Reportage dalla tavola rotonda ai Musei Vaticani
Il futuro dell'arte in un libro. Parlano i direttori di otto grandi musei internazionali
Preventive Conservation in Major Museums. Comparisons, reflections and strategies, a cura di Vittoria Cimino I Edizioni Musei Vaticani
Francesca Grego
26/03/2021
Roma - L’80% del patrimonio dei musei italiani non è adeguatamente documentato e questo ne impedisce la cura puntuale. Solo il 50% degli spazi espositivi e delle vetrine, inoltre, dispone di un impianto di climatizzazione, nuovo o obsoleto che sia. Non va meglio se dal Belpaese allarghiamo lo sguardo verso il mondo, dove secondo una recente indagine ICCROM il 95% delle opere d’arte si trova in un deposito e il 60% dei depositi versa in uno stato inaccettabile.
Ma qualcosa sta cambiando nel nostro modo di prenderci cura dei beni artistici e culturali, a giudicare da quanto emerso nel pomeriggio di ieri ai Musei Vaticani, dove i direttori di alcuni dei più grandi musei del pianeta si sono riuniti, complice la tecnologia, per festeggiare l’uscita del volume Preventive Conservation in Major Museums. Comparisons, reflections and strategies, e fare il punto sulla situazione. Con Barbara Jatta a fare gli onori di casa, hanno partecipato alla tavola rotonda, in presenza o in remoto, Mikhail Piotrovsky dell’Ermitage di San Pietroburgo, Max Hollein del Metropolitan Museum of Art di New York, Anne de Vaillance del Louvre di Parigi, Gabriele Finaldi della National Gallery di Londra, Laurent Salomé dello Château de Versailles, Miguel Falomir Faus del Museo del Prado, Christian Greco del Museo Egizio, nonché importanti studiosi come Antonio Paolucci, Salvatore Settis, Gaël de Guichen, Marco Ciatti, Bruno Zanardi. Insieme a loro, Massimo Osanna, Direttore Generale dei Musei del Ministero della Cultura, Padre Kevin Lixey, Direttore Internazionale dei Patrons of the Arts in the Vatican Museums, e Vittoria Cimino, responsabile dell’Ufficio del Conservatore dei Musei Vaticani e curatrice del volume per le Edizioni Musei Vaticani.
Il libro raccoglie gli atti di un memorabile convegno tenuto nel 2018 proprio ai Vaticani, in cui si discusse di possibili strategie condivise per una nuova e più efficace conservazione museale. Un paragone medico rende bene la questione: è meglio attendere che la malattia - ovvero il degrado delle opere d’arte - peggiori al punto da richiedere un intervento chirurgico (un restauro in grande stile) o ricorrere agli strumenti della medicina preventiva - monitoraggio assiduo, cure periodiche e mantenimento di condizioni che favoriscano la salute delle opere - evitando che la situazione precipiti? La seconda opzione sembra di gran lunga la più conveniente.
“La conservazione preventiva di un’intera sala museale costa meno del restauro di una sola opera”, ha spiegato il soprintendente dell’Opificio delle Pietre Dure Marco Ciatti. Basti pensare al caso Pompei, dove decenni di trascuratezza hanno portato a un’emergenza superata solo grazie allo stanziamento di 100 milioni di fondi europei. Dopo un tour de force di interventi straordinari, ha ricordato l’ex direttore del Parco Archeologico Massimo Osanna, si è tornati a pensare al futuro con serenità, impostando un progetto di manutenzione programmata a lungo termine.
