Marzia Migliora. Voce del verbo avere

Marzia Migliora, A Dora D

 

Dal 08 Settembre 2018 al 04 Novembre 2018

Palermo

Luogo: Palazzo Branciforte

Indirizzo: via Bara all’Olivella 2

Orari: dalle 9.30 alle 19.30 (chiuso lunedì). La biglietteria chiude un’ora prima

Curatori: Valentina Bruschi, Beatrice Merz

Costo del biglietto: Intero € 7, Ridotto € 5 gruppi di minimo 15 persone, maggiori di 65 anni e titolari di apposite convenzioni. Gratuito scuole e minori di 18 anni

Telefono per informazioni: +39 091.7657621

E-Mail info: info@palazzobranciforte.it



Si inaugurerà sabato 8 settembre alle 18, all'ex Monte dei Pegni di Palazzo Branciforte, la mostra personale di Marzia Migliora (Alessandria, 1972) Voce del verbo avere, nata dalla collaborazione tra Fondazione Merz e Fondazione Sicilia.  

L’esposizione, a cura di Valentina Bruschi Beatrice Merz e visitabile fino al 4 novembre, fa parte delle iniziative di Palermo capitale italiana della cultura 2018 e si inserisce in Punte brillanti di lance, un programma di mostre e eventi avviato nel 2017 dalla Fondazione Merz per la Città di Palermo. 

Il progetto di Marzia Migliora prende avvio dalle forti suggestioni restituitele dall’ex Monte dei Pegni, creando un collegamento con il presente a partire dalla memoria storica del luogo, per far scaturire una riflessione politica e sociale sulla condizione attuale dell’uomo. Detto anche Monte dei Panni, il deposito del Monte di Pietà si snoda in un intricato labirinto di stanze con strutture lignee a tutta altezza, composte da scaffalature dove venivano alloggiati i beni impegnati. Per circa due secoli persone in stato d’indigenza vi hanno depositato doti, corredi e oggetti personali in cambio di poche monete, per poi cercare di tornare a riscattarli.

Voce del verbo avere è l’ideale prosecuzione della mostra personale di Marzia Migliora dal titolo Velme, realizzata nel 2017 dalla Fondazione Merz a Ca’ Rezzonico a Venezia. L’installazione La fabbrica illuminata, realizzata originariamente dall’artista per la mostra Velme, sarà parte della mostra dell’ex Monte dei Pegni di Palermo, accompagnata da tre opere inedite, concepite appositamente per lo spazio espositivo.

Le opere progettate dall’artista per lo spazio palermitano prendono avvio dal concetto di economia, a partire dalla scomposizione etimologica del termine inoikos (casa, intesa come famiglia, ma anche beni e comunità) e nomos (regola): al Monte di Pietà le persone indigenti erano costrette a impegnare i beni di famiglia (oikos), per cercare di adempiere alle norme imposte dallo Stato e dalla comunità e per assolvere i bisogni primari di sussistenza (nomos). I due termini rappresentano l’elemento concettuale comune in ogni opera in mostra, insieme alle tematiche del denaro, del cibo e della fame. L’ambiguità del denaro, che da un lato affranca dall’essere schiavo, ma dall’altro istituisce nuove schiavitù, costituisce un concetto fondamentale nell’opera di Marzia Migliora. Dal denaro infatti dipende anche l’accesso al cibo, bisogno primario per la sussistenza dell’essere umano: è quindi la fame l’innesco per far leva e attivare analogie e dissonanze, relazioni tra pieno e vuoto, ricchezza e povertà, indigenza e sicurezza, nutrimento e astinenza, inclusione ed esclusione.

Un altro termine sottotraccia a tutta la ricerca è transizione, il passaggio da un modo di essere a un altro, inteso nell’accezione propria della funzione del banco dei pegni, ovvero quella di convertire oggetti personali in denaro contante.

“Siamo lieti – racconta Beatrice Merzpresidente della Fondazione Merz - di proseguire il nostro programma con Palermo attraverso la mostra immaginata da un’artista come Marzia Migliora, per un luogo così fortemente legato alla storia della città, ma anche così intensamente simbolico per la storia dell’Uomo. Perseguendo l’obiettivo di una progettualità nomade, ci spostiamo da Torino per indagare sempre nuovi confini e sperimentare nuove realtà.”

