Pietro Capogrosso | Orizzonti

Pietro Capogrosso, ORIZZONTI (entrata in porto), olio su tela cm162x97 2023
Dal 11 Marzo 2025 al 06 Aprile 2025
Milano
Luogo: Art Gallery Finestreria
Indirizzo: Via Cardinale Ascanio Sfroza 69
Orari: Mar. - Sab. 14 - 19.30
Curatori: Claudia Ponzi, Antonella Mazza
Telefono per informazioni: +39 333 647 3615
E-Mail info: finestreria@gmail.com
Sito ufficiale: http://www.artstudiofinestreria.com
Chissà che tempo farà, martedì 11 marzo 2025, quando aprirà la mostra di Pietro Capogrosso ad Art Gallery Finestreria a Milano. Quello che è certo, è che in galleria ci sarà il sole, perché la sua pittura silenziosa, meditativa, armoniosa evoca la luce del meriggio. Le memorie della sua infanzia assolata sono state racchiuse nei sui paesaggi d’affezione per molti anni, questi si sono poi mano a mano rarefatti, distillati, astratti dai guai del mondo. La pittura mentale si è fatta luce abbagliante.
Rimane talvolta soltanto la linea dell’orizzonte, ispirato dalla “terra di frontiera, paesaggio di confine diviso da un’orizzonte costante, una dimensione temporale sospesa senza tempo, una luce intensissima accecante, luoghi percossi dal sole fino allo stordimento. Il paesaggio si decolora, lentamente, divenendo quasi astratto. Tutto questo fa parte del mio lavoro, della mia infanzia, quindi la Puglia” afferma Pietro Capogrosso.
Il suo sguardo sul mondo è colpito da una luce diretta, che produce una visibilità al limite, una sospensione tra figurazione e astrazione. Achille Bonito Oliva parla di procedimento anoressico, un’ambigua visione, una superficie pellicolare che gioca tra apparizione e scomparsa, in una tenuta cromatica che sposta la pittura verso il disegno.
Nella sua pittura salina, il paesaggio lentamente svapora. La linea d’orizzonte sembra estendersi in un infinito ovattato, “la vastità dell’orizzonte nella sua monotonia non è che un fondale dove depositare il pensiero” commenta Elisa Fulco.
Pietro Capogrosso è conosciuto nel mondo dell’arte per i suoi colori eleganti, polverosi, impalliditi, per le sue tonalità pastello, carta da zucchero, rosa pallido, giallo di Napoli, che ricordano Morandi, la pittura diafana del belga Luc Tuymans, fino ai maestri dell’astrazione De Stael e Rohtko.
La sua tecnica inconfondibile prevede molte velature, molti passaggi di colori diversi, fino ad arrivare al risultato finale che li ingloba tutti. Tutti convivono, metabolizzati, sulle sue tele astratte.
Di alcuni resta soltanto una lieve traccia, un riflesso di luce, una vibrazione, un ricordo. L’emergere di ricordi sbiaditi, al limite della sparizione, è il suo modo di vedere le cose, è il mondo che gli sta intorno, in libertà. “Non potrei e non vorrei essere altro che pittore – dice Capogrosso a Marilena Di Tursi – sento di appartenere alla pittura che considero una condizione mentale e fisica. Sento di assorbire la luce e doverla trasmettere nel mio lavoro”. La sua è una sorta di missione personale: fare della luce la protagonista assoluta e con lei mostrarci aspetti della realtà inaspettati. Come un traduttore di lingue segrete, sconosciute ai più, traduce in pittura visioni e ricordi, rendendoli finalmente visibili a tutti. Ci mostra l’immateriale, mentre lo contempla.
Achille Bonito Oliva, che meglio di chiunque altro descrive il suo lavoro, commenta in modo squisito: Se Leonardo afferma che la pittura è cosa mentale, ecco la conferma di Capogrosso, che porta il paesaggio ad una distanza in cui prevale una felice ambiguità dello sguardo, la fondazione di una soglia sulla quale si sviluppa la precaria consistenza di un’immagine indecisa a tutto, felicemente.
Capogrosso sembra assumere la cadenza proustiana del ricordo ma non allontanandosi, piuttosto andandovi incontro, incontro alla luce che promana dal ricordo e che sviluppa per questo un’abbaglio capace di produrre come un’iconografia al magnesio.
