Renato Cerisola/ Alessandro Docci/ Riccardo Luchini
Dal 18 Aprile 2013 al 09 Maggio 2013
Milano
Luogo: Spazio Tadini
Indirizzo: via Jommelli 24
Orari: da martedì a sabato 15.30-19
Costo del biglietto: ingresso gratuito
Telefono per informazioni: +39 02 26829749
E-Mail info: ms@spaziotadini.it
Sito ufficiale: http://spaziotadini.wordpress.com
Riccardo Luchini. Verso la citta'
La città di Luchini è osservata dalle zone di transito, dalle periferie agli snodi ferroviari, dalle strade di percorrenza alle ragnatele di cavi elettrici che la “imprigionano”. Una città grigio su grigio, tono su tono, un solo tono. Un solo suono, quello del rumore: del fischio dei treni, dei freni, delle gomme sull’asfalto che rallentano agli incroci. Solo odori grigi: quello dello smog, dei gas di scarico, del ferro dei binari, del fumo, della nebbia che addensa l’aria, quel grigio delle nuvole cariche di una pioggia che cade solo su asfalto che non assorbe e non alimenta la terra, ma produce acque reflue che ammorbano. Luoghi in cui gli esseri viventi lasciano solo le loro orme di passaggio, le loro ombre: non ci sono, non si vedono, si immaginano soltanto. Eppure dovrebbero essere in molti, perché ci sono decine e decine di binari, decine e decine di collegamenti, di snodi, di strade, pronte a offrire un attraversamento, un ingresso e/o un’uscita. Chi percorre o ha percorso quelle strade? Chi entra in quelle città e vi si perde? Chi fugge da quei luoghi per abbandonarli? Le città di Luchini sono solo dei transiti che conservano il ricordo di chi è passato, di chi si è costruito un passaggio nella giungla urbana e forse ne è uscito o ne è rimasto imprigionato per sempre. Fa freddo in quelle città. Un freddo che non appartiene alle stagioni, ma all’interiorità. Un freddo che sporca l’azzurro del cielo e lo copre fino all’orizzonte senza lasciare spazio alla luce, tanto da non permetterle di delineare i contorni delle cose. Così la figurazione di Luchini si trasforma in astrazione, in forme geometriche: spazi. Eppure le stazioni sono luoghi di incontro tanto quanto le strade.
Lì la gente non manca mai, fosse solo un barbone solitario accucciato nel suo sacco a pelo in una notte gelida d’inverno. Perché non c’è tempo per fermarsi in quelle vie di percorrenza? Perché non c’è sosta, non c’è respiro? Forse perché non ci sono piante, né alberi che ossigenano, ma solo costruzioni che hanno fatto tabula rasa di ogni elemento naturale, di ogni elemento vivente. La vita è altrove, nell’immaginario, non in quei luoghi, sebbene studiati e pensati per collegare, comunicare, ricevere. La vita è comunque oltre quella strada e non a quella fermata del treno. Non è un caso per Luchini, ma una scelta: la Natura, con i suoi ritmi, i suoi colori, i suoi respiri è altrove. Per Luchini è come se l’uomo avesse costruito tutte queste città non per viverci, ma per andare via. Anzi, forse è già andato via e sono solo archeologia urbana, fantasmi dell’operosità dell’uomo portata all’eccesso che Luchini immortala per ricordare, o forse solo per demonizzare, la possibilità che la vita possa abbandonare quel mondo artificiale costruito dall’uomo in cui non c’è spazio per alberi, prati e animali. Scrive di Lui il critico Lodovico Geirut: “ Il messaggio di Luchini è a mio avviso straordinariamente chiaro e profondo. Le opere dell’uomo, per quanto importanti e portatrici di migliori condizioni di vita, se dirette alle sole necessità materiali della vita e informate esclusivamente al procedere della tecnologia e se non considerano anche e/o non sono in grado, soprattutto, di dare all’umanità risposte adeguate ai bisogni dello spirito, creano drammaticità e vuoto, con il risultato di “trattenere” l’individuo in una sospensione di immobilità dello spirito e di quasi prigionia delle sue stesse realizzazioni. Mi sembra, dunque, che dalla densa atmosfera metafisica dei suoi dipinti emerga chiara l’attesa e l’urgenza di condizioni di libertà vera per l’uomo, una richiesta di poterci, noi tutti, muovere su strade meno organizzate da forze a noi esterne e imposte dalla troppo concreta sapienza costruttrice dell’uomo e dalla dottrina imperante del profitto, per lasciare spazio all’insostituibile necessità del respiro dell’anima che, vera base di libertà, si nutre di concetti, simboli e significati reconditi ed eterei, fatti delle aspirazioni del pensiero”. (Melina Scalise)
