Al cinema dal 28 novembre
Il Michelangelo di Konchalovsky: l'artista e i suoi capolavori nel film "Il peccato"
Dal film Il Peccato. Il furore di Michelangelo | Foto: Andrea De Fusco | Courtesy of Andrei Konchalovsky Studios, Jean Vigo Italia e Rai Cinema 01 Distribution
Samantha De Martin
21/11/2019
Una mano sporca, con le unghie rotte dal lavoro, sfiora un gigantesco blocco di marmo bianchissimo, simile a un mostro invincibile. Da questa sagoma possente, cercata e scelta nelle cave del Monte Altissimo, sulle Alpi Apuane, il tocco della “divina canaglia” estrae le sue creature, quelle anime bianche che consegnerà al mondo e che ancora oggi, a 500 anni di distanza, emozionano e sbalordiscono con la loro sublime potenza.
Non è semplice descrivere i capolavori del Buonarroti presenti nel film Il peccato. Il furore di Michelangelo del regista Andrei Konchalovsky, prodotto da Alisher Usmanov e in uscita nelle sale a partire dal prossimo 28 novembre. Perché, nonostante sul grande schermo appaiano poche opere del protagonista indiscusso del Rinascimento italiano, potremmo forse dire che i contributi del genio siano tutti ugualmente presenti nel film, perché racchiusi nell’anima di quel marmo grezzo che è per lo scultore la materia che imprigiona la forma e che l’artista deve rilevare attraverso un lavoro manuale estenuante, al pari di una maieutica artistica, che costituisce al tempo stesso un processo dell’intelletto e dello spirito.
Un processo lungo e doloroso, che costa sangue e sudore e che necessita di muscoli e braccia invincibili, come quelli dei cavatori, considerati maestri e artefici dell’opera d’arte al pari livello di Michelangelo.
La Cappella Sistina, il David, il Mosè, la Pietà, che grandeggiano sul grande schermo sono il risultato di un processo quasi divino e riflettono un Michelangelo in carne e ossa, profondamente diverso da quello al quale il pubblico è da sempre abituato. Quello del regista russo è l’artista visionario, è l’uomo in perenne ricerca, conteso tra i potenti del tempo, i Della Rovere e i Medici, in conflitto con la sua famiglia, ma soprattutto con se stesso, uomo innamorato del grande Dante Alighieri, in bilico tra grazia divina e avidità, un’ambizione che non cede nemmeno di fronte all’amicizia.
È l’uomo dentro cui si cela il genio, che mangia baccalà, pane e cipolle, afflitto dalla malinconia e perennemente perseguitato dai demoni.
I capolavori di Michelangelo prendono forma non soltanto sotto le sue mani, ma dentro il suo sguardo cinico, tra i suoi occhi balenanti furore, spalancati non soltanto sulla bellezza, ma sulla disorientante umanità che lo circonda, sotto le sue narici, che captano gli odori raffinati del suo tempo, ma anche gli insopportabili fetori delle strade di Roma e di Firenze, abitate da cani, gatti, galline, insozzate dai postumi della crapula e dell’alcol.
La fisionomia del Michelangelo di Konchalovsky si ispira al celebre ritratto di Daniele da Volterra: il viso scavato da solchi, la fronte quadrata, le orecchie a sventola, la barba arruffata, i capelli “rabbiosi”, sporchi e spettinati. Una bellezza mancata, insomma, che si riversa tutta nei capolavori immortali che il maestro ha consegnato all’arte.
È la decorazione della Cappella Sistina, completata nell’ottobre del 1512, a consacralo artista “divino”, come lo definì papa Giulio II della Rovere che nel 1508 gli affidò l’incarico. Il Buonarroti dipinse la volta e, sulla parte alta delle pareti, le lunette. Il giorno di Ognissanti Giulio II inaugurò la Sistina con una messa solenne. Nei nove riquadri centrali sono raffigurate le Storie della Genesi, dalla Creazione alla Caduta dell'uomo, al Diluvio e al successivo rinascere dell'umanità con la famiglia di Noè.
Un altro riferimento nel film è alla monumentale Tomba di Giulio II commissionata nel 1505 a Michelangelo con un consistente acconto e che l’artista avrebbe dovuto realizzare per il pontefice e collocare nella tribuna (in via di completamento) della Basilica di San Pietro. Questo progetto architettonico e scultoreo, nella sua versione definitiva ma ridotta, si trova oggi nella Basilica di San Pietro in Vincoli a Roma.
L’inizio dei lavori venne rinviato fino al 1544. Quando lo scultore partì alla volta di Carrara, alla ricerca del blocco di marmo perfetto, si mise in moto una sorta di complotto ai suoi danni, mosso dalle invidie tra gli artisti della cerchia papale. In questo periodo di "stallo artistico", Michelangelo vive una profonda sensazione di irrequietezza, in preda a travagli e dispiaceri, delusioni e tradimenti, perseguitato da visioni e fantasmi. Giulio II morì nel 1513 senza veder realizzato il suo monumento funebre.
