Le statue calde. Scultura - corpo - azione, 1945 - 2013
Dal 18 Gennaio 2014 al 08 Marzo 2014
Firenze
Luogo: Museo Marino Marini
Indirizzo: piazza San Pancrazio
Orari: 10-17;chiuso martedì, domenica e festivi
Curatori: Simone Menegoi, Barbara Meneghel
Costo del biglietto: intero € 6, ridotto € 4, studenti € 3
Telefono per informazioni: +39 055 219432/ 055 2347273
E-Mail info: info@museomarinomarini.it
Sito ufficiale: http://www.museomarinomarini.it
Il museo Marino Marini inaugura sabato 18 gennaio 2014 la mostra Le statue calde. Scultura – corpo – azione, 1945-2013, a cura di Simone Menegoi con l’assistenza curatoriale di Barbara Meneghel. La mostra fa parte del ciclo EARLY ONE MORNING, programma espositivo dedicato al tema della scultura e della sua interpretazione dagli anni Sessanta ad oggi, ideato e curato da Alberto Salvadori, direttore artistico del Museo.
Le statue calde indaga il rapporto fra scultura, corpo e azione nel secondo dopoguerra, concentrandosi principalmente sull’arte italiana. Cerca di mettere a fuoco due idee fra loro complementari: da un lato, la scultura che si fa estensione del corpo; dall’altro, il corpo che si fa scultura.
In mostra, opere realizzate nell’arco di quasi settant’anni da artisti di almeno tre generazioni diverse: Alis/Filliol, Monica Bonvicini, Claudia Castellucci, Gianni Colombo, Gabriele Devecchi, Ugo La Pietra, Eva Marisaldi, Marcello Maloberti, Piero Manzoni, Giovanni Morbin, Bruno Munari, Gianni Pettena, Marinella Pirelli, Michelangelo Pistoletto, Franz Erhard Walther, Gilberto Zorio, Italo Zuffi. Sono opere create con l’intento di essere manipolate. Opere su cui camminare e su cui sedersi, da impugnare e da sollevare, da indossare e perfino da prendere a calci. Oggetti dalla forma essenziale, realizzati spesso con materiali ordinari: una pedana di legno, un tubo di ottone ricurvo, una piccola costruzione di mattoni di cemento. Sollecitano l’intervento di un corpo, al quale si offrono come sostegni, protesi, utensili. La pedana diventa allora un piedistallo che trasforma “magicamente” chi vi sale sopra in scultura (Piero Manzoni, Base magica, 1961); il tubo si rivela un singolare strumento – con tanto d’istruzioni per l’uso – per parlare a sé stessi (Giovanni Morbin, Strumento a perdifiato, 1995); la costruzione in mattoni serve a esibirsi nell’atto di fare delle flessioni (Marcello Maloberti, Messe en français, 2013). Mentre compie le azioni previste, il corpo stesso diventa scultura, anzi, statua: statua animata, “statua calda” (come scrive in una sua poesia Claudia Castellucci) idealmente in dialogo con le sculture figurative di Marini.
Le opere esposte sembrano invocare un ambito disciplinare a sé stante. All’idea tradizionale di scultura come oggetto autosufficiente e offerto alla contemplazione, oppongono la partecipazione attiva dello spettatore. Alla volatilità delle performing arts oppongono la persistenza dell’oggetto-scultura. All’utilitarismo del design oppongono una finalità estetica e ludica. Definizioni e categorie tendono a sovrapporsi e sfumare: di Bruno Munari, a suo agio tanto nei panni di designer quanto in quelli di artista, si è scelto di esporre una sedia; ma è una sedia dalla seduta fortemente inclinata in avanti, su cui è impossibile sedersi per più di qualche secondo. (Il titolo, perfidamente ironico, è Sedia per visite brevissime; l’anno, con geniale anticipo sui tempi, il 1945).
