Ugo Marano. Le stanze dell’utopia
Dal 16 Marzo 2023 al 04 Giugno 2023
Napoli
Luogo: Museo Madre
Indirizzo: Via Settembrini 79
Orari: Lunedì, Mercoledì, Giovedì, Venerdì e Sabato dalle ore 10.00 alle ore 19.30 Domenica dalle ore 10.00 alle ore 20.00 La biglietteria chiude un’ora prima della chiusura. Martedì: giorno di chiusura settimanale
Curatori: Stefania Zuliani e Antonello Tolve
Telefono per informazioni: +39 081.19528498
E-Mail info: info@madrenapoli.it
Sito ufficiale: http://www.madrenapoli.it
Il Madre presenta Ugo Marano Le stanze dell’utopia, a cura di Stefania Zuliani e Antonello Tolve.
La mostra, fortemente voluta anche dal Presidente della Regione Campania Vincenzo De Luca, propone oltre quaranta opere, tra cui una – Papà non c’è (1987) – mai esposta al di fuori della casa-studio di Capriglia: sculture, installazioni, disegni, dipinti e libri d’artista dalla fine degli anni Sessanta al 2010 danno vita ad un vero e proprio racconto del lavoro di Marano, declinato attraverso le linee guida che hanno orientato la sua attività. Un percorso di arte e di pensiero che ha riconosciuto nell’utopia la sua forza e il suo movente, non strutturato secondo ordine cronologico né in base ad una selezione per tecniche e materie, ma scandito in sette sezioni, in sette idee di Casa, Corpo, Tempo, Arte, Scrittura, Natura, Legame.
Il lavoro di Ugo Marano testimonia uno stretto legame con la natura, matrice stessa del suo agire artistico, la cui energia metamorfica non viene rappresentata tal quale, ma tradotta e restituita nella sua vitalità. Non c’è una tecnica privilegiata per questa traduzione di energia, per la messa in concetto e quindi per la messa in forma della continua metamorfosi naturale. Nel 1969 Marano ha scelto ad esempio la ceramica (arte regina) per ricreare l’orizzonte instabile del mare dando vita al primo antipavimento, e tante volte nel corso degli anni ha continuato ad affidare alla ceramica il suo racconto marino: la musicale sequenza di Onde(1981) qui esposta ne è prova lampante.
La ceramica diviene testimonianza anche del rapporto dell’artista con il territorio e con alcuni elementi della sua tradizione: sono ricorrenti, infatti, opere che rimandano all’esperienza dei Vasai di Cetara e a Rufoli, terra di argille pregiate dove la cottura della terracotta è un’arte e un rito collettivo, come racconta il Museo Città Creativa di Ogliara che proprio in Marano ha avuto il suo ispiratore. In mostra sono presenti alcune opere che rimandano alla sua ricerca condotta sul vaso, parte di una ben più ampia serie che l’artista ha realizzato agli inizi degli anni 2000.
Altro elemento ricorrente, ben riconoscibile nel percorso espositivo, è la sedia, emblema di una visione dell’arte che non tende ad ottenere un facile risultato ma a elaborare senza sosta nuove strategie di vita e di pensiero: e del resto «i conti con le idee si fanno da una sedia scomoda. Le poltrone rendono le idee soffici: è l’inganno della poltrona».
La scrittura, il segno che diviene disegno e parola sulla pagina bianca o sulla superficie dell’opera, accompagna tutto il percorso di Ugo Marano. L’esercizio della scrittura ha per l’artista un valore almeno duplice, rappresentando sia il momento di analisi delle ragioni e delle procedure che conducono all’opera sia lo spazio di un’invenzione libera, giocosa, a volte ironica ma sempre poetica. Due momenti che non si escludono a vicenda e che spesso convivono nello stesso testo: gli scritti dell’artista, è stato Filiberto Menna a sottolinearlo presentando nel 1972 il lavoro di Marano alla galleria Schneider di Roma, offrono certo «la chiave per capire più in profondità i disegni e le sculture», ma aprono anche a più ampi orizzonti di senso, creando scenari visionari o restituendo tracce di incontri ed esperienze di vita.
Che si sviluppi nelle pagine spesso quadrate e minute dei tanti libri realizzati in edizioni artigianali e volutamente povere, fogli fotocopiati e piegati con cura, dove alla copertina segue talvolta una pagina d’amore e non di tipografico rispetto, o che s’incida con pazienza nella materia, come accade nell’opera Papà non c’è (1987), abbraccio di parole e di umile terra che tuttora accoglie i visitatori della casa studio di Capriglia, la scrittura è per Marano l’occasione di un dialogo necessario.