I Musei Vaticani non stanno a guardare. “Preservare per condividere”, è il motto della direttrice Barbara Jatta, che in continuità con il predecessore Antonio Paolucci ha lavorato per sviluppare un piano di conservazione integrato ed efficiente. Fondamentale in questo senso è stata la rete di collaborazioni tessuta con grandi realtà museali internazionali, per la quale il convegno del 2018 ha rappresentato una tappa cruciale. In questi anni i Vaticani hanno raccolto le sfide della tecnologia applicandole al rilevamento, alla gestione e alla condivisione di dati vitali. Sensori miniaturizzati di ultima generazione progettati ad hoc per i musei del Papa controllano la composizione dell’aria, l’umidità relativa e la luce all’interno di una grande infrastruttura digitale, contribuendo a preservare un tesoro di 22 mila opere, più di 40 depositi e 7 chilometri di sale espositive e gallerie. Tra gli interventi più recenti, il sistema di climatizzazione delle Stanze di Raffaello, inaugurato a giugno 2020, e la nuova illuminazione della Sala VIII della Pinacoteca Vaticana, con gli arazzi e le tre pale dell’Urbinate (la Pala Oddi, la Madonna di Foligno e la Trasfigurazione).
Sulla stessa strada il Prado di Madrid che, spiega il direttore Falomir, lavora a una conservazione preventiva e sistematica già da 20 anni. Tra i punti chiave del programma di Falomir figurano gli innovativi allestimenti della collezione permanente, il cui fiore all’occhiello sono le sale del Tesoro del Delfìn inaugurate nel 2018, la presenza di protocolli di conservazione preventiva e di emergenza ben strutturati e il prestito a lungo termine a istituzioni estere di 3500 opere che non trovano spazio nel percorso espositivo di Madrid.
Se per i grandi musei la manutenzione programmata non è uno scherzo, che cosa succede alle periferie di quella immensa galassia diffusa sul territorio che è il patrimonio artistico italiano? “Il quadro non è confortante”, osserva Osanna tenendo conto dei risultati di un censimento appena condotto sullo stato dei beni e dei musei della penisola. D’altra parte, nelle intenzioni del suo iniziatore Giovanni Urbani, obiettivo della manutenzione programmata è prendersi cura della straordinaria varietà del patrimonio del Belpaese proprio in rapporto ai suoi legami con l’ambiente e il territorio. Che fare dunque? Come avvenne per Pompei, spiega Osanna, le risorse straordinarie in arrivo con il Recovery Plan rappresenteranno almeno la base per rimetterci in pari, a partire da una campagna estensiva di rilievo digitale delle opere e dalla creazione di archivi puntuali degli interventi.
Il riferimento ai cambiamenti causati alla pandemia è inevitabile e il timore è che non si tratti di una parentesi. “Il mio intervento del 2018 si intitolava Come proteggere l’Ermitage dai turisti. Oggi sembra humour nero”, racconta il direttore Piotrovsky, rubando le parole di bocca al collega Finaldi della National Gallery. “Senza il pubblico questo immenso patrimonio è destinato a deperire”, afferma diretto Antonio Paolucci: “Se dovesse ripetersi, la chiusura, l’oscuramento dei musei per meglio dire, sarebbe esiziale per la salute intellettuale e spirituale di tutti noi”. La tensione è palpabile, specie tra gli italiani. Il più agguerrito è l’Accademico dei Lincei Salvatore Settis: “La chiusura, seppur temporanea, indebolisce l’istituzione museo perché consolida la gerarchia tra ciò che è essenziale per vivere - come una tabaccheria o un supermercato - e ciò che non lo è, come la cultura”. La preoccupazione riguarda soprattutto le nuove generazioni, cui rischia di mancare l’educazione al valore e al piacere della bellezza, della cultura, della memoria. è per loro che lavorano i conservatori dei musei e tra i rigori della pandemia si sono impegnati anche più del solito. All’Egizio di Torino, per esempio, come racconta il direttore Christian Greco, o alla Reggia di Versailles, dove la chiusura al pubblico si è rivelata una ghiotta occasione: monitoraggi approfonditi e piccoli interventi di manutenzione sono stati eseguiti su 8400 oggetti e 180 sale e gallerie, per un totale di 20 mila metri quadri. Dati impossibili da rilevare in tempi normali sono arrivati su un piatto d’argento: come il rapporto tra la presenza dei visitatori e il depositarsi della polvere sulle opere, con uno scarto che ha lasciato di stucco il direttore Laurent Salomé.
