La pittrice di ritratti
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Micheline Roquebrune Connery
26/02/2004
Micheline Connery non vive affatto all’ombra del marito Sean, la sua pittura la segue da molto più a lungo del suo matrimonio con il James Bond più famoso del mondo. Ha una energia evidente e coinvolgente e l’intervista immaginata come una serie di domande e risposte si rivela invece una piacevole chiacchierata alla scoperta di una pittrice appassionata dei colori e della luce, con una gioia di vivere trascinante.
Quando ha cominciato a dipingere?
"Non ho mai preso un pennello in mano fino a 22 anni. La pittura e l’arte in realtà mi annoiavano molto. La casa dei miei genitori in Tunisia era sempre frequentata da pittori e artisti che mi chiedevano continuamente di far loro da modella e non mi piaceva per niente, mi dava fastidio stare ferma senza parlare. Poi un giorno, ero già sposata e vivevo a Parigi, entrai a guardare i quadri esposti in una galleria privata: li trovavo piuttosto mediocri tanto che mi dissi che ero capace persino io di farne di migliori. Così sono tornata a casa e con una matita e un foglio di carta mi sono fatta un autoritratto. Ed è venuto talmente rassomigliante che ho deciso di continuare."
La sua arte da allora ad oggi è cambiata?
"No, in realtà no. Non disegno meglio oggi della prima volta che ho cominciato, sapevo farlo allora senza essere mai andata a scuola e so farlo anche adesso. E’ stata la scoperta più straordinaria della mia vita. Non uso il ragionamento quando mi metto davanti al quadro, al contrario, guardo solamente e faccio. Dipingere è un lavoro molto umile che deve eliminare ogni tipo di razionalità, senza discussione. Io eseguo umilmente quello che vedo."
Cosa è successo dopo la sua prima prova allo specchio?
"Ho cominciato a fare i ritratti. La cosa che all’inizio trovavo piuttosto divertente era che mi pagavano cifre sempre più alte. Mi sentivo imbarazzata a farmi pagare così tanto, anche perché ero cosciente di essere totalmente autodidatta, di non aver preso una sola lezione di disegno o di pittura. Non ho mai avuto bisogno di vendere i miei quadri per vivere e questo mi ha dato la libertà di dipingere e di vendere solo se i committenti mi confidavano di adorare il ritratto che facevo loro, non amarlo semplicemente, ma letteralmente adorarlo. Me ne sono stati commissionati più o meno 52, tra i quali il re del Marocco. Avevo riscosso un tale successo che mi sono ritrovata a fare 18 ritratti in nove mesi. Mi sentivo una catena di montaggio. A quel punto ho deciso di smettere e dedicarmi ad altri soggetti."
Perché ha cominciato con i ritratti? Per un debuttante è piuttosto difficile come tecnica?
"Il mio ritratto ha segnato questo debutto e visto quanto era venuto somigliante ho semplicemente continuato a fare la prima cosa che mi era venuta così bene. Il fatto di fare dei buoni ritratti non è necessariamente sintomo di arte, ma semplicemente di talento. O lo si fa bene oppure no. Alcuni pittori dipingono cose bellissime senza riuscire a fare i ritratti altri invece ne fanno di splendidi restando però pittori mediocri. Il solo talento che possiedo è saper vedere, so guardare cose e persone. Sono in realtà piuttosto limitata, e quando so fare una cosa la faccio e basta. Ho una grande libertà di approccio alla pittura, anche se questo mi fa sentire impreparata ogni volta che intraprendo un nuovo quadro. Ho spesso la sensazione di non essere più in grado di fare nulla, di aver dimenticato tutto dall’ultima volta."
Quando ha cominciato ad esporre i suoi quadri?
"Non molto tempo fa a dire la verità, anche se poi me lo si chiedeva da tempo. Per esempio un mio quadro è stato scelto per la collezione permanente del First National Museum of Women Art in Washington, un museo dedicato esclusivamente all’arte femminile, creato in un vecchio tempio massonico. Ci sono le più grandi pittrici del mondo, Vera da Silva Georgia O’Keefe. In seguito la direzione mi ha chiesto più volte di esporre fino a quando poi mi sono decisa. E’ una storia piuttosto curiosa tra l’altro."
La prego me la racconti…
"L’agente americano di Sean era appassionato di pittura ma io trovavo veramente brutti tutti i quadri che comprava. Una sera eravamo stati invitati a cena a casa sua e mi fece come al solito vedere il suo ultimo acquisto. Una tela bianca. Cominciai a prenderlo in giro dicendo che era veramente un quadro bellissimo e anzi il più bello fra tutti quelli che possedeva. Poi alla fine non riuscendo più a resistere gli dissi che il gallerista che gli aveva venduto il quadro era un genio e anche l’artista era un genio, e l’unico stupido era lui. Gli suggerii di aggiungere al quadro una didascalia con la frase di Paul Valery “La più bella opera d’arte potrebbe essere una pagina bianca” per dare un po’ di significato a quella “merda bianca”. Ma la cosa buffa è che quando sono andata a vedere a teatro la pièce “Art” scritta da Yasmina Rehza, ho avuto una folgorazione perché è la storia della distruzione di una lunga amicizia a causa proprio di una tela bianca acquistata da uno dei tre. Ho comprato i diritti dell’opera e l’ho prodotta insieme a Sean, portandola prima in Inghilterra e poi a New York dove ha persino vinto un Tony Award. A quel momento ho colto l’occasione e visto che il Museo di Washington insisteva ancora tanto per una mostra dei miei quadri, ho organizzato in quella bella sede una “Serata d’Arte”, durante la quale si sarebbe prima vista la mostra e poi l’opera teatrale. E’ successo solamente lo scorso anno."
La sua amicizia con l’agente americano non si è rovinata spero?
"No, assolutamente, però ha venduto quell’orribile quadro."
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