Nel suo appartato procedere, la ricerca di Ugo Marano non ha mai rinunciato alla condivisione dell’esperienza e del pensiero. Le sue due case sono state nel corso degli anni crocevia di incontri e fabbriche di connessioni, cantieri di idee che hanno costruito legami, connessioni, partecipazioni. Lo Psicocesso (1978), realizzato nei grandi spazi dello studio di Capriglia è, in questo senso, opera esemplare. Si tratta di un dispositivo di relazione che insieme all’artista ha messo alla prova numerosi ma sempre scelti partecipanti (tra gli altri, Tomaso Binga e Filiberto Menna) chiamati a mettere in gioco se stessi in un momento da sempre privato: una sfida, una forzatura che rompe gli schemi e costringe ad una rischiosa comunione. A chi si avvicina alla sua opera Marano richiede un’assunzione di responsabilità, proponendo un lavoro di lenta cucitura e contestualmente uno sforzo di congiunzione di cui Ego strumento è insieme immagine e risultato, persino manifesto, grazie alle riflessioni che vi si avvolgono in sinuosa scrittura.
Nel corso della sua vita di pensatore e di creatore dell’arte Ugo Marano (Capriglia di Pellezzano, 9 febbraio 1943 | Cetara, 15 ottobre 2011) non ha mai rinunciato alla radicalità dell’utopia, «concepita come semplice realtà quotidiana», come forza di trasformazione, come legame fra le persone con la natura, che della sua ricerca è sempre stata modello e riferimento.
Attraverso materie e linguaggi differenti, di volta in volta scelti seguendo ragioni intime e occasioni esistenziali, l’artista – amava definirsi radical concettuale utopico – ha tracciato un percorso che muovendosi fuori dagli itinerari più frequentati ed esposti, ha mantenuto salda la fiducia nella capacità dell’arte di intervenire poeticamente nella vita modificandone gli orizzonti privati e le prospettive collettive.
Rivoluzionario e paziente, il gesto obliquo di Ugo Marano ha ridisegnato lo spazio dell’abitare, la dimensione della città e del paesaggio mantenendo intatta l’attenzione rispettosa ai processi naturali o mostrando una precoce sensibilità per quei temi (oggi pressanti) dell’ecologia, che è etimologicamente discorso della dimora.
Proprio la casa, intesa come luogo di accoglienza e di amicizia, come spazio della relazione e della creazione, ha avuto un ruolo determinante nella sua ricerca: le stanze che dalla roccia si sporgono sul mare dell’abitazione condivisa con Stefania e con i figli a Cetara, e ancor più le antiche sale della villa di Capriglia, sulle colline salernitane, dove Marano ha creato un atelier in cui hanno trovato occasione di incontro e di dialogo architetti, artisti, critici, poeti e pensatori, hanno nel corso degli anni accolto con complicità il lavoro dell’artista, di cui ancora testimoniano la presenza con opere e installazioni site-specific.
Profondamente coerente pur nel continuo mutare dei linguaggi e delle forme, l’opera di Marano è frutto di una consapevole intenzione progettuale sempre messa alla prova di un sapere delle mani costantemente coltivato. Dopo gli studi all’Accademia del Disegno presso la Reverenda Fabbrica di San Pietro a Città del Vaticano e all’Accademia del Mosaico a Ravenna, l’artista ha approfondito la conoscenza della ceramica, cui si avvicina già alla fine degli anni Sessanta guardando con interesse alla tradizione della ceramica di Vietri sul Mare, della quale ha raccolto e reinterpretato l’eredità dando vita all’esperienza del Museo Vivo (1971) e poi animando il gruppo dei Vasai di Cetara negli anni Novanta. Accanto alla ricerca sulla ceramica, il suo lavoro ha affrontato tempestivamente le istanze di rinnovamento che hanno segnato la scena artistica italiana e internazionale fra gli anni Sessanta e Settanta, periodo in cui utilizza la lamiera di ferro per sculture che non si sottraggono alla corrosione del tempo partecipando ai turbamenti della vita naturale. In questo giro d’anni partecipa alla Quadriennale di Roma (1975) e alla Biennale di Venezia (1975) e alla Triennale di Milano (1979). Nei decenni successivi l’artista ha proseguito la riflessione sui luoghi di produzione dell’arte creando il progetto della Fabbrica felice e ispirando il Museo Città Creativa, istituito a Rufoli di Ogliara nel 1996, anno in cui realizza a Salerno la Fontana Felice, esempio di un interesse per l’arte pubblica che lo porterà alla fine degli anni Novanta a rileggere il paesaggio e le storie del Parco del Cilento e del Vallo di Diano in collaborazione con l’economista Pasquale Persico. Esperienze diverse delle quali l’artista stesso ha confermato l’irrinunciabile respiro utopico nei suoi tanti scritti, al confine tra poesia e teoria.