Renato Cerisola. E-motion: motus animae
Renato Cerisola è un fotografo con la straordinaria capacità di immortalare attraverso l’obiettivo della macchina fotografica ciò che guarda con la stessa dinamicità che usa il pittore nel riportare sulla tela le immagini colte dall’occhio e tradotte attraverso il gesto. La foto è per Cerisola il punto di partenza, lo strumento da cui attingere forme e colori. Il rigore della fotografia si perde attraverso i suoi interventi in ripresa. Così la linea sfuma i suoi contorni, l’oggetto si plasma, il colore di sfuma e addensa fino quasi a prevalere sulla forma. E’ come se Cerisola non ritraesse solo l’oggetto, ma lo sguardo stesso di chi lo osserva.
Il soggetto della foto è intriso dei movimenti dell’osservatore, del suo occhio che lo scruta da destra a sinistra, dall’alto in basso; dei suoi umori che cambiano la saturazione dei colori regalando generosamente blu e rossi e gialli. Nulla è statico, tutto si muove perché il cambiamento sta nella natura delle cose. Per Cerisola l’uomo non si libera da questa dinamicità neppure quando usa una macchina fotografica per cogliere l’attimo, per catturarlo per sempre. Lì, su quella foto il tempo scorre ancora, scorre sempre perché quell’oggetto è lì per chi lo guarda, per chi ne vuole sentire il suo profumo, per chi vuole sentire il suo calore, toccare la sua forma. Le foto di Cerisola non si possono solo vedere, ma anche ascoltare, perché la luce non imprimere solo la retina, ma tutto l’universo interiore.
Alessandro Docci. Mimetismo Urbano
Alessandro Docci ripensa al contesto urbano in chiave ludica e creativa cercando e trovando nell’assetto urbanistico di alcune città una visione immaginaria che restituisce all’abitare umano un riferimento con il mondo animale. La città, nonostante l’apparente lontananza dall’ambiente naturale, assume sembianze che non si discostano da ciò che si conosce in natura. Docci, forte di questa intuizione si trasforma in un cacciatore e, come nelle favole, trova, nella planimetria di ciascuna città, un animale imprigionato per la sua “tavola” in ogni città. Così nella planimetria aerea di Milano scopriamo un’aquila, in quella di Roma una lupa, in quella di Cagliari un passero, in quella di Firenze una cavalletta, in quella di Campobasso un Capriolo e così via. Le mostre di Spazio Tadini dedicate alla città non potevano mettere da parte questo artista fuori dal coro che ha elevato lo sguardo dalla terra al cielo e, grazie alle occasioni offerte da Google Maps è riuscito a fare un ritratto nuovo di ogni città, ma soprattutto ha giocato con il loro aspetto estraendolo da un contesto ricco di accenti negativi (l’edificazione e abusivismo selvaggio etc) per ricollocarlo nel piacere della costruzione, dell’inventiva, della creatività di cui l’uomo non può privarsi perché strumento di crescita evolutiva.
Docci ha riguardato le planimetrie delle città con gli occhi di un bambino volando attraverso le mappe di Google e dopo la scoperta del primo animale, si è trasformato in un cacciatore insaziabile tanto da produrre una cinquantina di tele: mimetismo urbano. “Volevo onorare un’importante data storica come quella dei 150 anni dell’Unità di Italia scoprendo realtà nascoste all’interno di un tessuto urbano di cui raramente si va oltre l’evidenza – racconta il pittore Alessandro Docci- così è nata la mostra e credo che solo l’arte è in grado di farci osservare le cose in modo differente”. Alessandro Docci è nato a Desio (MB) nel 1951. Dal 1990 si dedica interamente alla pittura, imponendo il suo talento innovativo e visionario capace di cogliere, nelle piccole cose di ogni giorno, impressioni ricche di inattese sfumature.
