Cezanne “il padre dei moderni”
I Giocatori di Carte di Paul Cézanne
08/03/2002
“Non è forse l’arte una forma di sacerdozio, che richiede al puro di cuore una consacrazione totale?” scriveva Cezanne a Vollard pochi anni prima di morire. La sua esistenza la passò a dipingere, la sua maniera di esistere fu la pittura, la ricerca affannosa di un metodo che permettesse di attingere alla struttura, al segreto profondo delle cose. Ore ed ore passate nella contemplazione e nella totale immersione nel “motivo”, secondo la lezione appresa dagli amici impressionisti; intere giornate trascorse a “divorare il soggetto” al fine di svelarne le verità più profonde. Una ricerca, la sua, mirata a fissare modelli percettivi che, a partire sempre dall’osservazione, trascendessero il dato reale, che è solo illusione, per renderne l’essenza più vera. “Tutto ciò che vediamo -sosteneva il maestro di Aix- non è vero, si disperde, se ne va. La natura è sempre la stessa, ma nulla rimane di lei, di ciò che ci appare. L’arte deve darle il respiro della durata...deve farcela gustare come eterna.” Cezanne si impose di trovare un linguaggio nuovo, che portasse a superare il “provvisorio” degli impressionisti per dar vita ad una pittura che rendesse a pieno “l’eroismo del reale”, che ne desse “il brivido della durata”, al di là dell’immagine apparente, dei termini più effimeri. E questo linguaggio solido, grande, eroico Cezanne capì di non poterlo formulare senza far riferimento all’ “arte dei musei” che gli avrebbe fornito gli strumenti utili per dare ordine alla senzazione, per governare l’impressione e dargli equilibrio. “Fare dell’impressionismo qualcosa di solido come l’arte dei musei” diceva, o “ridiventare classico per mezzo della natura”. La continua tensione tra ragionamento e osservazione, tra conoscenza ed emozione, in cui consiste il mistero più affascinante dell’arte di Cezanne, è espressa chiaramente nelle sue stesse parole “credo nello sviluppo logico di ciò che vediamo e sentiamo studiando dal vero” “Io sono la coscienza soggettiva di questo paesaggio -sosteneva- e la mia tela ne è la coscienza oggettiva. La mia tela e il paesaggio, l’una e l’altro al di fuori di me, ma il secondo caotico, casuale, confuso, senza vita logica, senza qualsiasi razionalità; la prima duratura, categorizzata, partecipe della modalità delle idee.” Così Cezanne poneva per la prima volta nella storia della pittura il problema dell’autonomia dell’arte: il quadro doveva essere inteso come entità a sè, con leggi proprie, con vita propria, rivelatore di un’ “armonia parallela alla natura”. “Dipingere non è copiare servilmente il dato oggettivo, è cogliere un’armonia fra rapporti molteplici, è trasporli in una propria gamma, sviluppandoli secondo una logica nuova e originale.” Con questo cambiamento di rotta verso un’arte che non vuole più imitare ma che mira a tradurre in realtà metaforica il dato empirico, Cezanne lasciò in dote alle generazioni che lo seguirono un nuovo modo di vedere e di sentire l’opera d’arte. Le porte dell’arte moderna erano aperte.
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