“Gauguin a Tahiti. Il paradiso perduto” al cinema dal 25 al 27 marzo

Oltre il mito di Tahiti: con Maria Grazia Messina nel sogno esotico di Gauguin

Paul Gauguin, Da dove veniamo? Chi siamo? Dove andiamo?, 1897, Olio su tela, 374.6 x 139.1 cm, Boston, Museum of Fine Arts
 

Francesca Grego

24/03/2019

Roma - Marsiglia, aprile 1891: un uomo inquieto si imbarca sulla nave Océanien, con destinazione Tahiti. Sostiene di essere “un selvaggio, un lupo nel bosco senza collare”. In Polinesia, da poco colonia francese, Paul Gauguin andrà a cercare i germi di un’arte autentica, non corrotta dalle menzogne della civiltà. Ma può essere autentico il suo sguardo? Può davvero lasciarsi alle spalle 43 anni di esistenza borghese, la storia dell’arte occidentale, gli stereotipi del colonialismo giunto alla stretta finale? Che cosa c’è dietro quello che oggi appare semplicemente come un inebriante sogno tropicale?
Una personalità ribelle e spregiudicata, gli sviluppi interni all’arte, la storia e la cultura di un’epoca si intrecciano inestricabilmente nelle vicende di uno dei più grandi artisti di sempre.
 
In occasione dell’uscita del documentario Gauguin a Tahiti. Il paradiso perduto, ne parliamo con Maria Grazia Messina, autrice del volume Le muse d’oltremare. Esotismo e primitivismo dell’arte contemporanea, già docente di storia dell’arte contemporanea all’Università di Firenze e curatrice della mostra Je suis l’autre. Giacometti, Picasso e gli altri. Il primitivismo nella scultura del Novecento, da poco conclusa alle Terme di Diocleziano.  
 
“Per comprendere l’esotismo di Gauguin è indispensabile una premessa” spiega la professoressa Messina: “Siamo negli anni d’oro dell’Impressionismo: una pittura retinica, che restituisce l’apparenza cangiante ed effimera della realtà del momento.
Negli anni Ottanta dell’Ottocento emerge una generazione di artisti che si oppone a questa concezione dell’arte: Paul Cézanne, George Seurat, Gauguin e lo stesso Van Gogh sostengono che l’opera debba cogliere non l’apparenza ma la sostanza, appoggiandosi a ciò che si ricorda o che si sa - e non più alla vista - per cogliere i tratti essenziali delle cose. Per far questo diventa necessario recuperare un occhio vergine, non ancora acculturato, capace di procedere per simboli e grandi metafore, che questi pittori rintracciano nelle culture arcaiche.
L’idea di sintesi e di semplificazione viene così a coincidere con la ricerca delle origini dell’espressione artistica: se all’inizio artisti come Seurat riscoprono l’arte egizia o quella greca preclassica, in seguito, sulla scia delle conquiste coloniali, diventa un imperativo estendere lo sguardo alle culture allora ritenute primitive, ancora allo stato selvaggio”.
 
È il caso di Gauguin…
“Gauguin fa un primo tentativo in questo senso spostandosi in Bretagna. A sole sei ore di treno da Parigi, trova una popolazione di contadini e pescatori rimasta ancorata a una religiosità superstiziosa e a usanze quasi medievali: una dimensione dell’esistenza che gli appare più genuina rispetto ai ritmi, alle lacerazioni, all’acculturazione della vita metropolitana.
Ma non gli basta e decide di spingersi più lontano. Inizialmente pensa di trasferirsi in Indocina, da poco sotto il dominio francese, poi opta per la Polinesia: riceve dal Ministero delle Colonie un finanziamento per documentare nei suoi quadri paesaggi e modi di vita locali”.
 