Una panoramica completa degli artisti e delle opere pertinenti a questa idea di “scultura performativa” non è negli obiettivi della mostra. Si è scelto di procedere per campionature, per esempi, per punti essenziali. Il percorso inizia cronologicamente con tre artisti legati alla brevissima e folgorante esperienza della galleria milanese Azimut (1959), divisi fra provocazioni neo-dadaiste (Piero Manzoni) e un approccio quasi scientifico al problema di includere lo spettatore, con le sue facoltà percettive e motorie, nell’opera (Gianni Colombo, Gabriele Devecchi). Due artisti del gruppo originario dell’Arte Povera, Michelangelo Pistoletto e Gilberto Zorio, esemplificano l’attenzione per il corpo e i gesti (anche quotidiani) del movimento tenuto a battesimo da Germano Celant; un terzo artista dell’Arte Povera, Luciano Fabro, insieme alla critica d’arte e teorica del femminismo Carla Lonzi, è protagonista di una azione scultorea ripresa e rielaborata in video da Marinella Pirelli. Ugo La Pietra e Gianni Pettena sono chiamati a rappresentare l’affascinante esperienza della cosiddetta “Architettura radicale” degli anni Sessanta e Settanta, in cui l’architettura, emancipata dall’attività del costruire, dava vita a situazioni effimere, oppure a oggetti ibridi e portatili, abiti-abitacoli. Della galassia di esperienze più recenti, difficile da riassumere e classificare, la mostra presenta quattro esempi particolarmente significativi. Monica Bonvicini imposta in modo aggressivo e quasi sfrontato il rapporto fra il corpo, sempre connotato sessualmente, e ciò che lo contiene e lo imprigiona, in primo luogo l’architettura. Marcello Maloberti rielabora poeticamente gesti, immagini e materiali prelevati dalla vita quotidiana di qualunque città del mondo occidentale. Eva Marisaldi coltiva intuizioni singolari e delicate sul rapporto fra artista, opera e spettatore. Italo Zuffi crea oggetti che colloca al centro di performance dall’indole agonistica e sottilmente crudele. A fare idealmente da ponte fra la generazione dei quarantenni e quella precedente è Giovanni Morbin (1956), il cui lavoro dialoga consapevolmente con le esperienze degli anni Sessanta attraverso sculture/strumenti dall’aspetto minimale e dall’uso paradossale.
Le ricerche italiane dialogano con quelle internazionali: le affinità, le filiazioni, i legami fra le une e le altre sono molto fitti. A titolo di esempio di questi rapporti, sono state incluse nella mostra due opere seminali di Franz Erhard Walther, artista tedesco nato nel 1939 la cui opera di scultore (oggetto, negli ultimi anni, di una vera e propria riscoperta a livello internazionale) si articola interamente intorno al rapporto fra corpo, spazio e gesto. È lo stesso Walther a raccontare come, all’inizio degli anni 1960, nel percorso di radicale ripensamento della scultura che aveva intrapreso in solitudine, Manzoni gli apparisse come uno dei pochi riferimenti possibili a livello internazionale.
Laddove sia possibile, tutte le opere destinate all’uso sono effettivamente manipolabili dagli spettatori. Di alcuni pezzi storici e particolarmente fragili (Devecchi, Manzoni, Pistoletto, Walther) sono presentate copie da esposizione, autorizzate dagli artisti o dai loro archivi, che possono essere adoperate. Solo in determinati casi i lavori sono esposti come “normali” sculture, eventualmente accompagnate dalla documentazione relativa al loro uso (o al limite rimpiazzate da essa).
Un asciutto “manuale di istruzioni” per l’uso delle opere, illustrato da disegni del performer e artista Marco Mazzoni, sarà a disposizione dei visitatori. Inoltre, in alcuni momenti della mostra, le opere saranno attivate da performer del collettivo artistico FOSCA (www.fosca.eu).
Le statue calde indaga il rapporto fra scultura, corpo e azione nel secondo dopoguerra, concentrandosi principalmente sull’arte italiana. Cerca di mettere a fuoco due idee fra loro complementari: da un lato, la scultura che si fa estensione del corpo; dall’altro, il corpo che si fa scultura.
In mostra, opere realizzate nell’arco di quasi settant’anni da artisti di almeno tre generazioni diverse: Alis/Filliol, Monica Bonvicini, Claudia Castellucci, Gianni Colombo, Gabriele Devecchi, Ugo La Pietra, Eva Marisaldi, Marcello Maloberti, Piero Manzoni, Giovanni Morbin, Bruno Munari, Gianni Pettena, Marinella Pirelli, Michelangelo Pistoletto, Franz Erhard Walther, Gilberto Zorio, Italo Zuffi. Sono opere create con l’intento di essere manipolate. Opere su cui camminare e su cui sedersi, da impugnare e da sollevare, da indossare e perfino da prendere a calci. Oggetti dalla forma essenziale, realizzati spesso con materiali ordinari: una pedana di legno, un tubo di ottone ricurvo, una piccola costruzione di mattoni di cemento. Sollecitano l’intervento di un corpo, al quale si offrono come sostegni, protesi, utensili. La pedana diventa allora un piedistallo che trasforma “magicamente” chi vi sale sopra in scultura (Piero Manzoni, Base magica, 1961); il tubo si rivela un singolare strumento – con tanto d’istruzioni per l’uso – per parlare a sé stessi (Giovanni Morbin, Strumento a perdifiato, 1995); la costruzione in mattoni serve a esibirsi nell’atto di fare delle flessioni (Marcello Maloberti, Messe en français, 2013). Mentre compie le azioni previste, il corpo stesso diventa scultura, anzi, statua: statua animata, “statua calda” (come scrive in una sua poesia Claudia Castellucci) idealmente in dialogo con le sculture figurative di Marini.