Una luce negli occhi è la qualità di partenza di Capogrosso, abbagliato dalla luminosità della propria memoria, il paesaggio familiare della propria infanzia, ed abbagliante per lo spettatore che esplora il quadro nella sua struggente ossatura ed impalpabile consistenza materica.(…) Capogrosso diventa storico dell’istante iconografico, colui che ferma nelle velature della sua pittura il silenzio del ricordo ed allontana da sé il clamore della materia ed il rumore espressionista. L’arte sembra diventare il procedimento di dimenticare a memoria le circostanze della vita, per meglio conservarne il senso. La pittura diventa lo strumento che segnala la scomparsa dell’oggetto e nello stesso tempo la ricomparsa della sua memoria.
Pietro Capogrosso nasce a Trani nel 1967. Frequenta i corsi di pittura presso l’Accademia di Belle Arti di Brera dove si diploma nel 1990.
Saranno importanti per la sua formazione la scuola di pittura di Saverio Terruso e lo studio dell’anatomia artistica con Davide Benati, maestro di passaggi cromatici e leggere velature, tecnica e attitudine molto particolare, che Capogrosso ha fatto propria nel suo lavoro. Essenziali le lezioni d’impostazione concettuale di Luciano Fabro e le successive inquietudini di rinnovamento fra artisti e critici degli anni novanta. Come l’imprenscindibile e istruttivo confronto diretto sull’astrattismo avuto con il critico Claudio Cerritelli, originale commentatore della pittura non figurativa italiana contemporanea.
Nella Milano di quegli anni Capogrosso inizia la sua professione artistica ed è subito notato dalla critica tra i giovani pittori. Viene integrato giovanissimo all’Accademia di Brera, dove è docente di Anatomia Artistica e Disegno, propedeutica e complementare allo studio della pittura dal 1990 al 2015.
“In quel momento – racconta Capogrosso – si guardava con interesse ai cosiddetti ‘non luoghi’ teorizzati da Marc Augè e Paul Virilio. Il mio interesse erano strutture o frammenti di architettura povera, non finita e realtà industriali in disuso che fotografavo con l’utilizzo di diapositive, che poi utilizzavo per i miei lavori”. Nella prima personale a Bologna nel 1997, presentò una serie di carte intelate che avevano come soggetto strutture d’interni di fabbriche o periferie realizzate con la fusaggine. “Tutto il mio lavoro di quel periodo è la rappresentazione di queste strutture in chiave minimale anche in pittura”.
Da allora in poi le superfici di Capogrosso virano verso schermi attenti alle risonanze lente della new painting: tra la costa atlantica di Robert Ryman e la San Francisco di Richard Diebenkorn – autore dal finire degli anni ’60 della serie Ocean park molto apprezzata dall’artista pugliese – quasi a ritrovare nell’Est del Pacifico il suo Est mediterraneo” sintetizza Pietro Marino.
Durante un soggiorno in Korea perfeziona una tecnica su carta di matrice orientale, una nuova profondità spaziale, un nuovo uso delle textures e in un successivo periodo a Mosca intensifica lo studio sul colore e la trama della pittura.
Tornato in Italia si trasferisce a Roma, dove medita quotidianamente sui cromatismi accesi del cielo che vede dallo studio e che riporta sulla tela attraverso la sovrapposizione di piani e strati di colore. Dopo un periodo trascorso a Barcellona ora è tornato a vivere a Roma, dove insegna Disegno all’Accademia delle Belle Arti.
Questo percorso di vita ha portato Pietro Capogrosso dalla figurazione all’astrazione, inventando immagini sempre più diafane, immateriali, rarefatte, monocrome. Nel suo lavoro di pittore, oltre a selezionare i soggetti, egli sceglie sempre l’ora del giorno, il momento, la sensazione.
Capogrosso si posiziona in un preciso momento della giornata e da lì racconta la sua storia con un codice linguistico preciso, personale, quasi segreto, comunque molto intimo. La materia perde consistenza, il soggetto si dilegua pian piano, si scioglie nel momento, sospeso nella luce, nell’impressione, nello stordimento, per lasciare posto all’emozione più pura. Il suo desiderio è gettare l’occhio oltre l’orizzonte. Dalle monocromie soltanto apparenti e dalle partizioni cromatiche traspare talvolta un sottofondo di griglie, reticoli, tratteggi, quasi un supporto mentale alla smaterializzazione dell’opera d’arte. Immaterialità dell’arte (…) la sua smaterializzazione è dovuta alla patina del tempo, alla salsedine che scolora progressivamente le immagini e scarnifica il colore ridotto a luce assoluta. L’assoluto è sicuramente l’approdo silenzioso della ricerca artistica di Capogrosso che spinge verso la smaterializzazione dell’immagine. Qui si celebra il desiderio di assoluto nel rispetto delle regole dell’arte più contemporanea e dei canoni interni alla pittura dall’impressionismo all’arte concettuale, alla transavanguardia. – Achille Bonito Oliva ‘La soglia della pittura’ 2005 – La pittura di Capogrosso sembra vaporizzarsi nell’aria per invadere a suo modo l’architettura che la circonda e dunque intrecciarsi ad altri linguaggi con una felice contaminazione. Pittura di soglia che condensa tutta la realtà, interna e esterna, sociale e personale, materiale e mentale, in un doppio movimento di apparizione e scomparsa.
