Glitch
Dal 08 Novembre 2023 al 27 Gennaio 2024
Milano
Luogo: BUILDING
Indirizzo: Via Monte di Pietà 23
Orari: martedì - sabato 10-19
Curatori: Chiara Bertola e Davide Ferri
Telefono per informazioni: +39 02 89094995
Sito ufficiale: http://www.building-gallery.com
BUILDING presenta, dall’8 novembre 2023 al 27 gennaio 2024, la mostra collettiva Glitch, un progetto espositivo, a cura di Chiara Bertola e Davide Ferri, che presenta una selezione di circa trenta opere pittoriche di dieci artisti italiani e internazionali di generazioni diverse: Simon Callery, Angela de la Cruz, Peggy Franck, Pinot Gallizio, Mary Heilmann, Ilya & Emilia Kabakov, Andrea Kvas, Maria Morganti, Farid Rahimi, Alejandra Seeber.
Talvolta accade che nel tessuto regolare e omogeneo della realtà si manifestino delle smagliature, come degli strappi superficiali che rivelano la presenza di una dimensione altra. La saturazione e il tutto pieno che caratterizzano la nostra esistenza improvvisamente si disgregano, lasciando il posto a spiragli da cui filtrano segnali di “un’energia dell’esistenza”, come suggerisce il filosofo François Jullien.
Qualcosa di simile si verifica in pittura, quando la precisa coincidenza tra immagine e supporto viene meno o quando la pura materialità di una pittura eccede, lasciando trapelare un’inedita vitalità. Improvvisamente, da questa disarticolazione qualcosa si fa strada agli occhi dello spettatore senza annunciarsi, qualcosa che pur potendo passare inosservato apre una breccia, una crepa che spalanca un’altra vista e un’altra tonalità del pensiero. L’attenzione va dunque a una pittura la cui verità non consiste nella rappresentazione e nella sua organicità, ma in un’idea di immagine pittorica che negozia con supporti e formati differenti, assecondandone la presenza oggettuale e le articolazioni materiali.
La mostra, che include indifferentemente lavori figurativi e astratti, lavori di artisti di generazioni diverse, rinvia dunque a un’idea di “mera pittura” – nel senso di “bassa”, “materiale” – che può giocare con l’espressione “vera pittura”, o con l’idea di verità in pittura che ha occupato da sempre le riflessioni sul medium.
Le suggestioni che ne derivano possono affondare le loro radici in alcune ricerche pittoriche della seconda metà del Novecento, quelle ad esempio di alcuni protagonisti dell’astrazione post-pittorica degli anni Sessanta e delle ricerche degli anni Settanta (Radical Painting, Pittura Pittura e Support Surfaces), nei termini di un diffuso desiderio di oggettività e conseguente sparizione della soggettività (cioè di sparizione dell’autore a favore della presenza dello spettatore), di riflessione del linguaggio attorno ai suoi elementi primari (formato, misura, supporto, colore, “un colore che non imbelletta”, come dice Maria Morganti), il cui esito è un oggetto pittorico che nega qualsiasi carattere narrativo, rappresentativo e illusionistico e afferma la sua presenza senza significare altro che se stesso.
Lungo il percorso della mostra, dunque, la pittura appare nella sua più mera essenzialità con la fecondità di un’incrinatura, di uno sfasamento, provocato dallo scardinamento di un’abitudine alla convenzionalità della visione. Viene generato così uno scarto che rimette in moto una sorta di vitalità energetica al suo livello primordiale, quotidiano - nel senso del ritmo e delle tracce diarie del tempo - e artigianale - il piacere del fare a mano.
Se dunque la consuetudine non ha mai portato la pratica artistica molto lontano, allora cercare un inciampo nella rappresentazione diventa una condizione necessaria per spingere l’arte verso una dimensione di vitalità. Una smagliatura all’interno del sistema saturo e compatto del tutto noto e prevedibile può dunque rivelarsi uno spazio fertile di libertà, in cui la vita può scorrere, spaziare, completarsi e rinnovarsi.
La mostra dunque include:
Opere che rinviano a questa idea di pittura bassa, materiale, attraverso il richiamo a pratiche artigianali e industriali, attraverso l’incontro, quando non proprio il collasso, tra una dimensione specificatamente pittorica e queste pratiche, come nel caso della “pittura industriale” di Pinot Gallizio (Alba, 1902 – 1964).
