VAN GOGH E IL VIAGGIO DI GAUGUIN
Dal 12 Novembre 2011 al 15 Aprile 2012
Genova
Luogo: Palazzo Ducale
Indirizzo: piazza matteotti 9
Orari: lunedì-venerdì 9.00-13.30 / 14.30-18.00 Chiuso il sabato, la domenica e i festivi Chiuso 24 e 31 dicembre 2011
Telefono per informazioni: 0422429999
“Van Gogh e il viaggio di Gauguin” è una mostra destinata a fare epoca. Senza alcun dubbio. Non fosse altro che per la sequenza mozzafiato di capolavori che, dal 12 novembre di quest’anno al 15 aprile del 2012, verrà riunita a Palazzo Ducale di Genova. Tutto intorno al tema del viaggio: viaggio come esplorazione geografica, viaggio negli spazi e nelle culture ma anche, e quasi soprattutto, viaggio dentro di sé.
Per quest’impresa, che per dimensioni non ha molti precedenti in Italia, il Comune di Genova, Goldin e Palazzo Ducale hanno ottenuto collaborazioni di assoluto rilievo, a cominciare dai due main sponsor della mostra. Al partner storico, il Gruppo Euromobil dei fratelli Lucchetta, che con questa mostra festeggia i quindici anni di collaborazione con Goldin e Linea d’ombra, si affianca un nome che non ha bisogno di presentazioni, come il Gruppo UniCredit, che ha molto apprezzato questa proposta in grado di unire il fascino della sperimentazione al senso di una apertura verso il vasto pubblico degli appassionati.
Il viaggio che Goldin propone a Palazzo Ducale trova il centro ideale, così come effettivamente starà al centro del percorso espositivo, nell’opera simbolo degli interrogativi di una vita d’artista, quel “Da dove veniamo? Chi siamo? Dove andiamo?” che Gauguin volle come suo testamento nel 1897, avendo deciso di fuggire da ciò che ormai gli pareva insopportabile, ricorrendo all’arsenico, secondo un tentativo di suicidio che poi fallì. Quest’opera, maestosa e sublime, quattro metri di lunghezza per uno e mezzo di altezza, in Italia non si è mai vista, e in Europa una sola volta, a Parigi una decina di anni fa. Il Museum of Fine Arts di Boston, che l’ha eletta a suo simbolo e dove è custodita, fa un’autentica eccezione, concedendola solo per la quarta volta in un secolo. Prestito davvero epocale. Tanto per dire, è stata rifiutata anche alla più grande mostra mai realizzata su Gauguin e coprodotta dalla Tate di Londra e dalla National Gallery di Washington, dove è ancora in corso. Anche per ammirare solo questo capolavoro sommo, varrebbe la pena di fare il viaggio a Genova.
Marco Goldin, che della mostra è il curatore e l’organizzatore, non nasconde come questa sia la mostra dei suoi sogni: l’ha cullata per oltre un decennio, mentre egli veniva via via aprendo tante rassegne rimaste famose, e intessendo quei rapporti internazionali che oggi consentono di realizzarla con tutte le opere “giuste”, a raccontare di viaggi in capo al mondo e di altri dentro quell’immensità ancora più dilatata che è la propria anima. O il campo del proprio cuore. E Goldin racconta come la suggestione per questo tema fosse nata, ormai trent’anni fa, da una di quelle letture “obbligate” per un ventenne, come “On the road” di Jack Kerouac. E infatti tutto il primo capitolo del volume che Goldin sta scrivendo, e che accompagnerà al posto del catalogo l’esposizione, è dedicato alla riflessione sul tema del viaggio partendo dal libro celeberrimo del narratore americano.
Con Gauguin il titolo cita, non a caso, Vincent van Gogh. Di lui a Genova, grazie ai prestiti eccezionali del Van Gogh Museum di Amsterdam e del Kröller-Müller Museum di Otterlo, partner storici di Goldin, troveremo ben 40 opere (di cui 15 disegni), nessuna casuale, tutte “a tesi”. A raccontare di una vita che è un viaggio nel colore e nell’abisso, verso la luce del Sud e nel buio del proprio male di vivere. Viaggio che conduce e viaggio che sigilla, testimoniato dal celeberrimo “Autoritratto al cavalletto” dipinto nel 1888, strepitoso prestito del Van Gogh Museum o nei voli neri sopra le messi gialle del “Campo di grano con corvi” dipinto ad Auvers appena tre settimane prima della morte, opera questa che manca alla visione diretta del pubblico addirittura da quarant’anni. Poi il “Seminatore”, in mostra nella sua versione più famosa e citata, dipinta ad Arles, simbolo di una speranza in future, migliori germinazioni, accanto alle “Scarpe” cui l’artista dedica un omaggio tenero e forte, simbolo quant’altri mai della terrena quotidianità del camminare. Tutti i quindici disegni in esposizione, mai visti in Italia così come la quasi totalità dei dipinti, e che rappresentano un contributo straordinario del solo Van Gogh Museum, sono stati scelti da Goldin, con la collaborazione di Chris Stolwijk, capo delle collezioni del grande museo olandese, per la precisa relazione con i dipinti che saranno presenti a Genova. Dunque anche qui, nessuna scelta dettata dalla casualità o anche solo dal desiderio di stupire. Lo stupore nasce invece dal preciso accordo tra contenuto e immagine.