L’inscindibilità tra vita e morte, memoria e oblio.
Quello che resta è la bellezza di una luce negli occhi.
Antonella Mazza
Rimane talvolta soltanto la linea dell’orizzonte, ispirato dalla “terra di frontiera, paesaggio di confine diviso da un’orizzonte costante, una dimensione temporale sospesa senza tempo, una luce intensissima accecante, luoghi percossi dal sole fino allo stordimento. Il paesaggio si decolora, lentamente, divenendo quasi astratto. Tutto questo fa parte del mio lavoro, della mia infanzia, quindi la Puglia” afferma Pietro Capogrosso.
Il suo sguardo sul mondo è colpito da una luce diretta, che produce una visibilità al limite, una sospensione tra figurazione e astrazione. Achille Bonito Oliva parla di procedimento anoressico, un’ambigua visione, una superficie pellicolare che gioca tra apparizione e scomparsa, in una tenuta cromatica che sposta la pittura verso il disegno.
Nella sua pittura salina, il paesaggio lentamente svapora. La linea d’orizzonte sembra estendersi in un infinito ovattato, “la vastità dell’orizzonte nella sua monotonia non è che un fondale dove depositare il pensiero” commenta Elisa Fulco.
Pietro Capogrosso è conosciuto nel mondo dell’arte per i suoi colori eleganti, polverosi, impalliditi, per le sue tonalità pastello, carta da zucchero, rosa pallido, giallo di Napoli, che ricordano Morandi, la pittura diafana del belga Luc Tuymans, fino ai maestri dell’astrazione De Stael e Rohtko.
La sua tecnica inconfondibile prevede molte velature, molti passaggi di colori diversi, fino ad arrivare al risultato finale che li ingloba tutti. Tutti convivono, metabolizzati, sulle sue tele astratte.
Di alcuni resta soltanto una lieve traccia, un riflesso di luce, una vibrazione, un ricordo. L’emergere di ricordi sbiaditi, al limite della sparizione, è il suo modo di vedere le cose, è il mondo che gli sta intorno, in libertà. “Non potrei e non vorrei essere altro che pittore – dice Capogrosso a Marilena Di Tursi – sento di appartenere alla pittura che considero una condizione mentale e fisica. Sento di assorbire la luce e doverla trasmettere nel mio lavoro”. La sua è una sorta di missione personale: fare della luce la protagonista assoluta e con lei mostrarci aspetti della realtà inaspettati. Come un traduttore di lingue segrete, sconosciute ai più, traduce in pittura visioni e ricordi, rendendoli finalmente visibili a tutti. Ci mostra l’immateriale, mentre lo contempla.
Achille Bonito Oliva, che meglio di chiunque altro descrive il suo lavoro, commenta in modo squisito: Se Leonardo afferma che la pittura è cosa mentale, ecco la conferma di Capogrosso, che porta il paesaggio ad una distanza in cui prevale una felice ambiguità dello sguardo, la fondazione di una soglia sulla quale si sviluppa la precaria consistenza di un’immagine indecisa a tutto, felicemente.
Capogrosso sembra assumere la cadenza proustiana del ricordo ma non allontanandosi, piuttosto andandovi incontro, incontro alla luce che promana dal ricordo e che sviluppa per questo un’abbaglio capace di produrre come un’iconografia al magnesio.
Una luce negli occhi è la qualità di partenza di Capogrosso, abbagliato dalla luminosità della propria memoria, il paesaggio familiare della propria infanzia, ed abbagliante per lo spettatore che esplora il quadro nella sua struggente ossatura ed impalpabile consistenza materica.(…) Capogrosso diventa storico dell’istante iconografico, colui che ferma nelle velature della sua pittura il silenzio del ricordo ed allontana da sé il clamore della materia ed il rumore espressionista. L’arte sembra diventare il procedimento di dimenticare a memoria le circostanze della vita, per meglio conservarne il senso. La pittura diventa lo strumento che segnala la scomparsa dell’oggetto e nello stesso tempo la ricomparsa della sua memoria.
Pietro Capogrosso nasce a Trani nel 1967. Frequenta i corsi di pittura presso l’Accademia di Belle Arti di Brera dove si diploma nel 1990.