Opere di artisti la cui pratica pittorica si definisce attraverso una gestualità impersonale, non autoriale, come nel caso di Simon Callery (Londra, 1960), che insegue un’idea di sublime contaminando la materialità del dipinto con il paesaggio, per via di una prossemica e un contatto prolungato; o quella di Ilya (Dnepropetrovsk, 1933-2023) & Emilia (Dnepropetrovsk, 1945) Kabakov in cui la coppia di artisti riflette sul concetto di autore inventando un artista immaginario che dialoga con la storia dell’arte. In mostra l’opera Charles Rosenthal, Im park 1930 diventa un coinvolgente commento sull'oggettività e la soggettività nell'espressione artistica della luce, invitando lo spettatore a interrogarsi sulla distinzione tra luce dipinta, luce reale e, cosa fondamentale nell'opera dei Kabakov, sull'immaginazione dell'artista.
Opere in cui la pittura riesce a trasformarsi in un organismo mobile tra le pieghe di spazi oscuri, dentro le quali smarrire il senso della visione fissa e frontale e accedere a uno spazio indeterminato, anonimo e totalmente immersivo, come nei lavori di Peggy Franck (Zevenaar, 1978). O in quelli di Angela de la Cruz (A Coruña, 1965), dove gli elementi costitutivi del quadro (tela e telaio) sembrano non riuscire a contenere l’eccesso di materialità della pittura e diventano organismi tridimensionali, instabili nel loro riconfigurarsi come agglomerati di pieghe, rigonfiamenti ed eccedenze.
Opere come sfondo, o come paesaggio dello spettatore, dove lo spettatore entra dentro un set e dove l’opera diventa luogo per accogliere le cose che possono accadere. Per esempio i lavori di Alejandra Seeber (Buenos Aires, 1969) fanno emergere una visione instabile che non riesce mai a definirsi come unica, macchiando le sue tele per offrire all’immagine un’altra possibilità di reagire, spaesarsi e moltiplicarsi.
Opere come quadri dove le immagini coinvolgono tutte le loro articolazioni materiali – un supporto, un telaio, un bordo e perfino un rovescio. I lavori di Andrea Kvas (Trieste, 1986) sono dipinti che non vanno interpretati come spazi coerenti e organici di rappresentazione, ma dispositivi in cui tutte le articolazioni materiali contribuiscono a formare l’immagine.
Opere che possono costituire un invito a ridefinire il nostro modo di guardare alla composizione astratta, come nel caso di Mary Heilmann (San Francisco, 1940), che approccia il dipinto non diversamente da come dipinge la superficie della ceramica, con una postura in grado di eludere i limiti e le inibizioni che derivano dalla tela bianca.
Opere che riconfigurano lo spazio rifrangendolo, come i lavori di Farid Rahimi (Losanna, 1974), che da anni dipinge un angolo di stanza, o lieve depressione, e lo varia compulsivamente facendolo oscillare tra plausibile rappresentazione di un ambiente e sua astrazione.
Opere che si scompongono e ricompongono infinite volte, come nel caso di Maria Morganti(Milano, 1965), aggiungendo e togliendo qualcosa ad uno scenario più ampio che si rinnova ad ogni passaggio, nel quale è rimasta la traccia e la memoria del proprio fragile quotidiano e del tempo trascorso.
Talvolta accade che nel tessuto regolare e omogeneo della realtà si manifestino delle smagliature, come degli strappi superficiali che rivelano la presenza di una dimensione altra. La saturazione e il tutto pieno che caratterizzano la nostra esistenza improvvisamente si disgregano, lasciando il posto a spiragli da cui filtrano segnali di “un’energia dell’esistenza”, come suggerisce il filosofo François Jullien.
Qualcosa di simile si verifica in pittura, quando la precisa coincidenza tra immagine e supporto viene meno o quando la pura materialità di una pittura eccede, lasciando trapelare un’inedita vitalità. Improvvisamente, da questa disarticolazione qualcosa si fa strada agli occhi dello spettatore senza annunciarsi, qualcosa che pur potendo passare inosservato apre una breccia, una crepa che spalanca un’altra vista e un’altra tonalità del pensiero. L’attenzione va dunque a una pittura la cui verità non consiste nella rappresentazione e nella sua organicità, ma in un’idea di immagine pittorica che negozia con supporti e formati differenti, assecondandone la presenza oggettuale e le articolazioni materiali.
La mostra, che include indifferentemente lavori figurativi e astratti, lavori di artisti di generazioni diverse, rinvia dunque a un’idea di “mera pittura” – nel senso di “bassa”, “materiale” – che può giocare con l’espressione “vera pittura”, o con l’idea di verità in pittura che ha occupato da sempre le riflessioni sul medium.
Le suggestioni che ne derivano possono affondare le loro radici in alcune ricerche pittoriche della seconda metà del Novecento, quelle ad esempio di alcuni protagonisti dell’astrazione post-pittorica degli anni Sessanta e delle ricerche degli anni Settanta (Radical Painting, Pittura Pittura e Support Surfaces), nei termini di un diffuso desiderio di oggettività e conseguente sparizione della soggettività (cioè di sparizione dell’autore a favore della presenza dello spettatore), di riflessione del linguaggio attorno ai suoi elementi primari (formato, misura, supporto, colore, “un colore che non imbelletta”, come dice Maria Morganti), il cui esito è un oggetto pittorico che nega qualsiasi carattere narrativo, rappresentativo e illusionistico e afferma la sua presenza senza significare altro che se stesso.
