Carlo Saraceni
Venezia 1579 ca - Venezia 1620
Carlo Saraceni, nato a Venezia intorno al 1579 da una famiglia bolognese di mercanti di seta, si trasferisce verso il 1598-1600, appena ventenne, a Roma dove trascorre il resto della sua breve esistenza, conclusasi poi con un soggiorno di pochi mesi a Venezia prima della morte nel giugno del 1620. Secondo il biografo Baglione “Carlo Venetiano” sarebbe giunto a Roma “con qualche principio di pittura”, ma della sulla formazione veneziana non si hanno notizie.
Il successivo sviluppo artistico fa dedurre che anziché incanalarsi nella linea maestra della pittura veneziana, quella di Palma il giovane e degli epigoni di Veronese, Tintoretto, Bassano, si sia legato piuttosto agli artisti fiamminghi e tedeschi operanti in laguna, specializzatisi nella pittura in piccolo formato su rame, e avviatisi ad un’intensa attività commerciale con l’estero. Si tratta dei tedeschi Hans Rottenhammer, giunto probabilmente a Venezia nel 1591, ed Adam Elsheimer, arrivato in laguna già nel 1598, dove sarebbe rimasto fino alla sua partenza per Roma nel 1600, e dei molti fiamminghi, tra cui Pietro Mera e Gaspar Rem. Appare dunque abbastanza naturale che Saraceni, seguendo l’orientamento degli artisti nordici, sia stato attratto da Roma. La critica ha anche messo in evidenza il ruolo che potrebbero aver svolto, nell’ inserimento dell’artista nella città papale, alcuni influenti esponenti di famiglie veneziane di tradizione filo papista, i cui i contatti con Saraceni sono più tardi documentati: dal cardinale Matteo Priuli, presso cui Saraceni fu coppiere, a Giorgio e Pietro Contarini, nipoti del vescovo di Padova, Marco Corner. Figura di rilievo in tal senso è anche il nipote di papa Clemente VIII, il cardinal Pietro Aldobrandini, rappresentante di una famiglia che sarà di certo nota al pittore negli anni successivi, di passaggio a Venezia nel 1598, dove invia anche il pittore Cavalier d’Arpino per incrementare la collezione di dipinti veneti già in suo possesso. Quando Saraceni giunge a Roma nel 1598-1600 impressionante doveva essere il fervore artistico in città per rimettere a nuovo le numerose chiese ad accogliere il giubileo del 1600, uno sforzo economico ingente che coinvolge anche molti esponenti della grande e piccola aristocrazia e varie confraternite. Oltre ad una straripante produzione artistica, come mai si era vista neppure ai tempi di Leone X, davvero sorprendente era la sperimentazione di nuovi linguaggi artistici: basti dire che accanto ad esponenti del tardo manierismo, quali Federico Zuccari e il Cavalier d’Arpino, alla guida di una della più fiorenti botteghe del momento, si stanno radicando a Roma vari itinerari innovativi di ricerca: da un lato Annibale Carracci, al lavoro sulla volta della galleria Farnese, ben presto affiancato da ottimi allievi emiliani, che avrebbe in breve conquistato il monopolio delle grandi decorazioni a fresco nei primi dei decenni del secolo, con un fresco naturalismo innestato sulle forme ideali del classicismo di matrice raffaellesca; dall’altro la lingua rivoluzionaria di Caravaggio, rappresentata dalle tele della cappella Contarelli in san Luigi dei Francesi, di conturbante realismo, che avrebbe monopolizzato, tramite i seguaci, il campo della pittura sacra pubblica e privata.
Carlo Saraceni, insieme ad Orazio Gentileschi e al coetaneo Orazio Borgianni, da poco rientrato dalla Spagna, risulta essere tra i primi -già nel corso del primo decennio- ad accostarsi al linguaggio dell’irrequieto Caravaggio, di cui fornisce un’interpretazione del tutto originale, caratterizzata da un timbro più sentimentale ed elegiaco, da una religiosità interiorizzata e umanissima, e da una naturale fascinazione per il colore e per i modelli veneziani cinquecenteschi (specie Lorenzo Lotto e Jacopo Bassano). Già nel 1606, in occasione del processo per l’attentato a Giovanni Baglione, che aveva accusato Saraceni e Borgianni di essere i mandanti dell’aggressione subita, viene indicato “aderente al Caravaggio”, e probabilmente è a ridosso di tale data che riceve l’incarico di dipingere una pala in sostituzione di quella di Caravaggio con la Morte della Vergine per Santa Maria della Scala. Dopo aver soddisfatto le richieste di alcune tra le più influenti famiglie romane con dipinti destinati alla devozione privata in oratori o piccole cappelle eseguiti negli anni a cavallo tra primo e secondo decennio, si afferma, nel corso del secondo decennio, tra i maggiori protagonisti della pittura sacra di matrice caravaggesca con pale di grandi dimensioni (sala XI), destinate spesso a congregazioni ecclesiastiche straniere.