E tutto intorno altri viaggi, in e da due continenti: America ed Europa.
Quella americana è pittura che esprime l’esplorazione di territori sconosciuti, enunciazione di uno spazio che si identifica con una nazione nuova. Due pittori soltanto a rappresentare, nel XIX secolo, questo anelito, questo pathos, questa forza primordiale che autorizza il viaggio verso l’ignoto di un luogo che si desidera incontrare e quasi abbracciare. Se questo abbraccio non fosse quasi esagerato per la sua dimensione. Edwin Church, il pittore dell’Est, della valle del Hudson, della costa del Maine, e poi Albert Bierstadt, il pittore dell’Ovest, della scoperta di Yellowstone e di Yosemite.
E con un salto di qualche anno, il viaggio sulle rive dell’Oceano Atlantico, e precisamente a Prout’s Neck lungo la stessa costa del Maine, di Winslow Homer. A cavallo dei due secoli, Homer conclude il suo viaggio nella solitudine di acque tempestose, nel buio di un gorgo che si specchia contro la nera nuvolaglia del cielo. Quella costa del Maine che anche uno straordinario pittore come Andrew Wyeth racconterà per tutta la seconda metà del XX secolo raccogliendo la tradizione figurativa oltre che di Homer anche di Edward Hopper, colui che ha saputo isolare il senso del viaggio nella provincia americana all’interno di una muta sillaba, di un impressionante silenzio. Che ha saputo altresì isolare il senso del viaggio interiore in alcune sue celeberrime figure pensose e mute.
Da certe anse di buio e notte di Hopper, la mostra ripartirà per indicare le superfici quasi monocrome di Mark Rothko, per uno dei viaggi nell’interiorità più straordinari che la storia della pittura ricordi. Viaggio che sente le profondità del territorio e delle acque e tutto trasforma in lividi accenni d’onda. Ma che vivrà anche nell’esaltante confronto, fianco a fianco sulla parete, tra i neri e le terre di Rothko stesso e le marine quasi identiche di Turner un secolo e mezzo prima. E poi mareggiate che Richard Diebenkorn rovescia nei suoi fulminanti Ocean Parks, guardando da una finestra alta sul Pacifico il trafficato scorrere dei fili dell’elettricità.
E se qui si chiuderà la sezione americana, quella dedicata alla pittura europea partirà dal viaggio della mente davanti all’infinito di Caspar David Friedrich, una piccola barca che va nella nebbia e si dirige. Mentre William Turner si confonde – materia nella materia, colore nel colore, cenere nella cenere, acqua nell’acqua, fuoco nel fuoco, pittura nella pittura – nel gorgo di un viaggio che sposa la potenza degli elementi.
Il viaggio di Paul Gauguin sarà agli antipodi, e il grande quadro lo rappresenterà tutto, isolato nella penombra di una vasta sala dove avrà tutta l'attenzione, sola luce, concentrata su di sé, mentre immagini proiettate sulle pareti, e musiche, diranno di quel sentimento pieno e caldo, nostalgico e forte. Poi il viaggio di Claude Monet sarà nel recinto protetto del giardino di Giverny, nella fioritura delle ninfee come ghirlande. Il viaggio di Monet è dentro la luce che tocca l’occhio e rivela i colori, ne autorizza la dissolvenza.
Poi ancora il viaggio mentale di Wassily Kandinsky, quel viaggio che ha a che fare quotidianamente con la visione accidentata, talvolta persino malata, che si costruisce nella forma che genera sogni e incanti, tremori e memorie. Viaggio che è cosa prettamente legata alla cultura europea della prima metà del XX secolo. E che a metà di quel secolo, in una sorta di epico, e anche tragico, parallelo con Rothko, vede sulla scena il percorso straziato di Nicolas de Staël, dai muri calcinati di Agrigento, alle figure davanti al mare fino agli strapiombi di Antibes, alti sul cielo violato dai gabbiani. Per giungere alle nature morte conclusive di Giorgio Morandi, quelle in cui il viaggio dentro la stanza di via Fondazza a Bologna è polvere e cenere, sosta dentro il vuoto e l’assoluto.