Le opere esposte sembrano invocare un ambito disciplinare a sé stante. All’idea tradizionale di scultura come oggetto autosufficiente e offerto alla contemplazione, oppongono la partecipazione attiva dello spettatore. Alla volatilità delle performing arts oppongono la persistenza dell’oggetto-scultura. All’utilitarismo del design oppongono una finalità estetica e ludica. Definizioni e categorie tendono a sovrapporsi e sfumare: di Bruno Munari, a suo agio tanto nei panni di designer quanto in quelli di artista, si è scelto di esporre una sedia; ma è una sedia dalla seduta fortemente inclinata in avanti, su cui è impossibile sedersi per più di qualche secondo. (Il titolo, perfidamente ironico, è Sedia per visite brevissime; l’anno, con geniale anticipo sui tempi, il 1945).
Una panoramica completa degli artisti e delle opere pertinenti a questa idea di “scultura performativa” non è negli obiettivi della mostra. Si è scelto di procedere per campionature, per esempi, per punti essenziali. Il percorso inizia cronologicamente con tre artisti legati alla brevissima e folgorante esperienza della galleria milanese Azimut (1959), divisi fra provocazioni neo-dadaiste (Piero Manzoni) e un approccio quasi scientifico al problema di includere lo spettatore, con le sue facoltà percettive e motorie, nell’opera (Gianni Colombo, Gabriele Devecchi). Due artisti del gruppo originario dell’Arte Povera, Michelangelo Pistoletto e Gilberto Zorio, esemplificano l’attenzione per il corpo e i gesti (anche quotidiani) del movimento tenuto a battesimo da Germano Celant; un terzo artista dell’Arte Povera, Luciano Fabro, insieme alla critica d’arte e teorica del femminismo Carla Lonzi, è protagonista di una azione scultorea ripresa e rielaborata in video da Marinella Pirelli. Ugo La Pietra e Gianni Pettena sono chiamati a rappresentare l’affascinante esperienza della cosiddetta “Architettura radicale” degli anni Sessanta e Settanta, in cui l’architettura, emancipata dall’attività del costruire, dava vita a situazioni effimere, oppure a oggetti ibridi e portatili, abiti-abitacoli. Della galassia di esperienze più recenti, difficile da riassumere e classificare, la mostra presenta quattro esempi particolarmente significativi. Monica Bonvicini imposta in modo aggressivo e quasi sfrontato il rapporto fra il corpo, sempre connotato sessualmente, e ciò che lo contiene e lo imprigiona, in primo luogo l’architettura. Marcello Maloberti rielabora poeticamente gesti, immagini e materiali prelevati dalla vita quotidiana di qualunque città del mondo occidentale. Eva Marisaldi coltiva intuizioni singolari e delicate sul rapporto fra artista, opera e spettatore. Italo Zuffi crea oggetti che colloca al centro di performance dall’indole agonistica e sottilmente crudele. A fare idealmente da ponte fra la generazione dei quarantenni e quella precedente è Giovanni Morbin (1956), il cui lavoro dialoga consapevolmente con le esperienze degli anni Sessanta attraverso sculture/strumenti dall’aspetto minimale e dall’uso paradossale.
Le ricerche italiane dialogano con quelle internazionali: le affinità, le filiazioni, i legami fra le une e le altre sono molto fitti. A titolo di esempio di questi rapporti, sono state incluse nella mostra due opere seminali di Franz Erhard Walther, artista tedesco nato nel 1939 la cui opera di scultore (oggetto, negli ultimi anni, di una vera e propria riscoperta a livello internazionale) si articola interamente intorno al rapporto fra corpo, spazio e gesto. È lo stesso Walther a raccontare come, all’inizio degli anni 1960, nel percorso di radicale ripensamento della scultura che aveva intrapreso in solitudine, Manzoni gli apparisse come uno dei pochi riferimenti possibili a livello internazionale.
Laddove sia possibile, tutte le opere destinate all’uso sono effettivamente manipolabili dagli spettatori. Di alcuni pezzi storici e particolarmente fragili (Devecchi, Manzoni, Pistoletto, Walther) sono presentate copie da esposizione, autorizzate dagli artisti o dai loro archivi, che possono essere adoperate. Solo in determinati casi i lavori sono esposti come “normali” sculture, eventualmente accompagnate dalla documentazione relativa al loro uso (o al limite rimpiazzate da essa).
Un asciutto “manuale di istruzioni” per l’uso delle opere, illustrato da disegni del performer e artista Marco Mazzoni, sarà a disposizione dei visitatori. Inoltre, in alcuni momenti della mostra, le opere saranno attivate da performer del collettivo artistico FOSCA (www.fosca.eu).
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