Mentre a Versailles non c’è più nulla da spolverare, al Metropolitan di New York e in gran parte dei musei americani il patrimonio in pericolo è anche umano, con dipendenti e professionisti messi a rischio dalla crisi: senza di loro, nemmeno la conservazione può andare avanti. Ma Max Hollein non abbandona la sfida e aggiunge un ingrediente sfuggito agli interventi dei colleghi: la necessità di ridurre l’impatto ambientale dei musei, perché il futuro dell’arte non prescinde da ciò che la circonda.
Ma qualcosa sta cambiando nel nostro modo di prenderci cura dei beni artistici e culturali, a giudicare da quanto emerso nel pomeriggio di ieri ai Musei Vaticani, dove i direttori di alcuni dei più grandi musei del pianeta si sono riuniti, complice la tecnologia, per festeggiare l’uscita del volume Preventive Conservation in Major Museums. Comparisons, reflections and strategies, e fare il punto sulla situazione. Con Barbara Jatta a fare gli onori di casa, hanno partecipato alla tavola rotonda, in presenza o in remoto, Mikhail Piotrovsky dell’Ermitage di San Pietroburgo, Max Hollein del Metropolitan Museum of Art di New York, Anne de Vaillance del Louvre di Parigi, Gabriele Finaldi della National Gallery di Londra, Laurent Salomé dello Château de Versailles, Miguel Falomir Faus del Museo del Prado, Christian Greco del Museo Egizio, nonché importanti studiosi come Antonio Paolucci, Salvatore Settis, Gaël de Guichen, Marco Ciatti, Bruno Zanardi. Insieme a loro, Massimo Osanna, Direttore Generale dei Musei del Ministero della Cultura, Padre Kevin Lixey, Direttore Internazionale dei Patrons of the Arts in the Vatican Museums, e Vittoria Cimino, responsabile dell’Ufficio del Conservatore dei Musei Vaticani e curatrice del volume per le Edizioni Musei Vaticani.
Il libro raccoglie gli atti di un memorabile convegno tenuto nel 2018 proprio ai Vaticani, in cui si discusse di possibili strategie condivise per una nuova e più efficace conservazione museale. Un paragone medico rende bene la questione: è meglio attendere che la malattia - ovvero il degrado delle opere d’arte - peggiori al punto da richiedere un intervento chirurgico (un restauro in grande stile) o ricorrere agli strumenti della medicina preventiva - monitoraggio assiduo, cure periodiche e mantenimento di condizioni che favoriscano la salute delle opere - evitando che la situazione precipiti? La seconda opzione sembra di gran lunga la più conveniente.
“La conservazione preventiva di un’intera sala museale costa meno del restauro di una sola opera”, ha spiegato il soprintendente dell’Opificio delle Pietre Dure Marco Ciatti. Basti pensare al caso Pompei, dove decenni di trascuratezza hanno portato a un’emergenza superata solo grazie allo stanziamento di 100 milioni di fondi europei. Dopo un tour de force di interventi straordinari, ha ricordato l’ex direttore del Parco Archeologico Massimo Osanna, si è tornati a pensare al futuro con serenità, impostando un progetto di manutenzione programmata a lungo termine.
I Musei Vaticani non stanno a guardare. “Preservare per condividere”, è il motto della direttrice Barbara Jatta, che in continuità con il predecessore Antonio Paolucci ha lavorato per sviluppare un piano di conservazione integrato ed efficiente. Fondamentale in questo senso è stata la rete di collaborazioni tessuta con grandi realtà museali internazionali, per la quale il convegno del 2018 ha rappresentato una tappa cruciale. In questi anni i Vaticani hanno raccolto le sfide della tecnologia applicandole al rilevamento, alla gestione e alla condivisione di dati vitali. Sensori miniaturizzati di ultima generazione progettati ad hoc per i musei del Papa controllano la composizione dell’aria, l’umidità relativa e la luce all’interno di una grande infrastruttura digitale, contribuendo a preservare un tesoro di 22 mila opere, più di 40 depositi e 7 chilometri di sale espositive e gallerie. Tra gli interventi più recenti, il sistema di climatizzazione delle Stanze di Raffaello, inaugurato a giugno 2020, e la nuova illuminazione della Sala VIII della Pinacoteca Vaticana, con gli arazzi e le tre pale dell’Urbinate (la Pala Oddi, la Madonna di Foligno e la Trasfigurazione).