Che cosa cerca Gauguin a Tahiti?
“Il suo viaggio ha un doppio movente: uno ideale e uno più concreto. Quello ideale è il desiderio di ritrovare una sorta di integrità originaria immergendosi in una cultura rimasta a uno stadio primario, innocente o supposto tale. La speranza è quella di trovare residui di sculture o incisioni che possano servire da spunto per un rinnovamento del linguaggio artistico, stili lontani dal naturalismo e dalla tradizione prospettica occidentale.
Inoltre Gauguin registra pienamente la condizione di alterità dell’artista rispetto alla società nata in Europa dalla Rivoluzione Industriale: in un mondo dove la produzione è tutta affidata alla tecnologia anonima della macchina, dove l’unicità dell’opera è minacciata dalla riproducibilità tecnica, con il suo sapere artigianale l’artista è un diverso, una persona non al passo con i tempi, in un certo senso un emarginato, basti pensare al caso di Van Gogh. A Gauguin la Polinesia appare il luogo ideale per sfuggire a tutto questo”.
 
E il movente concreto qual è?
“Come dicevamo, c’è anche un movente meno nobile. Gauguin aveva una personalità estremamente spregiudicata: aveva lavorato a lungo come agente di borsa, procurandosi una certa agiatezza, e avrebbe continuato a farlo se nel 1883 non ci fosse stato il grande crack della Borsa di Parigi.
In una lettera scritta all’amico Émile Bernard leggiamo: ‘viaggio in Polinesia per cercare nuovi soggetti e tematiche per lo stupido pubblico acquirente’. Qui le isole del Pacifico sono viste come la nuova frontiera dell’esotismo orientalista, una corrente di grande successo inaugurata intorno al 1830 dai viaggi di pittori come Eugène Delacroix nelle colonie del Maghreb. Insieme ai costumi pittoreschi di popolazioni ancora poco conosciute, gli orientalisti avevano portato in Francia nuovi stili: una tavolozza più chiara e potenti effetti cromatici derivati dalla luce intensa del Mediterraneo meridionale. Le immagini di Tahiti avrebbero dovuto ridare slancio alla pittura orientalista messa in crisi dall’affermarsi dell’Impressionismo.
Queste motivazioni sono cruciali nel primo soggiorno dell’artista in Polinesia, dal 1891 al 1893: due anni densissimi di lavoro, in cui Gauguin diventa quasi un pittore etnografo, che attraverso ritratti, paesaggi, nature morte, scene di nativi – soprattutto donne - colti nelle loro mansioni e nella loro quotidianità, restituiscono un’immagine della vita nelle colonie del Pacifico.
Stanco del soggiorno tahitiano, dopo due anni Gauguin torna a Parigi pensando di avere con sé un grande bottino. Ma la mostra del dicembre 1893 da Durand-Ruel - la galleria d’avanguardia che aveva fatto la fortuna degli Impressionisti - si rivela un fiasco. Una pittura così squillante nei colori, così semplificata nelle figure, decorativa nelle linee non incontra il gusto del pubblico né quello della critica. Qualcuno paragona i quadri a dei tappeti orientali”.
 
Ma l’avventura è destinata a proseguire…
“Gauguin opta per un secondo viaggio, questa volta definitivo: nel 1895 torna a Tahiti e nel 1900, con una decisione ancora più radicale, si trasferisce nel remoto arcipelago delle Isole Marchesi, dove morirà tre anni dopo. A questo punto è chiaro che sul piano economico la scelta non paga: ad animare questo secondo soggiorno è il lato ribelle che ha sempre caratterizzato la personalità di Gauguin, quello che alla decenza borghese e ai conformismi della civiltà oppone una scelta anarchica e libertaria di ricerca e condivisione dell’esistenza con le popolazioni polinesiane.
In questo periodo Gauguin vive completamente a proprie spese, attraversando momenti di estrema povertà, crisi depressive, affrontando i disagi della sua malattia e arrivando anche a tentare il suicidio. La sua pittura tuttavia tocca dei vertici nell’elaborazione di un linguaggio nuovo, fortemente simbolico e al contempo semplificato ai limiti dell’astrazione”.
 