Ma nel mezzo, monumentale e tragico, accidentato e splendente, Van Gogh continua a giganteggiare, con i suoi campi di grano sorvolati dai corvi o con le fioriture gentili nei parchi. Van Gogh che è il cuore e l’anima di questa mostra straordinaria, che per questo ne allinea tanti e motivati dipinti. E poi l’epocale prestito del “Da dove veniamo? Chi siamo? Dove andiamo?” di Gauguin. E accanto a essi tanti altri capolavori da Hopper a Kandinsky. Non sarà inutile davvero viaggiare fino a Genova a partire dal prossimo mese di novembre.
Per quest’impresa, che per dimensioni non ha molti precedenti in Italia, il Comune di Genova, Goldin e Palazzo Ducale hanno ottenuto collaborazioni di assoluto rilievo, a cominciare dai due main sponsor della mostra. Al partner storico, il Gruppo Euromobil dei fratelli Lucchetta, che con questa mostra festeggia i quindici anni di collaborazione con Goldin e Linea d’ombra, si affianca un nome che non ha bisogno di presentazioni, come il Gruppo UniCredit, che ha molto apprezzato questa proposta in grado di unire il fascino della sperimentazione al senso di una apertura verso il vasto pubblico degli appassionati.
Il viaggio che Goldin propone a Palazzo Ducale trova il centro ideale, così come effettivamente starà al centro del percorso espositivo, nell’opera simbolo degli interrogativi di una vita d’artista, quel “Da dove veniamo? Chi siamo? Dove andiamo?” che Gauguin volle come suo testamento nel 1897, avendo deciso di fuggire da ciò che ormai gli pareva insopportabile, ricorrendo all’arsenico, secondo un tentativo di suicidio che poi fallì. Quest’opera, maestosa e sublime, quattro metri di lunghezza per uno e mezzo di altezza, in Italia non si è mai vista, e in Europa una sola volta, a Parigi una decina di anni fa. Il Museum of Fine Arts di Boston, che l’ha eletta a suo simbolo e dove è custodita, fa un’autentica eccezione, concedendola solo per la quarta volta in un secolo. Prestito davvero epocale. Tanto per dire, è stata rifiutata anche alla più grande mostra mai realizzata su Gauguin e coprodotta dalla Tate di Londra e dalla National Gallery di Washington, dove è ancora in corso. Anche per ammirare solo questo capolavoro sommo, varrebbe la pena di fare il viaggio a Genova.
Marco Goldin, che della mostra è il curatore e l’organizzatore, non nasconde come questa sia la mostra dei suoi sogni: l’ha cullata per oltre un decennio, mentre egli veniva via via aprendo tante rassegne rimaste famose, e intessendo quei rapporti internazionali che oggi consentono di realizzarla con tutte le opere “giuste”, a raccontare di viaggi in capo al mondo e di altri dentro quell’immensità ancora più dilatata che è la propria anima. O il campo del proprio cuore. E Goldin racconta come la suggestione per questo tema fosse nata, ormai trent’anni fa, da una di quelle letture “obbligate” per un ventenne, come “On the road” di Jack Kerouac. E infatti tutto il primo capitolo del volume che Goldin sta scrivendo, e che accompagnerà al posto del catalogo l’esposizione, è dedicato alla riflessione sul tema del viaggio partendo dal libro celeberrimo del narratore americano.
Con Gauguin il titolo cita, non a caso, Vincent van Gogh. Di lui a Genova, grazie ai prestiti eccezionali del Van Gogh Museum di Amsterdam e del Kröller-Müller Museum di Otterlo, partner storici di Goldin, troveremo ben 40 opere (di cui 15 disegni), nessuna casuale, tutte “a tesi”. A raccontare di una vita che è un viaggio nel colore e nell’abisso, verso la luce del Sud e nel buio del proprio male di vivere. Viaggio che conduce e viaggio che sigilla, testimoniato dal celeberrimo “Autoritratto al cavalletto” dipinto nel 1888, strepitoso prestito del Van Gogh Museum o nei voli neri sopra le messi gialle del “Campo di grano con corvi” dipinto ad Auvers appena tre settimane prima della morte, opera questa che manca alla visione diretta del pubblico addirittura da quarant’anni. Poi il “Seminatore”, in mostra nella sua versione più famosa e citata, dipinta ad Arles, simbolo di una speranza in future, migliori germinazioni, accanto alle “Scarpe” cui l’artista dedica un omaggio tenero e forte, simbolo quant’altri mai della terrena quotidianità del camminare. Tutti i quindici disegni in esposizione, mai visti in Italia così come la quasi totalità dei dipinti, e che rappresentano un contributo straordinario del solo Van Gogh Museum, sono stati scelti da Goldin, con la collaborazione di Chris Stolwijk, capo delle collezioni del grande museo olandese, per la precisa relazione con i dipinti che saranno presenti a Genova. Dunque anche qui, nessuna scelta dettata dalla casualità o anche solo dal desiderio di stupire. Lo stupore nasce invece dal preciso accordo tra contenuto e immagine.
