Viaggio nell'arte italiana del Novecento
courtesy © Fabio Mauri |
Novecento. Arte e storia
22/01/2001
Il Millennio si è chiuso e l’Assessorato alle Politiche Culturali del Comune di Roma, insieme all’Agenzia Romana per la preparazione del Giubileo ha realizzato la splendida rassegna “Novecento. Arte e Storia in Italia” alle scuderie Papali al Quirinale e ai Mercati di Traiano (dal 30 dicembre 2000 al 1 aprile 2001, a cura di Maurizio Calvesi e Paul Ginsborg).
Altri e molto importanti critici scriveranno di questa mostra sui giornali e ne descriveranno il percorso, le opere, tutte di sorprendente qualità. Qui si vogliono solo fare alcune riflessioni sull’arte in generale e su alcune tematiche ad essa relazionabili partendo dalla considerazione che, come è dimostrato dai capolavori esposti, l’arte italiana, nel panorama internazionale, abbia una sua precisa prerogativa che è quella di oscillare sempre nei suoi percorsi tra un desiderio di opporsi al proprio passato e una grande nostalgia per il proprio fascino e la propria grandezza. A questa oscillazione va riportata la lettura di due opere di Balla, tra le più spettacolari esposte in mostra, riportate infatti su tutti i giornali di questi giorni, a cominciare dal monumentale dipinto che sul recto porta una magnifica "Velocità astratta" del 1913 della sua stagione futurista e sul verso una roboante "Marcia su Roma" che Calvesi ricorda essere esposta nel salotto della casa dell’artista già nel 1934 ed è probabile sia stata realizzata in occasione del decennale della Marcia stessa, nel 1932, a testimonianza del suo allontanamento dalle avanguardie degli anni trenta. Anche l’altra opera, "Espansione profumo" del 1926-28 prelude all’abbandono del Futurismo e porta sul retro un "Ritratto di Primo Carnera" del 1933, ripreso dalla immagine, pubblicata con grande enfasi sui giornali, il giorno della vittoria del titolo mondiale del pugilatore italiano. C’è dunque anche qui un riavvicinamento alla figurazione, l’abbandono delle sperimentazioni, ma come viene sottolineato in catalogo Balla sembra avere intuito precocemente il significato emblematico dell’icona di massa, dell’immagine semplificata e stilizzata e anticipato, in questo modo, la poetica Pop.
La società ha trasformato l'arte o ne è stata cambiata ?
La mostra presenta un secolo non solo di arte ma anche di storia, a cura di Paul Ginsborg, raccontata in un telone che scorre sulle volte delle Scuderie e che testimonia il loro continuo intrecciarsi. Il futurismo incise, per esempio, anche sui processi politici e sui costumi dell’epoca, anche se nacque sull’onda delle emozioni dovute alle nuove scoperte scientifiche e, per arrivare al giorno d’oggi, la domanda cui si tenta di rispondere è la seguente: la società ha cambiato l’arte o essa ha condizionato, con la sua riflessione, i suoi cambiamenti?
Sulla volta delle Scuderie, per fare un esempio, si parla degli orrori della seconda guerra mondiale e degli anni della ricostruzione mentre sulle pareti sottostanti il telone, appaiono le opere di Burri, i suoi sacchi strappati e ricuciti, le plastiche combuste. Questi lavori parlano dell’uomo lacerato, confuso e ferito ma anche della sua possibilità di rinascita. I sacchi, gli stracci infatti vengono ricuciti, assemblati, talvolta anche con fili dorati e inseriti dentro una cornice a trasformarsi in oggetto prezioso, le plastiche bruciate, corrose vengono poste come icone su un altare e vogliono parlare della rinascita consapevole dell’uomo ferito e umiliato del dopo guerra.
Questo nuovo metodo di presentare le mostre, per connessioni linguistiche e non per cronologie è quello utilizzato nella Tate Modern, dal nuovo ordinamento del Pompidou, a rappresentare la conclusione di un dibattito iniziato con la fine dell’utopia positivistica ottocentesca e che ha attraversato tutto il secolo.