Come è cambiato nel tempo il giudizio degli studiosi sull’esotismo di Gauguin?
“Il giudizio sull’esotismo di Gauguin oggi è molto controverso. Negli ultimi 20 anni il mito dell’artista che abbandona la cultura occidentale e ritrova la verginità perduta è stato sottoposto a importanti revisioni.
Si tratta di una lettura scaturita in gran parte scaturita dall’Esthétique du divers di Victor Ségalen, un letterato e capitano di mare che raggiunge le isole Marchesi poco dopo la morte dell’artista e recupera dalla capanna oggetti, scritti, e le ultime opere. Solo se ci confrontiamo con il diverso siamo in grado di ritrovare noi stessi: questa è la morale di Ségalen, che fa di Gauguin il pioniere di una nuova esperienza.
Negli ultimi decenni le critiche a questa lettura sono arrivate non soltanto da storici e storici dell’arte occidentali, ma anche da studiosi polinesiani che hanno portato nel dibattito il punto di vista nativo, all’interno del più ampio contesto degli studi postcoloniali”.
 
Quali novità sono emerse da queste ricerche?
“Il dibattito è legato alla natura duplice dello stesso artista. Come comunica in tante lettere e, in forma figurata, in diversi autoritratti Gauguin si sente lacerato tra due diverse identità: quella di europeo civilizzato e quella più sensibile e immediatamente ricettiva di “indiano”, come si definisce riferendosi alle origini della madre in Perù.
Con lo stesso dualismo, oggi da un lato Gauguin è visto positivamente come una sorta di etnografo ante litteram, che vivendo a stretto contatto con i nativi ha cercato di assorbire e restituire fedelmente alle coscienze occidentali le culture che il colonialismo stava prevaricando e violentando.
Dall’altra parte le nuove letture mostrano come Gauguin sia un uomo del suo tempo, che condivide pienamente gli stereotipi della propaganda coloniale. Gli si rimprovera un atteggiamento eurocentrico, patriarcale e maschilista, basti pensare alle sue relazioni con giovanissime tahitiane, che la critica femminista e gender ha interpretato come vere e proprie provocazioni”.
 
Che cosa fa Gauguin per le popolazioni indigene?
“Recupera i miti della religione Maori, che affiderà al manoscritto L’antico culto Maori del 1892, e in pittura cerca di ricostruire gli idoli statuari polinesiani: sculture grandiose, simili ai Moai dell’Isola di Pasqua, che costellavano l’arcipelago molti decenni prima del suo arrivo. Erano state abbattute per volontà di missionari cattolici e protestanti, nel quadro di una sistematica opera di cancellazione delle culture locali.
Nelle Isole Marchesi Gauguin sarà poi al centro di iniziative in difesa dei nativi contro le sopraffazioni dei missionari e dell’amministrazione coloniale francese. Queste attività gli causeranno anche dei guai con la giustizia”.
 
Che cosa condivide invece con la propaganda coloniale?
“All’epoca pamphlet, brochure e giornali illustrati invitavano i francesi a trasferirsi nelle colonie per incentivare e accelerare l’opera di educazione dei popoli sottomessi, insistendo molto sul fatto che, raggiunto l’apice del progresso, la civiltà europea sembrava avviata verso la decadenza a causa di un eccesso di acculturazione: solo a contatto con popolazioni ritenute vergini sarebbe stato possibile ritrovare purezza e slancio vitale. La ragione ideale che spinge Gauguin ad avventurarsi in Polinesia è quindi la stessa della propaganda coloniale.
La ritroviamo anche in un grande poeta di questo periodo, Arthur Rimbaud, che in Una stagione all’Inferno sostiene di dover abbandonare la corrotta civiltà occidentale per ringiovanire a contatto con le culture primitive”.
 