E tutto intorno altri viaggi, in e da due continenti: America ed Europa.
Quella americana è pittura che esprime l’esplorazione di territori sconosciuti, enunciazione di uno spazio che si identifica con una nazione nuova. Due pittori soltanto a rappresentare, nel XIX secolo, questo anelito, questo pathos, questa forza primordiale che autorizza il viaggio verso l’ignoto di un luogo che si desidera incontrare e quasi abbracciare. Se questo abbraccio non fosse quasi esagerato per la sua dimensione. Edwin Church, il pittore dell’Est, della valle del Hudson, della costa del Maine, e poi Albert Bierstadt, il pittore dell’Ovest, della scoperta di Yellowstone e di Yosemite.
E con un salto di qualche anno, il viaggio sulle rive dell’Oceano Atlantico, e precisamente a Prout’s Neck lungo la stessa costa del Maine, di Winslow Homer. A cavallo dei due secoli, Homer conclude il suo viaggio nella solitudine di acque tempestose, nel buio di un gorgo che si specchia contro la nera nuvolaglia del cielo. Quella costa del Maine che anche uno straordinario pittore come Andrew Wyeth racconterà per tutta la seconda metà del XX secolo raccogliendo la tradizione figurativa oltre che di Homer anche di Edward Hopper, colui che ha saputo isolare il senso del viaggio nella provincia americana all’interno di una muta sillaba, di un impressionante silenzio. Che ha saputo altresì isolare il senso del viaggio interiore in alcune sue celeberrime figure pensose e mute.
Da certe anse di buio e notte di Hopper, la mostra ripartirà per indicare le superfici quasi monocrome di Mark Rothko, per uno dei viaggi nell’interiorità più straordinari che la storia della pittura ricordi. Viaggio che sente le profondità del territorio e delle acque e tutto trasforma in lividi accenni d’onda. Ma che vivrà anche nell’esaltante confronto, fianco a fianco sulla parete, tra i neri e le terre di Rothko stesso e le marine quasi identiche di Turner un secolo e mezzo prima. E poi mareggiate che Richard Diebenkorn rovescia nei suoi fulminanti Ocean Parks, guardando da una finestra alta sul Pacifico il trafficato scorrere dei fili dell’elettricità.
E se qui si chiuderà la sezione americana, quella dedicata alla pittura europea partirà dal viaggio della mente davanti all’infinito di Caspar David Friedrich, una piccola barca che va nella nebbia e si dirige. Mentre William Turner si confonde – materia nella materia, colore nel colore, cenere nella cenere, acqua nell’acqua, fuoco nel fuoco, pittura nella pittura – nel gorgo di un viaggio che sposa la potenza degli elementi.
Il viaggio di Paul Gauguin sarà agli antipodi, e il grande quadro lo rappresenterà tutto, isolato nella penombra di una vasta sala dove avrà tutta l'attenzione, sola luce, concentrata su di sé, mentre immagini proiettate sulle pareti, e musiche, diranno di quel sentimento pieno e caldo, nostalgico e forte. Poi il viaggio di Claude Monet sarà nel recinto protetto del giardino di Giverny, nella fioritura delle ninfee come ghirlande. Il viaggio di Monet è dentro la luce che tocca l’occhio e rivela i colori, ne autorizza la dissolvenza.
Poi ancora il viaggio mentale di Wassily Kandinsky, quel viaggio che ha a che fare quotidianamente con la visione accidentata, talvolta persino malata, che si costruisce nella forma che genera sogni e incanti, tremori e memorie. Viaggio che è cosa prettamente legata alla cultura europea della prima metà del XX secolo. E che a metà di quel secolo, in una sorta di epico, e anche tragico, parallelo con Rothko, vede sulla scena il percorso straziato di Nicolas de Staël, dai muri calcinati di Agrigento, alle figure davanti al mare fino agli strapiombi di Antibes, alti sul cielo violato dai gabbiani. Per giungere alle nature morte conclusive di Giorgio Morandi, quelle in cui il viaggio dentro la stanza di via Fondazza a Bologna è polvere e cenere, sosta dentro il vuoto e l’assoluto.
Ma nel mezzo, monumentale e tragico, accidentato e splendente, Van Gogh continua a giganteggiare, con i suoi campi di grano sorvolati dai corvi o con le fioriture gentili nei parchi. Van Gogh che è il cuore e l’anima di questa mostra straordinaria, che per questo ne allinea tanti e motivati dipinti. E poi l’epocale prestito del “Da dove veniamo? Chi siamo? Dove andiamo?” di Gauguin. E accanto a essi tanti altri capolavori da Hopper a Kandinsky. Non sarà inutile davvero viaggiare fino a Genova a partire dal prossimo mese di novembre.
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