Nel nuovo millennio, l’esplosione delle nuove tecnologie, il mondo virtuale parallelo che si impone ormai con grande violenza e soprattutto la quantità di informazioni, difficilmente selezionabili, da cui siamo bombardati induce a riflettere su cosa dovrebbe essere il museo del prossimo millennio, che dovrà tenere conto come gli artisti futuri saranno allo stesso tempo pittori, scultori, videomakers, cineasti, musicisti. Quale progetto dunque per il millennio prossimo? La mostra invita a riflettere sulla grandezza del passato, ma può essere l’occasione per guardare avanti ad inventare nuovi modi di vivere il museo del futuro.
Gli esiti più recenti dell’arte italiana ai Mercati Traianei
Una riflessione merita l’ultima parte della mostra, quella ai Mercati Traianei. Lo spazio bellissimo (suo architetto probabile fu Apollodoro di Damasco) bene si adatta ai lavori degli artisti di oggi che si aprono allo spazio. Il pubblico meno curioso, stanco della prima parte della mostra che presenta ben 250 capolavori, non si avventurerà in questa seconda sezione che sarà visitata, al solito, da chi già ama l’arte contemporanea e la conosce e dunque non darà la possibilità ad un pubblico più vario di poter apprezzare anche gli esiti più recenti dell’arte italiana che, tranne alcuni esempi meno felici, raggiunge vette altissime. E’ importante infatti capire, qui ai Mercati come l’approccio alla terza dimensione, ad uscire fuori dalla cornice sia un problema affrontato già nei "Gobbi "di Burri o nei tagli di Fontana, si scopre in Pascali che apre (o chiude ?) la sezione delle Scuderie con il "Ponte di Liane", del 1968 ed è realizzato con la "Cassa Sistina" di Ceroli del 1966, la prima opera-ambiente nella quale lo spettatore entra ed è circondato dalle sagome di legno assemblate alle pareti.
Una piccola riflessione sugli artisti che hanno meglio interpretato lo spazio. Cominciamo con Fabio Mauri che ha presentato il "Muro Occidentale o del Pianto" del 1993. C’è in questa opera tutta la storia del Novecento e tutto il dibattito intellettuale del secolo. Cultura, natura, politica, ideologia, guerra, protesta morale possono essere rappresentati in immagini?. Mauri costruisce una compatta parete di valigie, valigie vecchie di cuoio consunto. Ce n’è una aperta che mostra l’immagine della prima interprete dell’opera "Ebrea" Paola Montenero (1971). Il muro si riferisce al Muro del Pianto di Gerusalemme, al Muro Occidentale del Tempio di Salomone e rappresenta una pira pronta per l’olocausto, ma anche la memoria del passato, in una celebrazione di tutti i viandanti, esuli, deportati del mondo di oggi.
Vogliamo parlare poi dell’opera di Luciano Fabro. "Il giorno mi pesa sulla notte VI" , 2000. Fa parte di un ciclo sulla riflessione di Fabro sulle Cosmogonie, sul rapporto tra gli astri, il tempo e le mitologie, riflessioni che hanno dato origine ad opere come "Cronos", "Il Sole", "La Luna", (1997) recentemente esposte al Palazzo delle Esposizioni nella mostra "Tempo!" . L’artista ha qui realizzato due cilindri-cartigli sui quali pesa un masso di onice grezzo che porta incise le stelle. Il blocco rappresenta la luce e gli astri che sorgono dal buio primordiale, in un caos informe e primigenio, che viene identificato da Fabro con l’istante della creazione artistica. La grandezza di Fabro consiste nel saper esprimere la potenza della materia, bellissima, forte, energica, pesante, tenuta insieme, quasi magicamente, dalla leggerezza delle spinte di forza. Una delle più riuscite installazione è quella di Eliseo Mattiacci, "Microcosmo", 2000. Lo sguardo di Mattiacci si è concentrato sempre di più nell’invisibile ma costante e sempre presente flusso di energia che ci circonda. L’energia del cosmo è qui rappresentata dalla attrazione e repulsione dei corpi celesti che sembrano sottoposti a questi flussi di energia su un mare (o un cielo) di piccole palline di acciaio con un effetto estremamente forte e poetico.
