Fernando Pietropoli. Tra l'attimo e l'eterno
Dal 18 Aprile 2014 al 01 Maggio 2014
Garda | Verona
Luogo: Palazzo Carlotti
Indirizzo: piazzetta Calderini
Telefono per informazioni: +39 388 8918196
E-Mail info: info@fernandopietropoli.it
Sito ufficiale: http://www.fernandopietropoli.it
A Garda (VR), dal 18 aprile all’1 maggio 2014, nel Palazzo Carlotti, ha luogo mostra personale di pittura dell’artista veronese Fernando Pietròpoli. Con il titolo “Tra l’attimo e l’eterno” presenta le sue opere più recenti di stile lirico informale e materico, e con uno spazio nuovo dedicato anche alla pittura figurativa. Orario mostra: tutti i giorni 10-22. Ingresso libero.
Il “disordine naturale”
“Non ho mai visto così chiaramente in me stesso come ora, in questo momento in cui non vedo più niente”, scriveva R. Gary. Sono parole consone al vivere di Fernando Pietròpoli. E’ come se il suo corpo si calasse dentro l’opera che produce rappresentando ciò che non si può vedere ma che c'è: le forme del suo amore totale per l’arte. Un’arte che egli vive fino a mimarla in una sorta di penetrazione e libertà intellettuale arrivando a sostenere che si debba essere liberi persino dal desiderio di piacere.
Nulla ha potuto prevaricare l'intelligenza di questa mano che nel segno di quella libertà ha tenuto e tiene la propria arte all'altezza del mondo. Mi ha subito colpito la forza e la serietà della sua riflessione sull'essere artista, consapevole e attento a cogliere le sollecitazioni che storia, cultura e società gli presentano e sulle quali inequivocabilmente si interroga. Pietròpoli è un artista che “pensa”, e dunque tutt’altro che istintivo. Il pensiero è il punto di partenza e di arrivo di ogni sua creazione, volto a dimostrare come la pittura non rappresenti soltanto un'emozione o un'immagine, o descriva “qualche cosa”, ma piuttosto traduca sempre un “concetto”, e quindi sempre astratta anche nella sua apparente fisicità.
Pietròpoli è un pittore dal tratto rischioso ed azzardato, dalla pennellata aristocratica e severa, in apparenza “sgrammaticata” ma assolutamente necessaria perché coincide con la sua vita. Di fronte ad ognuno dei suoi lavori si respira la sua stessa tensione ed il suo non accontentarsi mai di una soluzione facile. Tutta la sua opera viene dipinta lì, come dai bordi di un precipizio, di un pianerottolo senza ringhiera, dal pendio dei tetti o sul filo delle grondaie, in un luogo da capogiro, un luogo dove salvezza e abbandono sono separati da una manciata di metri. Come traforata da una hantise ineludibile, la pittura di Pietròpoli palesa scarti continui, continui sobbalzi, si apre in improvvise feritoie, passaggi di colore e materia a volte minuti e a volte maestosi, sismici. E in essi l’artista sviluppa la propria abilità nel controllare un innato “disordine naturale”, dando un assetto logico alla materia umida e fibrosa di ciò che ha concepito.
Dalle sue tele emerge allora tutto il costrutto umano: arcate e ponti, simboli di congiunzioni artificiali e del compromesso tecnologico fra uomo e macchina, griglie quadrettate che sembrano vuote occhiaie di palazzi come svuotati da un bombardamento aereo, ardite geometrie che salgono verso il cielo, linee di orizzonte indistinte eppure pregne di arcane sussistenze. Di rado l’artista si placa, per distendersi, quando accade, nella memoria di figure d’origine riattinte come in un bisogno fisico di respiro vitale.
Ogni suo dipinto sembra nato tra l'attimo e l'eterno. I suoi lavori vengono percepiti come un prolungamento dell'esistenza, una sorta di grido che si incide sulla tela. Una pittura postmoderna, contemporaneissima, che pare muoversi tra la materia finita e una infinita, umana ferita, una ferita non preparata ad essere ristorata, né dal proprio passato né dal proprio destino
Maria Gabriella Morello
Il “disordine naturale”
“Non ho mai visto così chiaramente in me stesso come ora, in questo momento in cui non vedo più niente”, scriveva R. Gary. Sono parole consone al vivere di Fernando Pietròpoli. E’ come se il suo corpo si calasse dentro l’opera che produce rappresentando ciò che non si può vedere ma che c'è: le forme del suo amore totale per l’arte. Un’arte che egli vive fino a mimarla in una sorta di penetrazione e libertà intellettuale arrivando a sostenere che si debba essere liberi persino dal desiderio di piacere.
Nulla ha potuto prevaricare l'intelligenza di questa mano che nel segno di quella libertà ha tenuto e tiene la propria arte all'altezza del mondo. Mi ha subito colpito la forza e la serietà della sua riflessione sull'essere artista, consapevole e attento a cogliere le sollecitazioni che storia, cultura e società gli presentano e sulle quali inequivocabilmente si interroga. Pietròpoli è un artista che “pensa”, e dunque tutt’altro che istintivo. Il pensiero è il punto di partenza e di arrivo di ogni sua creazione, volto a dimostrare come la pittura non rappresenti soltanto un'emozione o un'immagine, o descriva “qualche cosa”, ma piuttosto traduca sempre un “concetto”, e quindi sempre astratta anche nella sua apparente fisicità.
Pietròpoli è un pittore dal tratto rischioso ed azzardato, dalla pennellata aristocratica e severa, in apparenza “sgrammaticata” ma assolutamente necessaria perché coincide con la sua vita. Di fronte ad ognuno dei suoi lavori si respira la sua stessa tensione ed il suo non accontentarsi mai di una soluzione facile. Tutta la sua opera viene dipinta lì, come dai bordi di un precipizio, di un pianerottolo senza ringhiera, dal pendio dei tetti o sul filo delle grondaie, in un luogo da capogiro, un luogo dove salvezza e abbandono sono separati da una manciata di metri. Come traforata da una hantise ineludibile, la pittura di Pietròpoli palesa scarti continui, continui sobbalzi, si apre in improvvise feritoie, passaggi di colore e materia a volte minuti e a volte maestosi, sismici. E in essi l’artista sviluppa la propria abilità nel controllare un innato “disordine naturale”, dando un assetto logico alla materia umida e fibrosa di ciò che ha concepito.
Dalle sue tele emerge allora tutto il costrutto umano: arcate e ponti, simboli di congiunzioni artificiali e del compromesso tecnologico fra uomo e macchina, griglie quadrettate che sembrano vuote occhiaie di palazzi come svuotati da un bombardamento aereo, ardite geometrie che salgono verso il cielo, linee di orizzonte indistinte eppure pregne di arcane sussistenze. Di rado l’artista si placa, per distendersi, quando accade, nella memoria di figure d’origine riattinte come in un bisogno fisico di respiro vitale.
Ogni suo dipinto sembra nato tra l'attimo e l'eterno. I suoi lavori vengono percepiti come un prolungamento dell'esistenza, una sorta di grido che si incide sulla tela. Una pittura postmoderna, contemporaneissima, che pare muoversi tra la materia finita e una infinita, umana ferita, una ferita non preparata ad essere ristorata, né dal proprio passato né dal proprio destino
Maria Gabriella Morello
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