Si può definire autentico lo sguardo di Gauguin su Tahiti?
“Sia nel primo che nel secondo viaggio Gauguin arriva a Tahiti con un baule pieno di documenti iconografici: fotografie, stampe e in cartoline della grande arte occidentale da Giotto a Manet, nonché riproduzioni di opere di altre culture arcaiche - i templi di Giava, gli affreschi delle tombe egizie, i rilievi del Partenone di Fidia. Un corredo di riferimenti culturali che continuerà sempre a utilizzare nei suoi quadri, anche quando sostiene di operare nella verginità delle isole. La verità è che in Polinesia non ha trovato quel che cercava perché i missionari hanno già fatto piazza pulita delle testimonianze artistiche più antiche. Ha trovato oggetti intagliati con motivi decorativi, pagaie o piccoli idoli usati come amuleti, ma niente che lo colpisca veramente, come era accaduto invece in Bretagna con le sculture dei calvari.
Continua perciò a guardare alla cultura locale attraverso il suo occhio, cioè quello di un europeo acculturato. È l’unica cosa che possa fare: l’idea dell’occhio vergine è una pura mistificazione.
D’altra parte abbiamo un esempio clamoroso del suo eurocentrismo di stampo coloniale nel romanzo autobiografico Noa Noa, che in lingua maori significa “profumo”. Attraverso il profumo di Tahiti Gauguin sostiene di raccontare la propria personale esperienza sull’isola. Invece costruisce il libro sul copione di un precedente romanzo di Pierre Loti (Rarau), il fondatore dei miti dell’esotismo, appropriandosi letteralmente di alcuni brani. E a sua volta Rarau non è altro che la versione tahitiana del racconto giapponesizzante di Madame Butterfly: la storia della giovane indigena sedotta e abbandonata da uno straniero”.
 
Tornato a Parigi, Gauguin costruisce attorno a sé una leggenda a uso e consumo del pubblico occidentale: gli arredi esotici del suo studio, la scimmia e la giovane giavanese con cui si fa vedere in giro… Anche gli stereotipi di Noa Noa fanno parte di questo piano?
“Per vendere i suoi quadri Gauguin decide di fare della sua stessa esistenza un’opera d’arte: una tecnica mercantile razionale, spregiudicata e in anticipo sui tempi, che si affermerà definitivamente nell’arte del Novecento. Anche gli eccessi di un carattere ribelle e anarchico, votato al confronto aspro con gli altri, vengono assorbiti in questa strategia, per esempio il famoso episodio della rissa in Bretagna durante la quale finisce per rompersi una gamba.
Noa Noa doveva essere il manifesto del mito di Gauguin, che tuttavia non riuscì a completare il romanzo in tempo per la grande mostra da Durand-Ruelle. Ecco la lacerazione di cui parlavamo: da un lato l’idea di recuperare dagli isolani un’innocenza e una verginità originaria, dall’altra fare di se stesso uno spettacolo in Occidente per fini puramente utilitaristici”.
 
Alla luce di tutto questo, Gauguin ha davvero raggiunto la meta del suo viaggio?
“In termini esistenziali la scelta esotista era votata in partenza al fallimento: è impossibile cancellare la propria cultura. Tuttavia, nonostante i suoi lati controversi, è stata una scelta generosissima, in cui Gauguin ha rischiato la vita, ha accettato la solitudine, l’emarginazione, le sofferenze della malattia.
Sul piano artistico il discorso è completamente diverso: forse proprio grazie all’isolamento, alla lontananza dalle polemiche e dalla competizione di Parigi, la pittura di Gauguin si è sviluppata in autonomia perseguendo con forte determinazione e coerenza il progetto iniziale di una rappresentazione della realtà del tutto mentalistica, ricondotta a stilemi elementari.
In questo modo diventa centrale l’autonomia del quadro, che non funziona più tanto per quello che rappresenta – l’esotico, le donne, i paesaggi, le nature morte – quanto per la forza intrinseca dell’opera in sé: i colori non più naturali, a volte forzati, costruiscono un’armonia che ha una propria logica così come il tessuto lineare e la griglia compositiva sono indipendenti dalla resa naturalistica delle cose, diventano quasi decorazioni. Un passo importante in un percorso di autonomia dei significanti che Gauguin condivide con Cézanne, Seurat, Van Gogh e che prefigura l’astrazione del primo decennio del Novecento. Non per niente Kandinskij guarderà molto all’opera di Gauguin”.
 
Gauguin a Tahiti. Il paradiso perduto, il docu-film prodotto da 3D e Nexo Digital, su soggetto di Marco Goldin e Matteo Moneta, per la regia di Claudio Poli e con la partecipazione straordinaria di Adriano Giannini, sarà al cinema il 25, il 26 e il 27 marzo nel calendario della rassegna La Grande Arte al Cinema.
 
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