Questi artisti, più di altri hanno interpretato lo spazio, anche con opere che già facevano parte del loro corpus di opere, inserendole sulle botteghe antiche dei Mercati. Altri hanno presentato opere già fatte ma senza porsi il problema di dove e come dovessero essere presentate. Oggi ci sono troppe mostre ed è impossibile per gli artisti realizzare sempre nuove opere. Qui, poi, trattandosi di una mostra che faceva il punto su ciò che c’era stato di importante e significativo nel novecento, gli artisti hanno cercato di riproporre lavori già fatti, ma non sempre le opere presentate si sono integrate allo spazio. Questo è uno dei problemi più difficili delle installazioni, per il loro doversi inserire in altre e nuove situazioni che non sempre sono adatte al loro ricollocamento.
Secolo Italiano e Secolo Americano
Per questa mostra può essere fatto un paragone con quella “Il Secolo Americano” che il Whitney Museum ha organizzato in due fasi lo scorso anno. Fin dalla sua nascita il Whitney è dedicato esclusivamente a promuovere l’arte americana. La prima mostra era dedicata al periodo 1900-1950 e una recensione di Mauro Calamandrei sul Sole –24 Ore sottolineava come la mostra trattasse oltre alla pittura e alla scultura anche l’architettura, la danza, la fotografia, il jazz, la pubblicità, il design, la poesia, la narrativa e il cinema, sottolineando quanto l’arte e la storia del novecento abbiano un legame con le altre discipline. Questo metodo aveva trovato entusiastica accoglienza di pubblico perché dava risalto alla continuità, fluidità e coerenza della narrazione. Ma vari critici avevano espresso riserve perché la rassegna era diventata più un lungo capitolo di storia sociale che una mostra d’arte e dubbi ancora più seri erano stati avanzati sulla realizzazione della seconda parte. Questa “Il secolo americano II (1950-2000) "ha riempito i cinque piani del Museo e perfino le scale e i magazzini e ciò non è stato sufficiente a raccontarci adeguatamente quel che è avvenuto in America in quegli anni. Gli anni ’50 e ’60 sono stati senz’altro l’epoca d’oro dell’arte americana il periodo in cui gli artisti tradizionalmente considerati dalla società outsider, alienati e anormali acquistarono una grande importanza:
Si pensi a Willem De Kooning o a Franz Kline. Da un giorno all’altro gli espressionisti astratti avevano acquistato celebrità e ricchezza. Subito dopo altri artisti rompevano clamorosamente col passato e iniziavano ad esporre nei caffè, perfino nei sottosuoli delle chiese. Anni più tardi Rauschenberg e altri artisti americani trionfavano alla Biennale di Venezia mentre a New York nascevano le nuove avanguardie che si chiamavano Field Color e Op Art, minimalismo, concettualismo e Land art. Si pensi alla fortuna, così mal amministrata, di Basquiat e di Keith Haring.
Quella mostra non chiariva oltre tutto alcuni problemi legati alle relazioni tra avanguardie, mercato e collezionismo. Anche in Italia, benchè le connessioni con il mercato e il collezionismo siano state molto meno vivaci, dovevano essere forse poste in evidenza alcune difficoltà, quelle per esempio che i nostri artisti trovano nel cimentarsi con lo spazio per le poche occasioni loro offerte dalle istituzioni o dai privati: o anche far emergere come nonostante questo i nostri artisti, si pensi a quelli dell’Arte Povera, siano apprezzati nel mondo.
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