La città di Luchini è osservata dalle zone di transito, dalle periferie agli snodi ferroviari, dalle strade di percorrenza alle ragnatele di cavi elettrici che la “imprigionano”. Una città grigio su grigio, tono su tono, un solo tono. Un solo suono, quello del rumore: del fischio dei treni, dei freni, delle gomme sull’asfalto che rallentano agli incroci. Solo odori grigi: quello dello smog, dei gas di scarico, del ferro dei binari, del fumo, della nebbia che addensa l’aria, quel grigio delle nuvole cariche di una pioggia che cade solo su asfalto che non assorbe e non alimenta la terra, ma produce acque reflue che ammorbano. Luoghi in cui gli esseri viventi lasciano solo le loro orme di passaggio, le loro ombre: non ci sono, non si vedono, si immaginano soltanto. Eppure dovrebbero essere in molti, perché ci sono decine e decine di binari, decine e decine di collegamenti, di snodi, di strade, pronte a offrire un attraversamento, un ingresso e/o un’uscita. Chi percorre o ha percorso quelle strade? Chi entra in quelle città e vi si perde? Chi fugge da quei luoghi per abbandonarli? Le città di Luchini sono solo dei transiti che conservano il ricordo di chi è passato, di chi si è costruito un passaggio nella giungla urbana e forse ne è uscito o ne è rimasto imprigionato per sempre. Fa freddo in quelle città. Un freddo che non appartiene alle stagioni, ma all’interiorità. Un freddo che sporca l’azzurro del cielo e lo copre fino all’orizzonte senza lasciare spazio alla luce, tanto da non permetterle di delineare i contorni delle cose. Così la figurazione di Luchini si trasforma in astrazione, in forme geometriche: spazi. Eppure le stazioni sono luoghi di incontro tanto quanto le strade.
Lì la gente non manca mai, fosse solo un barbone solitario accucciato nel suo sacco a pelo in una notte gelida d’inverno. Perché non c’è tempo per fermarsi in quelle vie di percorrenza? Perché non c’è sosta, non c’è respiro? Forse perché non ci sono piante, né alberi che ossigenano, ma solo costruzioni che hanno fatto tabula rasa di ogni elemento naturale, di ogni elemento vivente. La vita è altrove, nell’immaginario, non in quei luoghi, sebbene studiati e pensati per collegare, comunicare, ricevere. La vita è comunque oltre quella strada e non a quella fermata del treno. Non è un caso per Luchini, ma una scelta: la Natura, con i suoi ritmi, i suoi colori, i suoi respiri è altrove. Per Luchini è come se l’uomo avesse costruito tutte queste città non per viverci, ma per andare via. Anzi, forse è già andato via e sono solo archeologia urbana, fantasmi dell’operosità dell’uomo portata all’eccesso che Luchini immortala per ricordare, o forse solo per demonizzare, la possibilità che la vita possa abbandonare quel mondo artificiale costruito dall’uomo in cui non c’è spazio per alberi, prati e animali. Scrive di Lui il critico Lodovico Geirut: “ Il messaggio di Luchini è a mio avviso straordinariamente chiaro e profondo. Le opere dell’uomo, per quanto importanti e portatrici di migliori condizioni di vita, se dirette alle sole necessità materiali della vita e informate esclusivamente al procedere della tecnologia e se non considerano anche e/o non sono in grado, soprattutto, di dare all’umanità risposte adeguate ai bisogni dello spirito, creano drammaticità e vuoto, con il risultato di “trattenere” l’individuo in una sospensione di immobilità dello spirito e di quasi prigionia delle sue stesse realizzazioni. Mi sembra, dunque, che dalla densa atmosfera metafisica dei suoi dipinti emerga chiara l’attesa e l’urgenza di condizioni di libertà vera per l’uomo, una richiesta di poterci, noi tutti, muovere su strade meno organizzate da forze a noi esterne e imposte dalla troppo concreta sapienza costruttrice dell’uomo e dalla dottrina imperante del profitto, per lasciare spazio all’insostituibile necessità del respiro dell’anima che, vera base di libertà, si nutre di concetti, simboli e significati reconditi ed eterei, fatti delle aspirazioni del pensiero”. (Melina Scalise)
Renato Cerisola. E-motion: motus animae
Renato Cerisola è un fotografo con la straordinaria capacità di immortalare attraverso l’obiettivo della macchina fotografica ciò che guarda con la stessa dinamicità che usa il pittore nel riportare sulla tela le immagini colte dall’occhio e tradotte attraverso il gesto. La foto è per Cerisola il punto di partenza, lo strumento da cui attingere forme e colori. Il rigore della fotografia si perde attraverso i suoi interventi in ripresa. Così la linea sfuma i suoi contorni, l’oggetto si plasma, il colore di sfuma e addensa fino quasi a prevalere sulla forma. E’ come se Cerisola non ritraesse solo l’oggetto, ma lo sguardo stesso di chi lo osserva.
