The Language of Flowers

© Valérie Belin / Jérôme de Noirmont, Paris | Valerie Belin, Calendula (Marigold)
Dal 13 Marzo 2015 al 20 Settembre 2015
Firenze
Luogo: Gucci Museo
Indirizzo: piazza della Signoria
Orari: 10-20; giovedì 10-23
Curatori: Martin Bethenod
Costo del biglietto: € 6
Telefono per informazioni: +39 055 75923302
E-Mail info: guccimuseo@it.gucci.com
Sito ufficiale: http://www.guccimuseo.com
Curata da Martin Bethenod, direttore di Palazzo Grassi – Punta della Dogana, “The Language of Flowers”, riunisce al Gucci Museo le opere di 4 artisti, realizzate tra il 1967 e il 2012, che giocano con l’iconografia dei fiori, un richiamo a uno dei motivi più iconici della Maison Gucci.
Al di là del modello che si potrebbe considerare leggero o banale, i temi che affiorano sono quelli della memoria, della vanità, della politica, del valore dell’arte…
In Calendula (Marigold), 2010 e Phlox New Hybrid (with Dahlia Redskin), 2010, Valérie Belin, fotografa francese nata nel 1964, abbina volti femminili e motivi floreali, creando una sorta di ibridi, nel senso botanico del termine, che raccontano l’ambiguità tra umanità e mondo vegetale, natura e artificio, reale e virtuale, presenza e assenza, seduzione e freddezza.
Einder, 2007–2008, di Marlene Dumas (nata in Sudafrica nel 1953) cela un malinconico segreto: questa composizione floreale che fluttua su un mare blu notte è quella che si trovava sulla bara della madre dell’artista, deceduta poco tempo prima. Dietro la sua bellezza e la delicatezza dei colori, si nascondono ricordi, dolore e lutto.
Il fulcro di Fantôme (Jasmin), 2012, di Latifa Echakhch (nata in Marocco nel 1974), è il gelsomino, o meglio le ghirlande di fiori che i venditori ambulanti offrono ai passanti nelle città mediorientali, legato a un ricordo dell’artista: un venditore ambulante di gelsomini di Beirut che, per proteggere il profumo e la freschezza dei suoi fiori, li copriva con una camicia. Questa scultura dall’apparente fragilità evoca le rivoluzioni della primavera araba e la resistenza al caos, dove i fiori diventano una metafora politica.
I due dittici del fotografo americano Irving Penn (1917–2009), Cottage Tulip, Sorbet, New York, 1967 e Single Oriental Poppy, 1968, sono realizzati secondo il principio dell’associazione di un’immagine in bianco e nero e della stessa immagine a colori. Questi pezzi storici mostrano entrambi, per il classicismo della composizione e per la meticolosa attenzione alla stampa (al platino per il bianco e nero e dye transfer per il colore), le dimensioni di totale controllo formale, di ricerca della perfezione assoluta e, al contempo, la consapevolezza dello scorrere del tempo e della vanità delle cose che segnano così profondamente l’opera di questo maestro della fotografia.
Al di là del modello che si potrebbe considerare leggero o banale, i temi che affiorano sono quelli della memoria, della vanità, della politica, del valore dell’arte…
In Calendula (Marigold), 2010 e Phlox New Hybrid (with Dahlia Redskin), 2010, Valérie Belin, fotografa francese nata nel 1964, abbina volti femminili e motivi floreali, creando una sorta di ibridi, nel senso botanico del termine, che raccontano l’ambiguità tra umanità e mondo vegetale, natura e artificio, reale e virtuale, presenza e assenza, seduzione e freddezza.
Einder, 2007–2008, di Marlene Dumas (nata in Sudafrica nel 1953) cela un malinconico segreto: questa composizione floreale che fluttua su un mare blu notte è quella che si trovava sulla bara della madre dell’artista, deceduta poco tempo prima. Dietro la sua bellezza e la delicatezza dei colori, si nascondono ricordi, dolore e lutto.
Il fulcro di Fantôme (Jasmin), 2012, di Latifa Echakhch (nata in Marocco nel 1974), è il gelsomino, o meglio le ghirlande di fiori che i venditori ambulanti offrono ai passanti nelle città mediorientali, legato a un ricordo dell’artista: un venditore ambulante di gelsomini di Beirut che, per proteggere il profumo e la freschezza dei suoi fiori, li copriva con una camicia. Questa scultura dall’apparente fragilità evoca le rivoluzioni della primavera araba e la resistenza al caos, dove i fiori diventano una metafora politica.
I due dittici del fotografo americano Irving Penn (1917–2009), Cottage Tulip, Sorbet, New York, 1967 e Single Oriental Poppy, 1968, sono realizzati secondo il principio dell’associazione di un’immagine in bianco e nero e della stessa immagine a colori. Questi pezzi storici mostrano entrambi, per il classicismo della composizione e per la meticolosa attenzione alla stampa (al platino per il bianco e nero e dye transfer per il colore), le dimensioni di totale controllo formale, di ricerca della perfezione assoluta e, al contempo, la consapevolezza dello scorrere del tempo e della vanità delle cose che segnano così profondamente l’opera di questo maestro della fotografia.
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