Sulla stessa strada il Prado di Madrid che, spiega il direttore Falomir, lavora a una conservazione preventiva e sistematica già da 20 anni. Tra i punti chiave del programma di Falomir figurano gli innovativi allestimenti della collezione permanente, il cui fiore all’occhiello sono le sale del Tesoro del Delfìn inaugurate nel 2018, la presenza di protocolli di conservazione preventiva e di emergenza ben strutturati e il prestito a lungo termine a istituzioni estere di 3500 opere che non trovano spazio nel percorso espositivo di Madrid.
Se per i grandi musei la manutenzione programmata non è uno scherzo, che cosa succede alle periferie di quella immensa galassia diffusa sul territorio che è il patrimonio artistico italiano? “Il quadro non è confortante”, osserva Osanna tenendo conto dei risultati di un censimento appena condotto sullo stato dei beni e dei musei della penisola. D’altra parte, nelle intenzioni del suo iniziatore Giovanni Urbani, obiettivo della manutenzione programmata è prendersi cura della straordinaria varietà del patrimonio del Belpaese proprio in rapporto ai suoi legami con l’ambiente e il territorio. Che fare dunque? Come avvenne per Pompei, spiega Osanna, le risorse straordinarie in arrivo con il Recovery Plan rappresenteranno almeno la base per rimetterci in pari, a partire da una campagna estensiva di rilievo digitale delle opere e dalla creazione di archivi puntuali degli interventi.
Il riferimento ai cambiamenti causati alla pandemia è inevitabile e il timore è che non si tratti di una parentesi. “Il mio intervento del 2018 si intitolava Come proteggere l’Ermitage dai turisti. Oggi sembra humour nero”, racconta il direttore Piotrovsky, rubando le parole di bocca al collega Finaldi della National Gallery. “Senza il pubblico questo immenso patrimonio è destinato a deperire”, afferma diretto Antonio Paolucci: “Se dovesse ripetersi, la chiusura, l’oscuramento dei musei per meglio dire, sarebbe esiziale per la salute intellettuale e spirituale di tutti noi”. La tensione è palpabile, specie tra gli italiani. Il più agguerrito è l’Accademico dei Lincei Salvatore Settis: “La chiusura, seppur temporanea, indebolisce l’istituzione museo perché consolida la gerarchia tra ciò che è essenziale per vivere - come una tabaccheria o un supermercato - e ciò che non lo è, come la cultura”. La preoccupazione riguarda soprattutto le nuove generazioni, cui rischia di mancare l’educazione al valore e al piacere della bellezza, della cultura, della memoria. è per loro che lavorano i conservatori dei musei e tra i rigori della pandemia si sono impegnati anche più del solito. All’Egizio di Torino, per esempio, come racconta il direttore Christian Greco, o alla Reggia di Versailles, dove la chiusura al pubblico si è rivelata una ghiotta occasione: monitoraggi approfonditi e piccoli interventi di manutenzione sono stati eseguiti su 8400 oggetti e 180 sale e gallerie, per un totale di 20 mila metri quadri. Dati impossibili da rilevare in tempi normali sono arrivati su un piatto d’argento: come il rapporto tra la presenza dei visitatori e il depositarsi della polvere sulle opere, con uno scarto che ha lasciato di stucco il direttore Laurent Salomé.
Mentre a Versailles non c’è più nulla da spolverare, al Metropolitan di New York e in gran parte dei musei americani il patrimonio in pericolo è anche umano, con dipendenti e professionisti messi a rischio dalla crisi: senza di loro, nemmeno la conservazione può andare avanti. Ma Max Hollein non abbandona la sfida e aggiunge un ingrediente sfuggito agli interventi dei colleghi: la necessità di ridurre l’impatto ambientale dei musei, perché il futuro dell’arte non prescinde da ciò che la circonda.
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