Nelle sale italiane il Giacometti di Stanley Tucci

Final Portrait – La nostra recensione

Geoffrey Rush e Armie Hammer in Final Portrait
 

Francesca Grego

05/02/2018

Ha il passo leggero James Lord: giovane, ricco ed elegante, si muove in una Parigi da cartolina al suono allegro di un accordéon. È il 1964, i fascinosi rigori dell’Esistenzialismo stanno già sfumando in un’epoca nuova, ma la capitale francese è ancora il set di una vacanza da sogno per uno scrittore americano.
Nei suoi pensieri, una promessa entusiasmante: un ritratto del celebre Alberto Giacometti, per cui poserà nell’ultimo pomeriggio prima di tornare negli States.

Il numero 46 di rue Hippolyte-Maindron è una porta come tante. Ma quando si apre la musica tace, la luce sfuma. Attrezzi e sculture non finite si affastellano tra la polvere in una stanza triste che sa di stantio.
“Da un lato sembri un bruto, dall’altro un delinquente”, dice senza mezzi termini l’artista girando attorno al volto del suo nuovo modello: “Ti arresterebbero immediatamente, se ti dipingessi così come ti vedo. Ma non temere: questo è impossibile”.
 
Per Lord, e per noi insieme a lui, è l’inizio di un viaggio in una dimensione insospettata: nel lato oscuro di un pilastro del Modernismo, nei tormenti connaturati alla creazione di un genio lunatico, sregolato e perennemente insoddisfatto.
Ad accompagnarci con ironia e leggerezza è Stanley Tucci, noto al grande pubblico nelle vesti di attore (dal debutto in L’Onore dei Prizzi a Il bacio della morte, Era mio padre, The Terminal, Conspiracy, Amabili resti), che tuttavia ha mostrato il suo talento di regista fin dall’opera prima, un gioiellino come Big Night (1996).
“Sono cresciuto in una famiglia che ha sempre amato l’arte”, racconta Tucci durante la presentazione di Final Portrait - L'arte di essere amici nella Capitale, “Mio padre era un artista e insegnava storia dell’arte a scuola. Per un anno abbiamo vissuto anche a Firenze, dove ho scoperto il Rinascimento italiano e ho studiato disegno”.

“Giacometti è uno degli artisti più interessanti che io conosca”, continua il regista: “In particolare trovo che le sue sculture abbiano un valore fuori dal tempo, potrebbero appartenere indifferentemente alla preistoria o al contemporaneo. E il libro autobiografico di James Lord da cui è tratto questo film – Un ritratto di Giacometti - è uno dei migliori che siano stati scritti sui processi all’origine dell’arte”.
 
Nei panni dei protagonisti, il premio Oscar Geoffrey Rush (Alberto Giacometti) e il giovane Armie Hammer (James Lord), ultimamente sulla cresta dell’onda grazie al ruolo di primo piano in Chiamami col tuo nome di Luca Guadagnino.
Intorno a loro si muovono il bravo Tony Shalhoub, che interpreta Diego Giacometti, fratello dell’artista, e due figure femminili molto diverse tra loro, Sylvie Testud - la bistrattata moglie Annette, con l’anima coperta di polvere dall’aria mortifera dello studio - e Clémence Poésy, giovane prostituta e amante di Alberto, un raggio di sole, incoscienza e ambiguità.
“Prima di iniziare a girare abbiamo provato insieme per un’intera settimana, come per una pièce teatrale”, racconta Tucci: “Ci tenevo molto a fondere la dimensione fisica dell’esercizio artistico e l’interiorità di Giacometti. Non è stato facile per Geoffrey Rush calarsi nei suoi accessi di rabbia, né naturalmente padroneggiare il pennello. Ma è un attore giocoso, oltre che bravo, e tra un ciak e l’altro ho continuato a riprenderlo perché arricchiva il personaggio con la sua spontaneità”.
 
Inutile dire il ritratto si trasformerà in un’odissea. Giacometti impreca, bofonchia, fa e disfa di continuo, perché "non c'è terreno migliore del successo per alimentare il dubbio". Guadagna milioni che getta con noncuranza nel caos dello studio, “nascosti così bene da non trovarli più”, e fantastica di tagliarsi la gola con un coltello per vedere l’effetto che fa.
“Non è come un tempo, quando i ritratti dovevano essere completati per forza perché non c’erano le fotografie”, dice biasimando se stesso. Ma con i suoi colleghi non è più tenero: Picasso è un presuntuoso che copia gli stili altrui e Chagall si abbassa a dipingere la cupola dell’Opéra di Parigi, “un lavoro da imbianchino”.
“Il ritratto sembra andare e venire, e a volte svanire del tutto”, osserva il povero Lord, tra esasperazione e curiosità.
 
Con sapiente dinamismo Tucci mette in scena gli alti e i bassi di un atto creativo a due che, nella realtà, ha dato origine a un quadro del valore di 20 milioni e 885 mila dollari (a tanto è stata venduta da Christie’s l’opera incompiuta nel 2015).
Due macchine da presa a spalla si muovono di continuo attorno ai personaggi nello studio in penombra, che ha il carattere di un ulteriore protagonista. Inospitale fin quasi all’ostilità, mette a disagio anche chi lo osserva al di là dello schermo, ma ne risucchia lo sguardo fino a dare l’impressione di trovarsi all’interno della scena. Complici di Lord, divertiti dall’umorismo spesso inconsapevole di Giacometti, affascinati da un genio severo e incompreso solo da se stesso, infastiditi da un despota burbero che in fondo è rimasto bambino.
"Il suo non è perfezionismo", spiega il regista: "è una tensione costante qualcosa di veritiero, che rispecchi quello che vede con gli occhi e con la mente. Fa parte di ogni artista, appartiene anche a me".

Nulla nel film è neutro o casuale, dettagli curatissimi condensano in due settimane l’essenza di una vita.
È esattamente quella di Giacometti? Anche se Tucci è pronto a giurare di sì, non ha poi tanta importanza: è un ritratto, come quello di James Lord. Ma questa volta l’opera è stata completata.
 
Final Portrait – L’arte di essere amici sarà nei cinema italiani a partire dall’8 febbraio distribuito da BIM Distribuzione.
 
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