“Con la mostra di Marzia Migliora, Fondazione Sicilia prosegue la felice collaborazione con la Fondazione Merz, nell'ottica – afferma il presidente di Fondazione Sicilia, Raffaele Bonsignore – di un dialogo sempre più creativo e proficuo con le realtà più prestigiose in ambito nazionale e internazionale. Voce del verbo avere è un viaggio di impegno civile e politico di un'artista contemporanea di grande potenza, che si inserisce nel percorso di apertura ai linguaggi contemporanei intrapreso dalla Fondazione Sicilia”.

Il percorso espositivo

L’opera La fabbrica illuminata deve il titolo alla composizione omonima di Luigi Nono del 1964, dedicata agli operai della Italsider di Genova-Cornigliano per denunciare le condizioni di lavoro disumane degli operai. 

La fabbrica illuminata
 si compone di cinque banchi da orafo su cui poggia un blocco di salgemma grezzo, in procinto di essere lavorato. Il sale - elemento fondamentale nella storia commerciale del Mediterraneo, conosciuto anche come “oro bianco” - è scelto dall’artista come emblema dello sfruttamento delle risorse naturali e della forza lavoro necessaria alla sua trasformazione in merce e, quindi, in guadagno. Proprio dal sale deriva il termine salario, la retribuzione in denaro di un lavoratore: ancora una volta il passaggio di stato dei materiali (come in alchimia) richiama la relazione di tutti i lavori in mostra alla funzione del Monte di Pegni.

In mostra anche tre opere inedite: 
Voce del verbo avere (2018), Pane di bocca (2018) e L’arte della fame (2018)

Voce del verbo avere è l’installazione che apre la mostra e trae suggestione dall’obolo di Caronte, la moneta d’argento che nella mitologia greca e romana veniva posta nella bocca dei defunti affinché la consegnassero al traghettatore di anime per avere accesso al mondo dei morti. L’artista si riappropria della simbologia antica, ponendo una dracma greca degli anni trenta - moneta con la medesima iconografia dell’antico obolo, con la dea madre terra Demetra e la spiga di grano - sospesa all’interno di mandibola di squalo. Voce del verbo avere ruota intorno al concetto di fame, in due differenti accezioni: la fame come bisogno, conseguenza della crisi economica di cui la Grecia è stata simbolo, e come brama insaziabile di potere, il circolo vizioso del sistema che ha fame e di conseguenza affama, di cui l’obolo - nel suo significato contemporaneo di tassa - diventa simbolo. Le fauci spalancate dello squalo diventano metafora del mercato e del culto feroce del denaro.

L’opera Pane di bocca è un’installazione costituita da una fede originale del 1935 che reca l’incisione “Oro alla Patria. 18 dicembre 1935” stretta nella morsa di una pinza odontoiatrica dentata. La Giornata della fede, fu una campagna di propaganda promossa dal regime fascista rivolta al popolo italiano a sostegno della guerra in Etiopia, chiamato a consegnare alla Patria le proprie fedi nuziali, ricevendo in cambio un anello di latta inciso, come quello che è parte dell’opera. L’opera allude al concetto di fede, nel binomio dare avere tra l’autorità dello Stato e il popolo che lo abita.

Chiude il percorso espositivo L’arte della fame. L’installazione, che deve il suo titolo al saggio di Paul Auster, è un carosello in cui alcune tassidermie di allodole rincorrono in un circuito perpetuo una pepita d’oro che, per sua natura, ricorda una mollica di pane. L’opera concettualmente richiama la struttura lignea del Monte di Pietà, costituita da un complesso di linee verticali e orizzontali che si intrecciano su più piani, a formare una sorta di grande voliera/gabbia.

Marzia Migliora affida all’opera A Dora D., realizzata all’ex-Monte dei Pegni, l’immagine guida della mostra. Nella fotografia il corpo dell’artista è in dialogo con la struttura a griglia che connota l’architettura lignea del deposito, in cui le linee verticali e orizzontali s’intersecano su più piani come sbarre di una gabbia. 
L’opera è un omaggio a Dora Diamant, la donna che si prese cura di Franz Kafka nella fase terminale della sua vita quando l’autore scrisse il suo ultimo racconto intitolato Un digiunatore (1922), il cui protagonista si esibiva pubblicamente in una gabbia sorvegliato da tre guardiani, trovandosi nella situazione paradossale di guadagnarsi il pane digiunando.

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