Il film non descrive l’intero mausoleo - di appena sette statue di cui solo tre di Michelangelo - ma mostra in alcune inquadrature, che rendono giustizia al capolavoro, la sublime statua del Mosè, l'unica tra quelle pensate fin dall'inizio, ad essere usata nel ridimensionato risultato finale, che vide la luce solo dopo quarant'anni di tormentate vicende.
Il profeta viene rappresentato dal maestro in posizione seduta, con la testa barbuta rivolta a sinistra, il suo sguardo “terribile” e una maestosa barba che il Vasari considerò “scolpita con una perfezione tale da sembrare più opera di pennello che di scalpello”. Il braccio sinistro è abbandonato sul grembo, quello destro regge le tavole della Legge, mentre la mano arriccia la lunga barba.
Il blocco del Mosé - che nel Peccato viene rappresentato mentre troneggia nella casa bottega di Macel de’ Corvi, “vivo” - con il suo aspetto quasi “vivo”, è stato riprodotto e lavorato per il film in tre stadi successivi, come anche la Cappella Sistina, fedelmente ricreata a dimensioni naturali dopo un lavoro di tre mesi portato avanti da una trentina fra scultori, falegnami, pittori, stuccatori, operai.
Il primo capolavoro di Michelangelo, quella Pietà di commovente bellezza, realizzata dallo scultore poco più che ventenne, si mostra agli spettatori solo verso la fine. In quest’opera il livello di finezza del marmo è ancora più evidente. Il corpo di Cristo, adagiato sulle gambe di Maria con naturalezza estrema, privo della rigidità delle rappresentazioni precedenti e con un'inedita compostezza di sentimenti, sembra fondersi con le frastagliate pieghe del panneggio della madre, in una scena di toccante intimità.
Era il 27 agosto 1498 quando Michelangelo si impegnava a realizzare per il cardinale francese Jean de Bilhères de Lagraulas “una Pietà di marmo...con Cristo morto in braccio”, a grandezza naturale, per la somma di 450 ducati d’oro.
L’opera giunse nella sua sede definitiva, la Basilica Vaticana, solo nel 1749, per volere di Benedetto XIV.
Il gruppo scultoreo - che non segue il racconto dei Vangeli, ma sembra piuttosto essere un’interpretazione popolare, sorta all’interno della devozionalità tardo medievale, di quello che sarebbe potuto accadere dopo la deposizione di Gesù dalla croce, è l’unica opera firmata di Michelangelo.
Non a caso, a proposito del fruttuoso sposalizio - che trova compimento in questa grandiosa opera del Buonarroti - tra la tradizione plastica del Quattrocento e la bellezza dell’arte antica, il Vasari scriveva: “Certo è un miracolo che un sasso da principio, senza forma nessuna, si sia mai ridotto a quella perfezione che la natura a fatica suol formar nella carne”.
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Non è semplice descrivere i capolavori del Buonarroti presenti nel film Il peccato. Il furore di Michelangelo del regista Andrei Konchalovsky, prodotto da Alisher Usmanov e in uscita nelle sale a partire dal prossimo 28 novembre. Perché, nonostante sul grande schermo appaiano poche opere del protagonista indiscusso del Rinascimento italiano, potremmo forse dire che i contributi del genio siano tutti ugualmente presenti nel film, perché racchiusi nell’anima di quel marmo grezzo che è per lo scultore la materia che imprigiona la forma e che l’artista deve rilevare attraverso un lavoro manuale estenuante, al pari di una maieutica artistica, che costituisce al tempo stesso un processo dell’intelletto e dello spirito.
Un processo lungo e doloroso, che costa sangue e sudore e che necessita di muscoli e braccia invincibili, come quelli dei cavatori, considerati maestri e artefici dell’opera d’arte al pari livello di Michelangelo.
La Cappella Sistina, il David, il Mosè, la Pietà, che grandeggiano sul grande schermo sono il risultato di un processo quasi divino e riflettono un Michelangelo in carne e ossa, profondamente diverso da quello al quale il pubblico è da sempre abituato. Quello del regista russo è l’artista visionario, è l’uomo in perenne ricerca, conteso tra i potenti del tempo, i Della Rovere e i Medici, in conflitto con la sua famiglia, ma soprattutto con se stesso, uomo innamorato del grande Dante Alighieri, in bilico tra grazia divina e avidità, un’ambizione che non cede nemmeno di fronte all’amicizia.
È l’uomo dentro cui si cela il genio, che mangia baccalà, pane e cipolle, afflitto dalla malinconia e perennemente perseguitato dai demoni.
I capolavori di Michelangelo prendono forma non soltanto sotto le sue mani, ma dentro il suo sguardo cinico, tra i suoi occhi balenanti furore, spalancati non soltanto sulla bellezza, ma sulla disorientante umanità che lo circonda, sotto le sue narici, che captano gli odori raffinati del suo tempo, ma anche gli insopportabili fetori delle strade di Roma e di Firenze, abitate da cani, gatti, galline, insozzate dai postumi della crapula e dell’alcol.
