumenti, worn out tools, non tecnologie. Che sia un sofisticato registratore da immergere nelle acque primordiali di un ghiacciaio che si scioglie o un secchio di plastica calato in testa per amplificare il ticchettio della pioggia in un pomeriggio newyorkese è poco importante.
Il genio musicale appare sullo schermo un uomo solitario, semplice nella sua ricerca di perfezione. E così il film di Stephen Nomura Schible consegna al cinema un dietro le quinte inconsueto, un ritratto spiazzante di un grande artista così semplice, così umano.
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