La mostra, fortemente voluta anche dal Presidente della Regione Campania Vincenzo De Luca, propone oltre quaranta opere, tra cui una – Papà non c’è (1987) – mai esposta al di fuori della casa-studio di Capriglia: sculture, installazioni, disegni, dipinti e libri d’artista dalla fine degli anni Sessanta al 2010 danno vita ad un vero e proprio racconto del lavoro di Marano, declinato attraverso le linee guida che hanno orientato la sua attività. Un percorso di arte e di pensiero che ha riconosciuto nell’utopia la sua forza e il suo movente, non strutturato secondo ordine cronologico né in base ad una selezione per tecniche e materie, ma scandito in sette sezioni, in sette idee di Casa, Corpo, Tempo, Arte, Scrittura, Natura, Legame.
Il lavoro di Ugo Marano testimonia uno stretto legame con la natura, matrice stessa del suo agire artistico, la cui energia metamorfica non viene rappresentata tal quale, ma tradotta e restituita nella sua vitalità. Non c’è una tecnica privilegiata per questa traduzione di energia, per la messa in concetto e quindi per la messa in forma della continua metamorfosi naturale. Nel 1969 Marano ha scelto ad esempio la ceramica (arte regina) per ricreare l’orizzonte instabile del mare dando vita al primo antipavimento, e tante volte nel corso degli anni ha continuato ad affidare alla ceramica il suo racconto marino: la musicale sequenza di Onde(1981) qui esposta ne è prova lampante.
La ceramica diviene testimonianza anche del rapporto dell’artista con il territorio e con alcuni elementi della sua tradizione: sono ricorrenti, infatti, opere che rimandano all’esperienza dei Vasai di Cetara e a Rufoli, terra di argille pregiate dove la cottura della terracotta è un’arte e un rito collettivo, come racconta il Museo Città Creativa di Ogliara che proprio in Marano ha avuto il suo ispiratore. In mostra sono presenti alcune opere che rimandano alla sua ricerca condotta sul vaso, parte di una ben più ampia serie che l’artista ha realizzato agli inizi degli anni 2000.
Altro elemento ricorrente, ben riconoscibile nel percorso espositivo, è la sedia, emblema di una visione dell’arte che non tende ad ottenere un facile risultato ma a elaborare senza sosta nuove strategie di vita e di pensiero: e del resto «i conti con le idee si fanno da una sedia scomoda. Le poltrone rendono le idee soffici: è l’inganno della poltrona».
La scrittura, il segno che diviene disegno e parola sulla pagina bianca o sulla superficie dell’opera, accompagna tutto il percorso di Ugo Marano. L’esercizio della scrittura ha per l’artista un valore almeno duplice, rappresentando sia il momento di analisi delle ragioni e delle procedure che conducono all’opera sia lo spazio di un’invenzione libera, giocosa, a volte ironica ma sempre poetica. Due momenti che non si escludono a vicenda e che spesso convivono nello stesso testo: gli scritti dell’artista, è stato Filiberto Menna a sottolinearlo presentando nel 1972 il lavoro di Marano alla galleria Schneider di Roma, offrono certo «la chiave per capire più in profondità i disegni e le sculture», ma aprono anche a più ampi orizzonti di senso, creando scenari visionari o restituendo tracce di incontri ed esperienze di vita.
Che si sviluppi nelle pagine spesso quadrate e minute dei tanti libri realizzati in edizioni artigianali e volutamente povere, fogli fotocopiati e piegati con cura, dove alla copertina segue talvolta una pagina d’amore e non di tipografico rispetto, o che s’incida con pazienza nella materia, come accade nell’opera Papà non c’è (1987), abbraccio di parole e di umile terra che tuttora accoglie i visitatori della casa studio di Capriglia, la scrittura è per Marano l’occasione di un dialogo necessario.