Lungo il percorso della mostra, dunque, la pittura appare nella sua più mera essenzialità con la fecondità di un’incrinatura, di uno sfasamento, provocato dallo scardinamento di un’abitudine alla convenzionalità della visione. Viene generato così uno scarto che rimette in moto una sorta di vitalità energetica al suo livello primordiale, quotidiano - nel senso del ritmo e delle tracce diarie del tempo - e artigianale - il piacere del fare a mano.
Se dunque la consuetudine non ha mai portato la pratica artistica molto lontano, allora cercare un inciampo nella rappresentazione diventa una condizione necessaria per spingere l’arte verso una dimensione di vitalità. Una smagliatura all’interno del sistema saturo e compatto del tutto noto e prevedibile può dunque rivelarsi uno spazio fertile di libertà, in cui la vita può scorrere, spaziare, completarsi e rinnovarsi.
La mostra dunque include:
Opere che rinviano a questa idea di pittura bassa, materiale, attraverso il richiamo a pratiche artigianali e industriali, attraverso l’incontro, quando non proprio il collasso, tra una dimensione specificatamente pittorica e queste pratiche, come nel caso della “pittura industriale” di Pinot Gallizio (Alba, 1902 – 1964).
Opere di artisti la cui pratica pittorica si definisce attraverso una gestualità impersonale, non autoriale, come nel caso di Simon Callery (Londra, 1960), che insegue un’idea di sublime contaminando la materialità del dipinto con il paesaggio, per via di una prossemica e un contatto prolungato; o quella di Ilya (Dnepropetrovsk, 1933-2023) & Emilia (Dnepropetrovsk, 1945) Kabakov in cui la coppia di artisti riflette sul concetto di autore inventando un artista immaginario che dialoga con la storia dell’arte. In mostra l’opera Charles Rosenthal, Im park 1930 diventa un coinvolgente commento sull'oggettività e la soggettività nell'espressione artistica della luce, invitando lo spettatore a interrogarsi sulla distinzione tra luce dipinta, luce reale e, cosa fondamentale nell'opera dei Kabakov, sull'immaginazione dell'artista.
Opere in cui la pittura riesce a trasformarsi in un organismo mobile tra le pieghe di spazi oscuri, dentro le quali smarrire il senso della visione fissa e frontale e accedere a uno spazio indeterminato, anonimo e totalmente immersivo, come nei lavori di Peggy Franck (Zevenaar, 1978). O in quelli di Angela de la Cruz (A Coruña, 1965), dove gli elementi costitutivi del quadro (tela e telaio) sembrano non riuscire a contenere l’eccesso di materialità della pittura e diventano organismi tridimensionali, instabili nel loro riconfigurarsi come agglomerati di pieghe, rigonfiamenti ed eccedenze.
Opere come sfondo, o come paesaggio dello spettatore, dove lo spettatore entra dentro un set e dove l’opera diventa luogo per accogliere le cose che possono accadere. Per esempio i lavori di Alejandra Seeber (Buenos Aires, 1969) fanno emergere una visione instabile che non riesce mai a definirsi come unica, macchiando le sue tele per offrire all’immagine un’altra possibilità di reagire, spaesarsi e moltiplicarsi.
Opere come quadri dove le immagini coinvolgono tutte le loro articolazioni materiali – un supporto, un telaio, un bordo e perfino un rovescio. I lavori di Andrea Kvas (Trieste, 1986) sono dipinti che non vanno interpretati come spazi coerenti e organici di rappresentazione, ma dispositivi in cui tutte le articolazioni materiali contribuiscono a formare l’immagine.
Opere che possono costituire un invito a ridefinire il nostro modo di guardare alla composizione astratta, come nel caso di Mary Heilmann (San Francisco, 1940), che approccia il dipinto non diversamente da come dipinge la superficie della ceramica, con una postura in grado di eludere i limiti e le inibizioni che derivano dalla tela bianca.
Opere che riconfigurano lo spazio rifrangendolo, come i lavori di Farid Rahimi (Losanna, 1974), che da anni dipinge un angolo di stanza, o lieve depressione, e lo varia compulsivamente facendolo oscillare tra plausibile rappresentazione di un ambiente e sua astrazione.
Opere che si scompongono e ricompongono infinite volte, come nel caso di Maria Morganti(Milano, 1965), aggiungendo e togliendo qualcosa ad uno scenario più ampio che si rinnova ad ogni passaggio, nel quale è rimasta la traccia e la memoria del proprio fragile quotidiano e del tempo trascorso.
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