La fisionomia del Michelangelo di Konchalovsky si ispira al celebre ritratto di Daniele da Volterra: il viso scavato da solchi, la fronte quadrata, le orecchie a sventola, la barba arruffata, i capelli “rabbiosi”, sporchi e spettinati. Una bellezza mancata, insomma, che si riversa tutta nei capolavori immortali che il maestro ha consegnato all’arte.
È la decorazione della Cappella Sistina, completata nell’ottobre del 1512, a consacralo artista “divino”, come lo definì papa Giulio II della Rovere che nel 1508 gli affidò l’incarico. Il Buonarroti dipinse la volta e, sulla parte alta delle pareti, le lunette. Il giorno di Ognissanti Giulio II inaugurò la Sistina con una messa solenne. Nei nove riquadri centrali sono raffigurate le Storie della Genesi, dalla Creazione alla Caduta dell'uomo, al Diluvio e al successivo rinascere dell'umanità con la famiglia di Noè.
Un altro riferimento nel film è alla monumentale Tomba di Giulio II commissionata nel 1505 a Michelangelo con un consistente acconto e che l’artista avrebbe dovuto realizzare per il pontefice e collocare nella tribuna (in via di completamento) della Basilica di San Pietro. Questo progetto architettonico e scultoreo, nella sua versione definitiva ma ridotta, si trova oggi nella Basilica di San Pietro in Vincoli a Roma.
L’inizio dei lavori venne rinviato fino al 1544. Quando lo scultore partì alla volta di Carrara, alla ricerca del blocco di marmo perfetto, si mise in moto una sorta di complotto ai suoi danni, mosso dalle invidie tra gli artisti della cerchia papale. In questo periodo di "stallo artistico", Michelangelo vive una profonda sensazione di irrequietezza, in preda a travagli e dispiaceri, delusioni e tradimenti, perseguitato da visioni e fantasmi. Giulio II morì nel 1513 senza veder realizzato il suo monumento funebre.
Il film non descrive l’intero mausoleo - di appena sette statue di cui solo tre di Michelangelo - ma mostra in alcune inquadrature, che rendono giustizia al capolavoro, la sublime statua del Mosè, l'unica tra quelle pensate fin dall'inizio, ad essere usata nel ridimensionato risultato finale, che vide la luce solo dopo quarant'anni di tormentate vicende.
Il profeta viene rappresentato dal maestro in posizione seduta, con la testa barbuta rivolta a sinistra, il suo sguardo “terribile” e una maestosa barba che il Vasari considerò “scolpita con una perfezione tale da sembrare più opera di pennello che di scalpello”. Il braccio sinistro è abbandonato sul grembo, quello destro regge le tavole della Legge, mentre la mano arriccia la lunga barba.
Il blocco del Mosé - che nel Peccato viene rappresentato mentre troneggia nella casa bottega di Macel de’ Corvi, “vivo” - con il suo aspetto quasi “vivo”, è stato riprodotto e lavorato per il film in tre stadi successivi, come anche la Cappella Sistina, fedelmente ricreata a dimensioni naturali dopo un lavoro di tre mesi portato avanti da una trentina fra scultori, falegnami, pittori, stuccatori, operai.
Il primo capolavoro di Michelangelo, quella Pietà di commovente bellezza, realizzata dallo scultore poco più che ventenne, si mostra agli spettatori solo verso la fine. In quest’opera il livello di finezza del marmo è ancora più evidente. Il corpo di Cristo, adagiato sulle gambe di Maria con naturalezza estrema, privo della rigidità delle rappresentazioni precedenti e con un'inedita compostezza di sentimenti, sembra fondersi con le frastagliate pieghe del panneggio della madre, in una scena di toccante intimità.
Era il 27 agosto 1498 quando Michelangelo si impegnava a realizzare per il cardinale francese Jean de Bilhères de Lagraulas “una Pietà di marmo...con Cristo morto in braccio”, a grandezza naturale, per la somma di 450 ducati d’oro.
L’opera giunse nella sua sede definitiva, la Basilica Vaticana, solo nel 1749, per volere di Benedetto XIV.
Il gruppo scultoreo - che non segue il racconto dei Vangeli, ma sembra piuttosto essere un’interpretazione popolare, sorta all’interno della devozionalità tardo medievale, di quello che sarebbe potuto accadere dopo la deposizione di Gesù dalla croce, è l’unica opera firmata di Michelangelo.
Non a caso, a proposito del fruttuoso sposalizio - che trova compimento in questa grandiosa opera del Buonarroti - tra la tradizione plastica del Quattrocento e la bellezza dell’arte antica, il Vasari scriveva: “Certo è un miracolo che un sasso da principio, senza forma nessuna, si sia mai ridotto a quella perfezione che la natura a fatica suol formar nella carne”.
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