Nel suo appartato procedere, la ricerca di Ugo Marano non ha mai rinunciato alla condivisione dell’esperienza e del pensiero. Le sue due case sono state nel corso degli anni crocevia di incontri e fabbriche di connessioni, cantieri di idee che hanno costruito legami, connessioni, partecipazioni. Lo Psicocesso (1978), realizzato nei grandi spazi dello studio di Capriglia è, in questo senso, opera esemplare. Si tratta di un dispositivo di relazione che insieme all’artista ha messo alla prova numerosi ma sempre scelti partecipanti (tra gli altri, Tomaso Binga e Filiberto Menna) chiamati a mettere in gioco se stessi in un momento da sempre privato: una sfida, una forzatura che rompe gli schemi e costringe ad una rischiosa comunione. A chi si avvicina alla sua opera Marano richiede un’assunzione di responsabilità, proponendo un lavoro di lenta cucitura e contestualmente uno sforzo di congiunzione di cui Ego strumento è insieme immagine e risultato, persino manifesto, grazie alle riflessioni che vi si avvolgono in sinuosa scrittura.
Nel corso della sua vita di pensatore e di creatore dell’arte Ugo Marano (Capriglia di Pellezzano, 9 febbraio 1943 | Cetara, 15 ottobre 2011) non ha mai rinunciato alla radicalità dell’utopia, «concepita come semplice realtà quotidiana», come forza di trasformazione, come legame fra le persone con la natura, che della sua ricerca è sempre stata modello e riferimento.
Attraverso materie e linguaggi differenti, di volta in volta scelti seguendo ragioni intime e occasioni esistenziali, l’artista – amava definirsi radical concettuale utopico – ha tracciato un percorso che muovendosi fuori dagli itinerari più frequentati ed esposti, ha mantenuto salda la fiducia nella capacità dell’arte di intervenire poeticamente nella vita modificandone gli orizzonti privati e le prospettive collettive.
Rivoluzionario e paziente, il gesto obliquo di Ugo Marano ha ridisegnato lo spazio dell’abitare, la dimensione della città e del paesaggio mantenendo intatta l’attenzione rispettosa ai processi naturali o mostrando una precoce sensibilità per quei temi (oggi pressanti) dell’ecologia, che è etimologicamente discorso della dimora.
Proprio la casa, intesa come luogo di accoglienza e di amicizia, come spazio della relazione e della creazione, ha avuto un ruolo determinante nella sua ricerca: le stanze che dalla roccia si sporgono sul mare dell’abitazione condivisa con Stefania e con i figli a Cetara, e ancor più le antiche sale della villa di Capriglia, sulle colline salernitane, dove Marano ha creato un atelier in cui hanno trovato occasione di incontro e di dialogo architetti, artisti, critici, poeti e pensatori, hanno nel corso degli anni accolto con complicità il lavoro dell’artista, di cui ancora testimoniano la presenza con opere e installazioni site-specific.
Profondamente coerente pur nel continuo mutare dei linguaggi e delle forme, l’opera di Marano è frutto di una consapevole intenzione progettuale sempre messa alla prova di un sapere delle mani costantemente coltivato. Dopo gli studi all’Accademia del Disegno presso la Reverenda Fabbrica di San Pietro a Città del Vaticano e all’Accademia del Mosaico a Ravenna, l’artista ha approfondito la conoscenza della ceramica, cui si avvicina già alla fine degli anni Sessanta guardando con interesse alla tradizione della ceramica di Vietri sul Mare, della quale ha raccolto e reinterpretato l’eredità dando vita all’esperienza del Museo Vivo (1971) e poi animando il gruppo dei Vasai di Cetara negli anni Novanta. Accanto alla ricerca sulla ceramica, il suo lavoro ha affrontato tempestivamente le istanze di rinnovamento che hanno segnato la scena artistica italiana e internazionale fra gli anni Sessanta e Settanta, periodo in cui utilizza la lamiera di ferro per sculture che non si sottraggono alla corrosione del tempo partecipando ai turbamenti della vita naturale. In questo giro d’anni partecipa alla Quadriennale di Roma (1975) e alla Biennale di Venezia (1975) e alla Triennale di Milano (1979). Nei decenni successivi l’artista ha proseguito la riflessione sui luoghi di produzione dell’arte creando il progetto della Fabbrica felice e ispirando il Museo Città Creativa, istituito a Rufoli di Ogliara nel 1996, anno in cui realizza a Salerno la Fontana Felice, esempio di un interesse per l’arte pubblica che lo porterà alla fine degli anni Novanta a rileggere il paesaggio e le storie del Parco del Cilento e del Vallo di Diano in collaborazione con l’economista Pasquale Persico. Esperienze diverse delle quali l’artista stesso ha confermato l’irrinunciabile respiro utopico nei suoi tanti scritti, al confine tra poesia e teoria.
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