Il soggetto della foto è intriso dei movimenti dell’osservatore, del suo occhio che lo scruta da destra a sinistra, dall’alto in basso; dei suoi umori che cambiano la saturazione dei colori regalando generosamente blu e rossi e gialli. Nulla è statico, tutto si muove perché il cambiamento sta nella natura delle cose. Per Cerisola l’uomo non si libera da questa dinamicità neppure quando usa una macchina fotografica per cogliere l’attimo, per catturarlo per sempre. Lì, su quella foto il tempo scorre ancora, scorre sempre perché quell’oggetto è lì per chi lo guarda, per chi ne vuole sentire il suo profumo, per chi vuole sentire il suo calore, toccare la sua forma. Le foto di Cerisola non si possono solo vedere, ma anche ascoltare, perché la luce non imprimere solo la retina, ma tutto l’universo interiore.
Alessandro Docci. Mimetismo Urbano
Alessandro Docci ripensa al contesto urbano in chiave ludica e creativa cercando e trovando nell’assetto urbanistico di alcune città una visione immaginaria che restituisce all’abitare umano un riferimento con il mondo animale. La città, nonostante l’apparente lontananza dall’ambiente naturale, assume sembianze che non si discostano da ciò che si conosce in natura. Docci, forte di questa intuizione si trasforma in un cacciatore e, come nelle favole, trova, nella planimetria di ciascuna città, un animale imprigionato per la sua “tavola” in ogni città. Così nella planimetria aerea di Milano scopriamo un’aquila, in quella di Roma una lupa, in quella di Cagliari un passero, in quella di Firenze una cavalletta, in quella di Campobasso un Capriolo e così via. Le mostre di Spazio Tadini dedicate alla città non potevano mettere da parte questo artista fuori dal coro che ha elevato lo sguardo dalla terra al cielo e, grazie alle occasioni offerte da Google Maps è riuscito a fare un ritratto nuovo di ogni città, ma soprattutto ha giocato con il loro aspetto estraendolo da un contesto ricco di accenti negativi (l’edificazione e abusivismo selvaggio etc) per ricollocarlo nel piacere della costruzione, dell’inventiva, della creatività di cui l’uomo non può privarsi perché strumento di crescita evolutiva.
Docci ha riguardato le planimetrie delle città con gli occhi di un bambino volando attraverso le mappe di Google e dopo la scoperta del primo animale, si è trasformato in un cacciatore insaziabile tanto da produrre una cinquantina di tele: mimetismo urbano. “Volevo onorare un’importante data storica come quella dei 150 anni dell’Unità di Italia scoprendo realtà nascoste all’interno di un tessuto urbano di cui raramente si va oltre l’evidenza – racconta il pittore Alessandro Docci- così è nata la mostra e credo che solo l’arte è in grado di farci osservare le cose in modo differente”. Alessandro Docci è nato a Desio (MB) nel 1951. Dal 1990 si dedica interamente alla pittura, imponendo il suo talento innovativo e visionario capace di cogliere, nelle piccole cose di ogni giorno, impressioni ricche di inattese sfumature.
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