Saranno importanti per la sua formazione la scuola di pittura di Saverio Terruso e lo studio dell’anatomia artistica con Davide Benati, maestro di passaggi cromatici e leggere velature, tecnica e attitudine molto particolare, che Capogrosso ha fatto propria nel suo lavoro. Essenziali le lezioni d’impostazione concettuale di Luciano Fabro e le successive inquietudini di rinnovamento fra artisti e critici degli anni novanta. Come l’imprenscindibile e istruttivo confronto diretto sull’astrattismo avuto con il critico Claudio Cerritelli, originale commentatore della pittura non figurativa italiana contemporanea.
Nella Milano di quegli anni Capogrosso inizia la sua professione artistica ed è subito notato dalla critica tra i giovani pittori. Viene integrato giovanissimo all’Accademia di Brera, dove è docente di Anatomia Artistica e Disegno, propedeutica e complementare allo studio della pittura dal 1990 al 2015.
“In quel momento – racconta Capogrosso – si guardava con interesse ai cosiddetti ‘non luoghi’ teorizzati da Marc Augè e Paul Virilio. Il mio interesse erano strutture o frammenti di architettura povera, non finita e realtà industriali in disuso che fotografavo con l’utilizzo di diapositive, che poi utilizzavo per i miei lavori”. Nella prima personale a Bologna nel 1997, presentò una serie di carte intelate che avevano come soggetto strutture d’interni di fabbriche o periferie realizzate con la fusaggine. “Tutto il mio lavoro di quel periodo è la rappresentazione di queste strutture in chiave minimale anche in pittura”.
Da allora in poi le superfici di Capogrosso virano verso schermi attenti alle risonanze lente della new painting: tra la costa atlantica di Robert Ryman e la San Francisco di Richard Diebenkorn – autore dal finire degli anni ’60 della serie Ocean park molto apprezzata dall’artista pugliese – quasi a ritrovare nell’Est del Pacifico il suo Est mediterraneo” sintetizza Pietro Marino.
Durante un soggiorno in Korea perfeziona una tecnica su carta di matrice orientale, una nuova profondità spaziale, un nuovo uso delle textures e in un successivo periodo a Mosca intensifica lo studio sul colore e la trama della pittura.
Tornato in Italia si trasferisce a Roma, dove medita quotidianamente sui cromatismi accesi del cielo che vede dallo studio e che riporta sulla tela attraverso la sovrapposizione di piani e strati di colore. Dopo un periodo trascorso a Barcellona ora è tornato a vivere a Roma, dove insegna Disegno all’Accademia delle Belle Arti.
Questo percorso di vita ha portato Pietro Capogrosso dalla figurazione all’astrazione, inventando immagini sempre più diafane, immateriali, rarefatte, monocrome. Nel suo lavoro di pittore, oltre a selezionare i soggetti, egli sceglie sempre l’ora del giorno, il momento, la sensazione.
Capogrosso si posiziona in un preciso momento della giornata e da lì racconta la sua storia con un codice linguistico preciso, personale, quasi segreto, comunque molto intimo. La materia perde consistenza, il soggetto si dilegua pian piano, si scioglie nel momento, sospeso nella luce, nell’impressione, nello stordimento, per lasciare posto all’emozione più pura. Il suo desiderio è gettare l’occhio oltre l’orizzonte. Dalle monocromie soltanto apparenti e dalle partizioni cromatiche traspare talvolta un sottofondo di griglie, reticoli, tratteggi, quasi un supporto mentale alla smaterializzazione dell’opera d’arte. Immaterialità dell’arte (…) la sua smaterializzazione è dovuta alla patina del tempo, alla salsedine che scolora progressivamente le immagini e scarnifica il colore ridotto a luce assoluta. L’assoluto è sicuramente l’approdo silenzioso della ricerca artistica di Capogrosso che spinge verso la smaterializzazione dell’immagine. Qui si celebra il desiderio di assoluto nel rispetto delle regole dell’arte più contemporanea e dei canoni interni alla pittura dall’impressionismo all’arte concettuale, alla transavanguardia. – Achille Bonito Oliva ‘La soglia della pittura’ 2005 – La pittura di Capogrosso sembra vaporizzarsi nell’aria per invadere a suo modo l’architettura che la circonda e dunque intrecciarsi ad altri linguaggi con una felice contaminazione. Pittura di soglia che condensa tutta la realtà, interna e esterna, sociale e personale, materiale e mentale, in un doppio movimento di apparizione e scomparsa.
L’inscindibilità tra vita e morte, memoria e oblio.
Quello che resta è la bellezza di una luce negli occhi.
Antonella Mazza
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